La competizione tecnologica fra USA e Cina: chi vincerà?
di Salvo Ardizzone - 16/06/2025
Fonte: Italicum
È cosa risaputa che, sul finire dell’era bipolare, gli Stati Uniti abbandonarono l’economia reale, la manifattura, per virare sulle attività più remunerative: finanza, servizi e tecnologie avanzate, mantenendo il controllo degli snodi del commercio grazie alla propria Marina. Insomma, da un canto riservavano a sé ciò che era più lucroso in prospettiva, dall’altro, con la talassocrazia e lo strumento militare, tenevano in pugno le attività altrui. Così inaugurarono l’era unipolare, in cui la supremazia economica, commerciale, tecnologica e militare americana sembrava destinata a durare per sempre. Ma nella realtà nulla dura per sempre, meno che mai quando chi esercita l’egemonia pensa a sfruttarla come fosse naturale privilegio e non si cura di coltivarla.
Oggi, dopo meno di quarant’anni, le cose sono molto cambiate: la talassocrazia americana è quanto meno azzoppata, di certo umiliata; vedasi la vicenda del Mar Rosso che gli Stati Uniti hanno ingloriosamente chiuso accordandosi, e non con una potenza riconosciuta primaria ma con la Resistenza yemenita. Del resto, il predominio militare degli USA, a lungo dato per assoluto e scontato, è oggi tutt’altro che certo, e sono i vertici americani ad affermarlo, vedasi le dichiarazioni rese qualche mese fa al Congresso da Tulsi Gabbard e quelle, ancor più significative, del sottosegretario alla Difesa Elbridge Colby.
Né in campo economico le cose vanno meglio; come abbiamo già più volte sottolineato, è l’evidenza a gridare che gli USA hanno un debito fuori controllo, che la loro finanza sta divorando se stessa e che gli Stati Uniti, nel loro complesso, vivono da decenni ampiamente al di sopra delle loro possibilità. E gli sconquassi conseguenti ai dazi, con ciò che ne segue, al netto di dichiarazioni roboanti, sono assai più prova d’un sistema che scricchiola – ma tanto - piuttosto che manifestazione di potenza imposta. Incrinati, se non peggio, gli altri pilastri, agli USA resta l’ultimo cui s’aggrappano con la consapevolezza che è il presidio finale, l’ultima leva del proprio potere: il dominio tecnologico e informatico.
S’è detto molto, e a ragione, dello strapotere del dollaro e di come oggi sia contrastato, delle sanzioni, delle battaglie commerciali e finanziarie per mantenere una supremazia ormai apertamente contestata. Assai meno si parla di come e quanto, ancora oggi, gli Stati Uniti abbiano un enorme potere in campo tecnologico. Quantomeno su una vasta parte del mondo.
Per fare un banale esempio, se volessero annettersi unilateralmente la Groenlandia, o mettere in ginocchio il Canada, basterebbe che Trump emetta un ordine esecutivo che imponga alle aziende americane – Google, Amazon, Microsoft, ecc. ecc. – d’interrompere la fornitura di servizi digitali. I paesi colpiti, semplicemente, si spegnerebbero: non funzionerebbero più messaggistica, sistemi operativi, cloud, posta elettronica, elaborazione dati e via discorrendo. È un potere enorme, assolutamente determinante nella sfera occidentale. Il fatto è che altrove – in Cina soprattutto – l’hanno compreso e si stanno rapidamente attrezzando. Anzi, l’hanno già fatto. Di qui la battaglia in corso.
Di fatto, l’America non produce quasi più hardware (a dire il vero, fabbrica ormai molto poco in generale, ed è questo l’urlo di dolore dei tecno-capitalisti alla Marc Andreessen), anche i mitici semiconduttori, a non parlare dei dispositivi fisici, sono costruiti altrove. Ma è ancora in grado di produrre software e tecnologia, che generano soldi, valanghe di soldi, e mantengono in alto la borsa americana e, con essa, la finanza degli USA. È l’ultima ridotta, l’ultima trincea rimasta a difenderli. Ancora oggi, ma non si sa per quanto. E ciò per molteplici ragioni.
