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Le foibe secondo Eric Gobetti: tra giustificazionismo e «storia a tesi»

di Corrado Soldato - 24/01/2021

Le foibe secondo Eric Gobetti: tra giustificazionismo e «storia a tesi»

Fonte: Il Primato Nazionale

Il recente libro sulle foibe di Eric Gobetti, pubblicato da Laterza (a prescindere dall’infelice scelta del titolo: la battuta E allora le foibe?, mutuata da un varietà televisivo, è francamente offensiva per la memoria delle vittime), pone innanzitutto un problema di classificazione. A quale genere storiografico appartiene il volume? Smilzo com’è (poco più di un centinaio di pagine, escludendo la sezione introduttiva e l’apparato bibliografico), non lo si può certo definire un saggio. Di quelli ponderosi e infarciti di note che usano pubblicare gli storici accademici. Non è nemmeno un testo di carattere monografico, del tipo che (magari in formato più ridotto) trova spazio nelle riviste specializzate. Gobetti non si limita infatti a trattare il tema specifico degli infoibamenti (e dell’esodo istriano, fiumano e dalmata). Spazia invece dall’assetto dell’Alto Adriatico in epoca veneziana e asburgica fino alla determinazione del nuovo confine italo-jugoslavo dopo la seconda guerra mondiale.

Le foibe secondo Gobetti: un esercizio di «storia a tesi»
E allora le foibe? è piuttosto – absit iniuria verbis – un libello polemico, un pamphlet, un classico esercizio di «storia a tesi». Il quale, a dirla tutta, espone il fianco a più di una critica. A un’attenta lettura, in effetti, il volume si rivela anzitutto superfluo dal punto di vista informativo. Questo sebbene l’autore pretenda, con una certa prosopopea, di averlo scritto «per chi non sa nulla della storia delle foibe e dell’esodo». In secondo luogo opinabile sul piano interpretativo, vale a dire non su quello della mera ricostruzione dei fatti, bensì della loro valutazione.
Esso inoltre inclina a un certo ingiustificato vittimismo nel denunciare, a latere della trattazione storiografica propriamente detta, una presunta censura messa in atto, da parte di media e istituzioni (oltre che dell’immancabile «destra neofascista»), a danno degli storici «non conformisti» di cui, a parere dell’autore, si vorrebbe «screditare il lavoro», impedendo loro «di parlare di un tema delicato, di contestualizzare il fenomeno, di raccontarlo in maniera corretta». Un’argomentazione, questa, che fa davvero sorridere, se sostenuta da chi pubblica con un editore (Laterza appunto) non certo marginale nel panorama librario italiano. E che suona persino ipocrita, nella misura in cui può essere ritorta contro chi, come l’Anpi (con cui Gobetti si presta volentieri a collaborare), invoca una pari, se non peggiore, censura nei confronti di chi osa sostenere interpretazioni «fuori dagli schemi» di altri eventi della contemporaneità.
La «contabilità» delle vittime: un approccio riduzionistico
Andiamo però con ordine, iniziando dal contributo di Gobetti alla ricostruzione di ciò che accadde nell’Alto Adriatico tra il 1943 e il 1945. Il fact checking dell’autore (quella «storia alla prova dei fatti» che è il sottotitolo) non aggiunge molto a quello che già si sapeva. Specie in termini crudamente quantitativi circa l’entità degli eccidi sul confine orientale.
Ammettiamo di non sapere da quali fonti alcune personalità citate abbiano attinto le cifre di un «milione» o di «centinaia di migliaia» di italiani uccisi. Si tratta, obiettivamente, di esagerazioni. La quantificazione numerica delle vittime dei comunisti titini in Venezia Giulia, in Istria e nel litorale dalmata è infatti disponibile, con tutte le sue varianti di calcolo, in svariate pubblicazioni. Nonché riportata nelle pagine di molti manuali scolastici.
Nelle due fasi temporali in cui si consumò il dramma degli italiani – quella degli eccidi istriani del 1943 (definiti incredibilmente da Gobetti una «parentesi di libertà») e quella delle uccisioni a Trieste e Gorizia nel 1945, contando inoltre i casi registrati in Dalmazia (diverse centinaia secondo uno storico autodidatta, ma che cita puntigliosamente le sue fonti, come Vincenzo M. De Luca[1]) – il numero degli assassinati (tra civili e militari, uomini e donne) oscillerebbe tra le 4mila e le 10mila unità, di cui almeno 1000 o più individui uccisi presso le foibe e in esse, oltre che nelle cave di bauxite, fatti sbrigativamente sparire (una cifra che potrebbe, peraltro, anche essere superiore, considerato che, come è noto, non fu possibile esplorare tutte le cavità carsiche e che, di conseguenza, è difficile stabilire con esattezza l’ammontare complessivo delle vittime)[2].

