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La guerra civile, il carcere, il dono di cambiare: non serve sparare per cambiare il mondo

di Francesca Mambro - 10/04/2023

La guerra civile, il carcere, il dono di cambiare: non serve sparare per cambiare il mondo

Fonte: Il Sussidiario

Tempo di passione ma anche di rinascita e liberazione, che sia Pasqua o Pesach, avverto che un filo unico riesce a tenere insieme questo tempo con le sue storie e i suoi protagonisti, e siamo tutti comprensibilmente preoccupati e non riusciamo a capire perché il male sia sempre in agguato.
Guardiamo al passato e speriamo di leggervi i prodromi di un futuro sicuro per noi e le nuove generazioni. Alla richiesta del Sussidiario di raccontare la mia storia capisco che c’è domanda di dare un nome ai passaggi della vita e di riprendere il filo di una memoria che dovrebbe essere tesoro e custode di tutte le cose. Memoria del passato purché sia narrato con verità.
Sono figlia di una generazione che usciva dalla guerra in un Paese non pacificato dove la Storia, quella che dovrebbe essere testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra di vita, è stata raccontata dai vincitori. In modo unilaterale e nel solco di una guerra fredda dove siamo stati terreno di scontro. Ci fu chi accolse la nostra entrata nella Nato e l’influenza americana come una benedizione per il boom economico e chi avrebbe voluto che l’Italia fosse un protettorato sovietico, di una governance comunista stalinista di lingua russa.
A tutti i vinti veniva imputato di aver provocato il disastro della guerra e se si era conservatori, nel senso che si conserva anche ciò che di buono era stato condiviso, si veniva automaticamente marchiati di fascismo. Successivamente anche di nazismo. Al peggio non vi è mai fine. La mia era una famiglia semplice, dove la pietà cristiana era praticata e l’importanza delle amicizie significava accettare le persone come sono, l’ospitalità un valore sacro con un senso profondo della giustizia mai separato dalla grazia e il lavoro, unito al sacrificio, erano la regola. Mia madre e mio padre durante la guerra non si erano tirati indietro dal nascondere quegli italiani che se catturati sarebbero stati passati per le armi. I loro racconti erano la storia del Paese e noi bambini conoscevamo dalle storie di vita cosa fosse accaduto e perché la signora Celeste, l’amica del cuore e vicina di mamma, parlava delle sue belle sorelle mostrandoci solo delle fotografie. La sua famiglia non c’era più e quando si andava al cimitero del Verano non potevamo lasciare fiori, la loro tomba era la terra dei campi. Lessi il suo terrore quando fummo oggetto di attentati dinamitardi da parte della volante rossa del quartiere dove abitavamo, e anche se era una piccola casa popolare abitata da adolescenti l’antifascismo non faceva differenze. Erano gli anni 70, quando uccidere un fascista non era solo uno slogan ma una pratica legittimata dalla storia di un Paese che non guardava avanti ma rivolto al passato e voleva regolare i conti con chiunque non fosse schierato dalla parte giusta, anche se di fascista non aveva né passato e né presente. Essere un nemico non era una bella sensazione, soprattutto se questo coinvolgeva i miei genitori e i miei fratelli, che se avevano una colpa era quella di una sorella che frequentava ragazzi di destra delle formazioni giovanili scolastiche di allora, come il Fronte della gioventù.
Anni di scontro generazionale tra giovani di destra e di sinistra, dove potevi restare ucciso per un volantino o bruciare vivo dentro casa, come accadde ai fratelli Stefano e Virgilio Mattei, perché eri figlio di un lavoratore netturbino ma anche segretario della sezione del Msi del quartiere popolare di Primavalle a Roma.
Adolescenza senza discoteche ma con lutti e funerali. Nessuna giustificazione, nessun tentativo di rendere le mie scelte meno gravi. Memoria del passato che è tesoro e custode di tutte le cose. Ma la memoria è anche conoscenza e ci consente di capire il nostro vissuto e il presente in modo consapevole.