In primo luogo, perché un tale meccanismo – per le dimensioni necessarie ad alimentarlo - può funzionare solo se applicato su scala planetaria, il mercato americano non basta. Ma sono gli Stati Uniti ad aver spezzato le reti della globalizzazione create da loro stessi, nel tentativo di difendersi da chi ha imparato a giocare meglio al loro gioco. E poi c’è l’Intelligenza Artificiale, oggi - e domani - la partita delle partite che sta cambiando tutto. È un passaggio epocale e rivoluzionario che può ridimensionare o perdere chi finora ha occupato posizioni dominanti.
Negli Stati Uniti, per cultura e naturale inclinazione, si crede ciecamente al paradigma della neural scaling law, ovvero, si crede che quanto più si investa in risorse, dati e potenza di calcolo per “addestrare” una rete neurale, quanto maggiori saranno i risultati. Con ciò dando origine a una corsa al gigantismo e alla spesa: il solo progetto Stargate messo insieme da Oracle e OpenAi prevede 800 miliardi di spesa. E non è affatto l’unico, perché tutti i big dell’industria americana del software si sono lanciati in una gara per primeggiare nell’Intelligenza Artificiale. Con investimenti mostruosi, fuori scala anche per il mercato finanziario USA. Tali che un errore danneggerebbe irreparabilmente l’intero comparto. Che è interconnesso. Ma, a prescindere dal rischio, che è oggettivamente assai alto, c’è l’eventualità, molto concreta e già dimostrata, che qualcuno cambi i parametri del business mettendo tutti gli altri fuori dai giochi.
È quanto ha dimostrato DeepSeek. Non starò qui ad annoiare provando a spiegare ogni passaggio, dico solo che la start-up cinese, invece di seguire l’approccio americano, ha dimostrato tecniche incomparabilmente più efficienti a costi infinitamente inferiori. Qui non si parla della singola app, ma dell’originalità dell’approccio concettuale per realizzarla. Una via che può avere conseguenze dirompenti per il comparto tecnologico americano, vanificando il suo monopolio.
In pratica, come ha dichiarato recentemente con terrore Google, con lo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale non esistono “recinti protettivi” o barriere insormontabili che nel futuro garantiscano il predominio americano. Esattamente ciò che ha affermato Liang Wenfeng, il giovane fondatore di DeepSeek, quando ha sostenuto che di fronte a innovazioni dirompenti, fuori dagli schemi, i codici chiusi, le barriere dietro cui i colossi della tecnologia americana esercitano il loro monopolio, non reggono, vengono aggirati.
Per ora, benché la Cina abbia moltissimi informatici e aziende di primo piano in tutti i settori dell’Hi-Tech, raggiungere le vette estreme delle tecnologie americane non è all’ordine del giorno, semplicemente perché a Pechino non serve. Il suo modello industriale è basato, e per il momento continuerà a esserlo, sulla produzione di beni tecnologici. E su questa via, il modello cinese è imbattibile per dimensioni, economie di scala, eccellenza logistica e produttiva. Trump, o chi per lui, può mettere tutti i dazi immaginabili, ma è impensabile che gli USA costruiscano una base industriale anche alla lontana paragonabile a quella cinese. Non fosse altro per l’enorme abbondanza di mano d’opera specializzata. Mentre è del tutto possibile che Pechino raggiunga, o anche superi, Washington nel campo dell’Intelligenza Artificiale adottando procedure “originali”.
E ciò perché mentre gli americani rimangono attaccati ciecamente al paradigma della neural scaling law - con tutti i suoi costi e pericoli - come fosse la regola aurea, nulla esclude che nuovi approcci, fuori dagli schemi come quelli intrapresi con successo da DeepSeek, producano – anche nel brevissimo periodo – risultati rivoluzionari. Che peraltro, per adesso, alla Cina non servono. Cercherò di spiegarlo.
Il mercato cinese di prodotti tecnologici è di per sé enorme, il loro cuore è costituito dai semiconduttori; secondo diverse stime, nel 2025 il mercato dei chip del Celeste Impero raggiungerà i 200 miliardi, 300 entro il 2030. Una quota pari ad almeno il 30% del mercato mondiale. L’industria locale è quasi autosufficiente in alcuni comparti della loro lavorazione, ma presenta lacune nelle tecnologie per la miniaturizzazione più estrema. E ciò a causa delle sanzioni, dazi e barriere poste dagli Stati Uniti, che vietano l’esportazione in Cina dei prodotti e macchinari più avanzati. Spicca, fra tutti, il divieto posto arbitrariamente all’olandese ASML, unica produttrice mondiale di taluni macchinari essenziali, di venderli a Pechino (con ciò dimostrando, per l’ennesima volta, che il rules-basedorder funziona solo se a favore degli USA).
Il problema non è solo la disponibilità di macchinari; i semiconduttori, prima di poter essere lavorati e assemblati, devono essere progettati, e in questo ambito sono gli USA che mantengono il primato, ed è dal 2018 che hanno posto crescenti barriere per limitare il trasferimento di tecnologie sensibili. Barriere adottate nel tempo, su pressione di Washington, anche da altri soggetti come Taiwan, Giappone, Corea del Sud o Unione Europea (ancora tanti saluti alle regole del mitico mercato). Per questo, la Cina continua a fare affari con aziende del calibro di TSML o Nvidia – recentemente, Jensen Huang, co-fondatore e presidente di Nvidia, ha detto chiaramente che non si sogna di perdere il mercato cinese – ma deve limitare l’importazione dei prodotti di punta.
L’Impero del Centro ha reagito in maniera duplice: da un canto ha cominciato a porre limiti all’esportazione di materiali critici, essenziali per le produzioni tecnologiche, di cui ha praticamente il monopolio (e questi limiti stanno facendo male – tanto - ai suoi rivali: Trump, dopo aver imposto coreografici dazi del 145% è stato costretto a fare rapida marcia indietro). Dall’altro, ha stanziato grandi capitali e varato un poderoso piano di espansione infrastrutturale in tutti i segmenti della filiera.
Naturalmente tutto questo non risolverà del completamente il problema, quantomeno non da subito, ma il sistema Cina ha già dimostrato di saper porre in campo soluzioni alternative quanto originali, in grado di sviluppare le tecnologie che le servono e aggirare le sanzioni. Già nel 2023 aveva introdotto processori da 7 nanometri e sta giungendo a quelli da 5. Ancora lontani da quelli da 2, prodotti da INTEL, TSMC o Samsung, certo, ma non ne ha bisogno, perché a oggi non le serve svenarsi per assumere un ruolo di punta in questo ambito a livello globale. Le basta e avanza averlo nella fascia alta dei cosiddetti chip maturi. “Legacy”, come dicono quelli bravi. Ovvero, quelli che trovano applicazione in un’infinità di settori, come quello automobilistico, industriale, elettronico, e che impattano nella vita quotidiana degli abitanti del globo. Tutti. Costituendo il più grande mercato pensabile. E qui veniamo alla riflessione finale, che spiega l’attitudine pragmatica della Cina.
Pechino non punta a una supremazia tecnologica fine a se stessa ma alle applicazioni pratiche della tecnologia. Punta a produrre masse enormi di manufatti elettronici di alta gamma, realizzando economie di scala come solo lei è in grado di fare. In altre parole, facendo il mercato e occupandolo. Applicando le tecnologie che servono nel mondo reale. E, se trova un ostacolo giudicato di sistema, vi si applica con tutta la sua forza. È questa la differenza principale: a muoversi, non è un’azienda – o un consorzio di aziende – in concorrenza con altre che si batte per i dividendi degli azionisti; al dunque, è un sistema che trova soluzioni di sistema per raggiungere obiettivi comuni. Che non prende rischi inutili e sa ragionare fuori dagli schemi.
Del resto, anche nel campo delle tecnologie di punta, la catena del valore che rende, o può rendere possibile, l’Intelligenza Artificiale non esiste senza la Cina. Peter Thiel, patron di Palantir e tecno-vassallo di Trump, lo dichiarò già nel 2019: non è possibile tornare indietro nel tempo, la centralità debordante di Pechino è un dato di fatto ormai assodato, come lo è la dipendenza americana dalla manifattura asiatica, leggi: cinese. Come è pio desiderio pensare d’importare negli USA il sistema di produzione asiatico. Il danno è fatto: l’avidità ha segato ampiamente il ramo su cui gli Stati Uniti erano comodamente seduti e oggi è del tutto inutile che l’establishment americano recrimini.
Nel frattempo, mentre l’America si agita e gioca il tutto per tutto per rimanere al vertice, la Cina avanza senza dare nell’occhio, solo quel giusto per mandar segnali (vedi l’improvviso lancio di DeepSeek che ha fatto traballare OpenAi e con essa la Borsa di New York) sviluppa modelli di Intelligenza Artificiale paragonabili a quelli americani e si posiziona in testa nei settori strategici. Se c’è da fare una scommessa, il futuro sembra suo.