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La lezione delle elezioni di ottobre: urne vuote, Popolo altrove?

di Stefano De Rosa - 21/10/2021

La lezione delle elezioni di ottobre: urne vuote, Popolo altrove?

Fonte: Italicum

L’astensionismo-record registrato nel voto amministrativo sembra sottintendere una disaffezione del corpo elettorale. Potrebbe trattarsi, invece, di una critica popolare contro una politica incapace di opporsi alle ingerenze della magistratura e della burocrazia al potere

Prescindendo dal relativo esito, il voto di ottobre per il rinnovo di molte amministrazioni locali è stato rappresentato come il primo significativo test elettorale svolto in Italia dopo la lunga stagione pandemica. Tuttavia – a nostro avviso – esso è stato anche il primo appuntamento politico intervenuto dopo la pubblicazione del libro-intervista di Luca Palamara, Il sistema, nello scorso mese di gennaio e l’avvento della tecno-finanza al governo dello Stato nel successivo mese di febbraio. La presa di coscienza o la conferma del duplice attacco alla politica da parte di finanza e partito dei pm con ogni evidenza ha accentuato nell’elettorato coinvolto la tendenza ormai pluridecennale ad un crescente astensionismo. Tale fenomeno favorisce fluttuazioni di consenso fortissime. Dal 1946 al 1992, in vigenza di legge elettorale proporzionale e con una partecipazione oscillante tra l’80 e il 90%, il sistema politico nazionale si dimostrò sostanzialmente immobile. La corta durata media di un governo, pari a circa nove mesi, non intaccò la saldezza dell’organizzazione statale e dei consolidati rapporti di forza partitici. Era una stabilità strutturale impermeabile ad oscillazioni di breve periodo. Persino le turbolenze politiche del 1975-1976 furono assorbite e superate in meno di un lustro, sebbene le ricadute legislative e socio-culturali di quella stagione siano state in grado di produrre conseguenze di più lunga e persistente durata. Comunemente l’esercizio del diritto di voto, a qualsiasi scala amministrativa, si coniuga ad un vivo sentimento politico di partecipazione. Di contro, astenersi da esso è letto come disaffezione politica. L’astensionismo registrato in questo ottobre elettorale potrebbe essere interpretato, invece, come “politico”, non “antipolitico”. Sul versante destro, la scelta dei cosiddetti candidati civici altro non ha rappresentato se non l’arretramento dei vertici politici dall’impegno al quale ha fatto da simmetrico contraltare il raffreddamento da parte di un elettorato sentitosi abbandonato e che in massa ha disertato le urne. Ma – ecco il punto – potrebbe aver giocato un ruolo decisivo anche la consapevolezza dell’inutilità o dell’irrilevanza del voto locale in un contesto nazionale nel quale le decisioni sono adottate dal “pilota automatico”, i governi nominati al di fuori delle regole democratiche e l’agenda politica scandita dai tempi delle azioni giudiziarie. È chiaro che l’elettore di sinistra non soffra i morsi dell’eurocrazia (Gentiloni, Sassoli, lo stesso Gualtieri sono espressioni del “pilota automatico” della tecno-burocrazia), e nemmeno l’invasione della magistratura militante nei territori della politica. È comunque cosa loro. I risultati delle urne hanno premiato le aggregazioni di centro-sinistra – soprattutto nei grandi centri urbani – non perché le coalizioni progressiste abbiano offerto un prodotto elettorale innovativo ed attraente. Lo ius soli, il ddl Zan, il voto ai sedicenni e l’inasprimento della tassa di successione – le proposte avanzate nei mesi scorsi dal Pd – più che programmi di sviluppo urbano, miglioramento di servizi e razionalizzazione amministrativa, hanno costituito la riproposizione di parole d’ordine ideologiche del repertorio di una sinistra vetero-elitista scollata dalle esigenze delle realtà locali. Il risultato vantato dalla sinistra, che infatti non ha aumentato i consensi in termini assoluti, è soltanto la conseguenza della diserzione dell’elettorato moderato. Non si è trattato, dunque, di un voto politicamente corretto, illuminato, progressista, ottimista e di sinistra, ma più prosaicamente del mancato esercizio del diritto di voto da parte di chi – sentitosi accerchiato da burocrazia e magistratura – avrebbe desiderato una vigorosa reazione più responsabile, più coraggiosa per difendere ed affermare il ruolo della politica. Il ricorso ai candidati civici, in sostanza, è stato percepito dai cittadini come ripiego per “non sporcarsi”, per mantenere il consenso già in cascina e tentare di erodere quello altrui, secondo uno schema di topologia elettorale lineare o forse piana, lungo le ascisse della geografia e le ordinate della sociologia. Ciò che la politica – non solo di destra – avrebbe dovuto esigere da se stessa è, invece, la terza dimensione, quella della profondità e della passione, che invece è mancata. Una profondità percorribile soltanto attraverso lo spessore di profili più attrezzati e politicamente connotati.