Un passato che avrebbe potuto essere molto diverso. Forse. Se fossi nata in una tranquilla cittadina di provincia. Magari avrei seguito la strada che mi aveva indicato mio padre maresciallo, una carriera in polizia e poi in magistratura minorile. Niente di tutto questo. La sopravvivenza dei miei amici e l’idea di poter cambiare il mondo e renderlo un luogo più giusto mi ha portato a legittimare la violenza politica con quella lente distorta dove vuoi essere migliore ma sai, nel tuo essere più profondo, quanto fare del male sia sbagliato e speculare al peggiore. Amavo i miei amici ed essere minoranza mi faceva sentire dalla parte giusta. Commisi molti reati di natura politica, ma a Bologna non sarò mai io ad abbassare lo sguardo. E nonostante i processi dalle migliaia di carte che non spiegano e che tentano di puntellare il dogma “ragazzi di destra uguale stragisti”, so che fino al mio ultimo respiro sarò testimone che la verità non è stata raccontata al Paese e ai familiari delle vittime. Tutte, anche quelle che oggi pagano lo stigma dell’essere parenti e prossimi ai condannati.
Non ho mai detto che non avevo le mani sporche di sangue, perché non vi è differenza tra chi ha sparato e chi ha condiviso la scelta di togliere la vita ad un altro essere umano. Mi sono assunta tutte le responsabilità politiche e penali delle azioni riconducibili al gruppo di amici armati di cui ho fatto parte e quando a 22 anni sono rimasta ferita, moribonda durante una rapina di autofinanziamento, sono finita con cento terroriste di sinistra al carcere duro. Ero anch’io una sopravvissuta. Ho conosciuto altre ragazze e quando dicono che si cambia, ecco, in questo sono rimasta la stessa. Riconosco il bene e chi lo porta con sé e quanto sia vitale esercitarlo e condividerlo, e non bisogna mai fermarsi davanti alla prima impressione, mai pensare che tutto sia perduto per le scelte ingiuste fatte e ricevute.
Quando non sai cosa accadrà della tua vita arrivano grazie non richieste. Anche quella del carcere fu un’inaspettata scuola di sopravvivenza, ma soprattutto occasione per amicizie impensabili che ancora oggi sono fortissime, che siano esse appartenenti alle ex formazioni terroriste di sinistra o al mondo della politica, dell’avvocatura o del giornalismo. Un lungo percorso di riparazione che ancora prosegue convintamente. La vita si è mostrata in tutta la sua misericordia. Non siamo morti come i nostri amici e negli anni del carcere siamo riusciti a restare sani di mente, a non tradire noi stessi, a non suicidarci per un’accusa di stragismo che ci sacrificava sull’altare della necessità storica, a non perdere quel senso di appartenenza al genere umano che riesce a muovere la nostra parte migliore.
Sono stati 20 anni di carcere e 10 in misure alternative fino al 2012, quando sono stata liberata dalle leggi di questo Stato e grazie ad un codice penale allora “garantista” la mia pena è, come si dice in termini giuridici, “estinta”. Nel senso che non ho pendenze. Ho “precedenti”, certo, ma non pene in sospeso. Questo è successo perché chi all’epoca scrisse la Costituzione, qualche anno prima, sotto il fascismo, magari era stato in carcere, e quindi era stato molto attento a disegnare sia una Costituzione che un codice penale che prevedesse la “non morte civile” del reo. Ma c’è una pena che non finisce mai. Il dolore per chi non c’è più e per quello che i nostri occhi hanno visto.
Oggi abbiamo una figlia di 22 anni, la stessa età di quando siamo entrati in carcere. Io e Valerio ringraziamo la vita e chi allora ha sentito la responsabilità umana e sociale di quei figli che non erano corpi estranei ma parte della storia di questo Paese. Un’altra opportunità ci è stata offerta e noi l’abbiamo colta e cerchiamo di ridare il bene conosciuto, perché le opere di misericordia sanno tenere insieme il tempo. La memoria umana, seppur meravigliosa, può fallire, ma io so che si può ricominciare.