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La guerra semantica (prima parte)

di Roberto Pecchioli - 22/08/2022

La guerra semantica (prima parte)

Fonte: EreticaMente

La guerra semantica è la lotta per il significato delle parole. Chi possiede le parole- ovvero riesce ad attribuire a un termine (il significante) il significato che diventerà comunemente accettato e utilizzato- vince non solo la guerra delle parole, ma possiede il passato, determina il presente e orienta il futuro. L’ipertrofia delle immagini rende oggi più difficile contrastare i cambiamenti di significato (e non di rado di significante) di molte parole e concetti. L’ Homo videns (Giovanni Sartori) vive di immediatezza, di strumentalità, concepisce il linguaggio esclusivamente come mezzo e tende a non porsi domande.
La lettura, al contrario, stimola il pensiero astratto e chi legge è molto meno manipolabile di tutti gli altri. Il politicamente corretto avrebbe avuto difficoltà a diffondersi a macchia d’olio con stupefacente rapidità se la massa fosse formata da lettori, anziché da telespettatori e recettori passivi di suoni e immagini. Costoro pensano pochissimo, dunque sono facili prede della mistificazione anche sul terreno minato delle parole e dei significati. Guerra semantica è un concetto coniato negli anni Settanta da un intellettuale argentino, Carlos Disandro, riferito alle trasformazioni di significato che si stavano verificando nel lessico della Chiesa cattolica per iniziativa della corrente modernista.
Al di là della polemica intracattolica, linguaggio, ideologia e potere sono profondamente collegati e il vincitore della guerra delle parole è colui che deterrà l’egemonia su un popolo o su una cultura. Il vocabolo semantica proviene dal greco e vuol dire appunto “significato”. L’atto di dare un nome a cose e concetti è un gesto istituente: nella tradizione biblica Dio dà a Adamo il potere di dare il nome agli elementi del creato. Nel Corano la funzione è attribuita direttamente a Dio, che dando il nome alle cose, le dota di senso e di significato, le rende vive, non più inerti. Nella tradizione orientale, Confucio, a chi gli chiedeva quale sarebbe stato il suo primo provvedimento se avesse avuto incarichi di governo, rispose che avrebbe “rettificato le denominazioni”.
 “Se le denominazioni non sono corrette, se non corrispondono alla realtà, il linguaggio diventa senza oggetto, per cui l’azione diventa impossibile. La verità confuciana è evidente in un mondo che non solo ha distorto e capovolto significati e proibito parole, ma alimenta una confusione insopportabile. Non esiste più la concordanza tra la parola e la cosa; […] pullulano neologismi ingannevoli a base di bi, poli, multi, inter, trans. L’inversione o la semplice modifica delle denominazioni, dell’ordine del discorso, cambia profondamente la psiche umana, confondendola prima di impoverirla. Lo sapeva un altro gigante dell’antichità cinese, Lao Tze: più vi sono interdetti e proibizioni, più il popolo s’impoverisce. Ogni potere ha l’ambizione di produrre un linguaggio proprio, al quale il popolo si deve uniformare: è il potere di stabilire, attraverso le parole, il lecito e l’illecito.
Dietro la grancassa della libertà e della democrazia, l’epoca contemporanea non si comporta diversamente, attraverso un proibizionismo malamente celato che dichiara illegali certi pensieri e determinate parole, nonché i sentimenti non conformi all’ordine del discorso. Non si tratta di un potere simbolico: il potere culturale comanda segretamente tutti gli altri, orientando la rappresentazione autorizzata della realtà che Freud chiamò Super Io. Il Super Io postmoderno ha una architrave nel linguaggio e nel pensiero della correttezza politica. Il politicamente corretto è l’operazione di ingegneria linguistica e metaculturale per mezzo della quale vengono ridefiniti i significati di parole e concetti chiave, in modo da riformulare l’immagine del mondo della massa. (R. Pecchioli, Dizionario del politicamente corretto e della neolingua, Effepi. 2020).
 Non è quindi esagerato usare la locuzione guerra semantica poiché ogni disputa sui termini è preceduta da una discordanza intorno alle idee. Chi la vince esercita l’egemonia culturale, quindi il potere politico oltre i governi e le generazioni, come sapeva Antonio Gramsci.
 Se scaviamo in profondità sui significati, rileviamo che le persone e i gruppi sociali possono pronunciare le stesse parole ma riferirsi a cose e concetti diversi e persino opposti. È qui che si svolge la guerra semantica. Il potere la gestisce efficacemente perché ne conosce le molle psicologiche. Spiazzati, coloro che difendono la corrispondenza della parola con la realtà- ovvero chi continua a vedere con i suoi occhi – sono troppo spesso sulla difensiva, finendo per parlare con le parole del nemico, ossia descrivono il mondo con occhi altrui.