Non solo “infoibamenti”
Quando si parla di «foibe» dunque, si ricorre a una sineddoche, figura che consiste nel nominare una parte per indicare il tutto. Gobetti non si capisce per quale motivo ne faccia motivo di polemica, visto che, per sua stessa ammissione, un analogo artificio retorico – «le camere a gas» – è stato impiegato per la Shoah nel suo complesso. Non si ebbero infatti solo infoibamenti. La maggior parte delle vittime fu uccisa dai titini in altro modo. Chi tramite annegamento in mare (come a Zara, nel 1944). Chi stroncato dalla fame e dalle epidemie nei campi di internamento jugoslavi (come quello di Borovnica, in Slovenia).
Da questo punto di vista (come peraltro da quello della ricostruzione dell’esodo), Gobetti non è propriamente «negazionista». Più corretto definirlo «riduzionista», poiché elabora la «contabilità» scegliendo le cifre più funzionali a ridimensionare la tragedia. 400-500 uccisi in Istria nel 1943, 3mila-4mila tra Gorizia, Trieste e Fiume nel 1945. Numeri questi che, seppure al ribasso, non attenuano la portata del massacro, soprattutto se si considera che, in ogni caso, diverse migliaia di persone furono comunque soppresse in aree geografiche piuttosto circoscritte (l’Istria e le province di Gorizia e Trieste, oltre ad alcuni centri della costa dalmata) e in un arco temporale decisamente breve: «l’autunno del 1943 [dopo l’armistizio dell’8 settembre] per la durata di circa un mese, e la primavera del 1945 [a seguito dell’occupazione titina della Venezia Giulia], ancora una volta per poco più di un mese»[3].

Le foibe di Gobetti: la negazione della motivazione etnico-nazionale dell’eccidio
Veniamo ora all’aspetto propriamente interpretativo del volume sulle foibe di Gobetti. Esso è, come anticipato, un tipico esempio di storia «a tesi», per di più pervaso da un intento giustificazionista finalizzato ad attenuare la gravità dei crimini commessi dal partigianismo titino.
Le violenze jugoslave infatti, secondo l’autore, andrebbero valutate in base al principio metodologico. In sé corretto, ma che andrebbe poi applicato in modo uniforme e non selettivo, a seconda cioè delle «simpatie» ideologiche del ricercatore. Contestualizzandole in un’epoca di violenza diffusa. Ovvero nel generale «quadro di morte e distruzione che ha segnato gran parte dell’Europa nella prima metà del Novecento».
Tutti colpevoli e nessun colpevole dunque. Questo sebbene venga retoricamente da chiedersi se tale criterio sia valido o meno, secondo Gobetti, anche per le violenze di parte «fascista» commesse nella medesima congiuntura storica. Giustificazionismo a parte, comunque, l’obiettivo del libro appare un altro. Negare la motivazione etnico-nazionale degli eccidi nella regione alto-adriatica. «Le uccisioni commesse sul confine orientale nell’autunno 1943 e nella primavera 1945 – scrive infatti Gobetti – non possono essere in alcun modo considerate un tentativo di genocidio e le vittime non sono individuate in quanto appartenenti a uno specifico popolo» (quello italiano, s’intende).
Ora, sul valore semantico del termine «genocidio» si potrebbe discutere all’infinito. