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La condanna

di Lorenzo Merlo - 08/06/2025

La condanna

Fonte: Lorenzo Merlo

Dal sangue alla bellezza.

Così come siamo condannati a vedere il mondo dalla postura eretta, ad afferrare con le dita, lo siamo anche a essere con ed entro il pensiero, i sentimenti, le emozioni e concezioni.
Così come la postura eretta e le dita non ci lasciano alternative se non in un risibile esercizio virtuoso, ugualmente vale per il pensiero, senza esso e i suoi autobiografici contenuti non siamo noi.
È pur vero, anche, che un nano o un uomo basso, uno particolarmente alto, o un altro senza dita, vivrà e descriverà il mondo in modo differente dai più comuni individui di media statura e forniti di estremità compiute. Ciò non sottrae valore al principio della condanna, semmai lo esalta. 
La condanna è una sorta di canale, di alveo, il cui contenuto, e ciò che vi galleggia o viene trascinato, è destinato a rispettare e/o a subire le circostanze che l’andamento del canale stesso gli impone.
È facile riconoscere in noi stessi il funambolo in equilibrio sul filo rosso che marca la nostra vita. Perderlo, cadere, è morire. Affinché ciò non accada, siamo disposti a infrangere le norme e a tradire noi stessi. La sola alternativa è accettare, assorbire gli urti che altrimenti ci butterebbero giù. 
Quanto detto voleva tratteggiare la figura della condanna che, come una veste, sempre ci contiene e, come un copione, sempre ci impone un ruolo. 
Si tratta di un’osservazione di grana grossa, disponibile a chiunque si trovi motivato a vedere cosa cela la nebbia delle apparenze. 
Nell’oscurità della mondanità sono depositati e occultati tutti i segreti della vita. Quando il buio si infittisce, le prospettive rivelatrici, più sottili o effimere in quanto fuggevoli, ancora più facilmente restano lontane dalle vibrisse della consapevolezza.
Accade, allora, che la loro potenziale e implicita illuminazione esistenziale resti immobile come il chicco di acacia in attesa della pioggia sahariana.
Uno dei semi più insoliti a radicarsi in noi corrisponde a fiori per lo più mai visti, la cui fragranza non è purtroppo nota alla maggioranza, la cui bellezza ci ferma il respiro e i pensieri, la cui forza muta il corso degli alvei, spegne l’araldo egoico dell’interesse personale e degli sterili saperi di superficie, accende di conoscenza il filo rosso della biografia, e ci sospinge al grande mare della conoscenza.
È il seme che ci dischiude la condanna della dimensione logico-razionale del linguaggio, con cui crediamo di poter indagare, trovare e descrivere la verità della realtà, del prossimo, del mondo, di tutto. Di noi stessi e per di più credendoci, un po’ come riconoscere le facce nelle nuvole, senza la consapevolezza che si tratta di un momento soltanto.
Osservare come la scatola logico-razionale – in cui abbiamo dogmaticamente rinchiuso l’infinito che non sappiamo di essere – ci imponga e determini in noi una concezione esistenziale in essa esaurita, diviene necessario per riconoscere in che termini il criterio di conoscenza logico-razionale, più che essere supremo, come il pensiero scientista sostiene e vanta, sia risibile, solo uno dei più, e tra questi il più superficiale e banale. Esso è, infatti, assai efficiente entro il piatto mondo euclideo e cartesiano dove tutto è misurabile e dove solo il misurabile ha dignità di verità, realtà, esistenza e conoscenza. Tuttavia, perde il suo potere nel momento in cui cadiamo nella consapevolezza che la dimensione meccanicista non si presta a descrivere il mondo e l’uomo, ma solo alcune circostanze di essi, svelandoci così le forze che agiscono e di cui siamo costituiti, che non possono stare sui vetrini dei laboratori, che non si rivelano con il tornasole.
Emancipati dalle prepotenze dei saperi cognitivi, dall’indagine analitica della realtà, ci si trova, allora, sulla soglia della conoscenza evolutiva, la sola utile alla creazione di una storia che possa sostituire il sangue con la bellezza.