Occorre riuscire nell’operazione contraria: tornare a far parlare gli altri come noi, ovvero ripristinare- rettificandole- le denominazioni, come aveva capito Confucio. Quando parliamo come il nemico, stiamo arretrando, stiamo perdendo la partita. Questa è la chiave della guerra semantica. Gli esempi sono innumerevoli: riflettiamo sul significato vero e su quello che viene diffuso, di termini come tolleranza, diritti, genere, o su locuzioni e sintagmi inventati per produrre confusione prima, sentire positivo o neutralizzazione dei significati dopo: fine vita, interruzione volontaria di gravidanza, matrimonio ugualitario.
L’arte della manipolazione della parola ebbe un geniale maestro nel truce Lavrenti Beria, collaboratore di Stalin poi ucciso a freddo durante una riunione del Comitato Centrale del Partito Comunista Sovietico. Beria, maestro di psicopolitica, disse chiaramente che l’obiettivo numero uno era produrre il massimo caos nella cultura nemica.
Nietzsche dice che la ragione è una “vecchia imbrogliona” penetrata nel linguaggio, poiché questo riflette una struttura razionale del mondo. Arrivò ad asserire “temo molto che non potremo liberarci di Dio finché continueremo a credere nella grammatica”. Più vicino a noi, un influente agente del caos fu Herbert Marcuse, esponente della velenosa Scuola di Francoforte che Gyorgy Lukàcs chiamò Grand Hotel Abisso. Per l’autore dell’Uomo a una dimensione, guru del Sessantotto, fondamentale è “rompere con l’universo linguistico dell’ordine costituito”.  Ecco come lo spiega: “È un fenomeno noto che i gruppi sottoculturali sviluppino il proprio linguaggio, togliendo dal loro contesto le parole innocue della comunicazione quotidiana e usandole per designare oggetti o attività che sono state trasformate in tabù dal sistema stabilito. Questa è la sottocultura hippie: trip (viaggio, ovvero l’uso della droga) erba (la marijuana e altre sostanze psicotiche vegetali) pot (cannabis), acid (l’acido lisergico o LSD, la droga artificiale degli anni Sessanta e Settanta) eccetera.” Priorità fattuali e linguistiche che la dicono lunga sulle derive che hanno innescato, ma qui importa mostrare un sistema consolidato di utilizzo delle parole in cui il mondo di Marcuse, per contrastarlo, riorganizzava le parole in un diverso contesto. Marcuse spiega che si tratta di promuovere “una ribellione linguistica sistematica, che frantuma il contesto ideologico in cui le parole sono usate e definite, e le colloca nel contesto opposto: una negazione di quello stabilito”. Parlò addirittura di “terapia linguistica, cioè il compito di liberare le parole (e quindi i concetti) dalla totale distorsione dei loro significati operata dall’ordine costituito. Esige lo spostamento dei criteri morali (e la loro convalida), sottraendoli dall’ordine stabilito, e la rivolta contro di esso”. Cambia le parole per provocare una rivolta, una rivoluzione.
 La rivoluzione, marxista, sessuale e psicanalitica per Marcuse, mentre oggi è direttamente globalista- ha i suoi indicatori. “Il grado in cui una rivoluzione sviluppa condizioni sociali e relazioni qualitativamente diverse può forse essere indicato dallo sviluppo di un linguaggio diverso: la rottura con il continuum del dominio deve anche essere una rottura con il vocabolario del dominio.”
 Ecco svelata l’origine del politicamente corretto: il linguaggio della post borghesia rivoluzionaria nei costumi e conservatrice nel campo economico imposto come cammino obbligato verso la cancellazione della cultura europea e occidentale. Uno dei diritti più effettivi del Sovrano, soggiunge Marcuse, è il diritto a stabilire definizioni coercitive delle parole. In parole semplici, chi comanda stabilisce il significato, l’uso e la proibizione delle parole. Lo intuì Lewis Carroll, l’autore di Alice nel paese delle meraviglie, introducendo il personaggio di Humpty Dumpty, buffo omino a forma di uovo il cui eloquio è incomprensibile alla piccola Alice.
 La questione è illuminante: “quando io uso una parola, spiega Humpty Dumpty – metafora del potere di ogni tempo – essa significa esattamente ciò che io voglio che significhi. All’osservazione di Alice che le parole possono avere tanti significati, l’ometto replica: quando faccio fare a una parola un simile lavoro, la pago sempre di più.  Modernissimo, anzi contemporaneo. Potremmo dire che nelle parole di Humpty Dumpty c’è l’intero impianto teorico e pratico del politicamente corretto: la torsione delle parole per far assumere loro significati graditi al potere, padrone del linguaggio, anzi, per usare un’espressione a sua volta politicamente corretta, della narrazione; un potere che prende l’iniziativa e paga profumatamente settori sociali e personalità della cultura di servizio”. (R. Pecchioli, Dizionario del politicamente corretto e della neolingua)
Paulo Freire, ideologo dell’educazione e agitatore sociale brasiliano (1921-1997) inventò il concetto di parole generatrici. Si tratta delle parole chiave della comunità, come mattone, acqua, casa, carestia che, una volta apprese, suscitano una riflessione. In questo modo, il popolo si abituava a riflettere sul mondo circostante. Freire ne individuò ottanta, proponendo di ridurle a quindici. Sconcertante: si era sempre pensato che la cultura consistesse nell’imparare più cose. Freire credette di scoprire che la sua essenza è apprenderne meno. Ha cioè invertito il cammino di ogni civiltà conosciuta. La sua rivoluzione culturale produce una semplificazione totale: prima bisognava imparare almeno ottanta parole generatrici. Con quindici, si diventa semi analfabeti funzionali. Eppure anche per il positivista Wittgenstein i limiti del linguaggio sono i limiti del pensiero.
L’obiettivo del potere è dunque la nostra ignoranza, la compressione del nostro pensiero per possederlo, controllarlo, guidarlo, a partire dalle parole che usiamo. Ne era consapevole George Orwell che inventò in 1984 il personaggio di Syme, il cui compito all’interno del Partito (il potere…) è la redazione di un dizionario per dare alla lingua la sua “forma finale”, la “neolingua”. Interrogato dal protagonista, Winston, Syme – la voce del padrone –  fa una rivelazione di capitale importanza.
“Penserai sicuramente che il nostro compito principale sia inventare nuove parole. Niente di tutto questo. Quello che facciamo è distruggere le parole, centinaia di parole ogni giorno. Stiamo potando la lingua per lasciarla nelle ossa”. Syme dice a Winston che il vecchio linguaggio soffre di grande vaghezza poiché incorpora “inutili sfumature di significato”. Questa molteplicità deve essere tagliata alla radice: “non vedi che lo scopo della neolingua è limitare la portata del pensiero, restringere il raggio d’azione della mente? Alla fine, finiamo per rendere impossibile qualsiasi crimine mentale”. Cioè il libero pensiero. Syme conclude: “La rivoluzione sarà completa quando il linguaggio sarà perfetto”. Se rendiamo impossibile alle persone il pensiero, renderemo impossibile anche la critica. Senza pensiero, non c’è critica. E poiché si pensa con le parole, non si può pensare senza le parole.
 Nel momento in cui ci tolgono le parole e si ribaltano, rimaneggiano o pervertono i significati, chi comanda ci rende schiavi. L’avversario conosce il valore delle parole e padroneggia i saperi e le conoscenze della guerra psicologica condotta contro di noi.
 Per Platone il nome è l’archetipo della cosa. Se la cosa sta nella parola, diminuire la quantità delle parole significa diminuire le cose? Modificarle nella loro essenza? Distruggerle? Non del tutto, poiché l’ordine naturale è intangibile, l’ordine fisico ha le sue leggi e l’ordine artificiale non viene modificato magicamente quando parliamo. Tuttavia, non c’è dubbio che confondere i significati e ridurre il numero delle parole equivale a impedire che l’intelligenza umana veda, comprenda, impari, colga l’essenza delle cose.
 Se ogni parola porta in un certo senso un fuoco, se ogni locuzione irradia una luce, alterare il linguaggio – confondendo o cancellando le parole– lascia al buio per capire la realtà e attingere la verità. Gli uomini non possiedono più le parole e le definizioni precise. Impieghiamo- specie le generazioni più giovani- un lessico impoverito, impreciso, elementare, mentre la progressiva scomparsa dei tempi e dei modi verbali (congiuntivo, imperfetto, forme composte del futuro, participio passato) genera un pensiero declinato quasi sempre al presente, limitato al momento, incapace di proiezioni nel tempo. Man mano che il vocabolario si riduce, si perdono anche le sottigliezze linguistiche che rendono possibile il pensiero complesso.
 Meno parole e meno verbi coniugati (per di più utilizzati in maniera artefatta dalla correttezza politica e dalla brutale semplificazione della comunicazione di massa calata dall’alto) implicano minore capacità di esprimere le emozioni e scarsa possibilità di elaborare un pensiero.
Dell’intuizione di Orwell fanno tesoro i nemici della cultura e della libertà: senza parole per costruire un ragionamento, il pensiero complesso si fa impossibile. E anche la dissidenza, alla quale vengono sottratti i termini per esprimere, argomentare, descrivere se stessa. Juan Ramòn Jiménez, il maggiore poeta spagnolo del XX secolo, così invocava: intelligenza! Dammi il nome esatto delle cose!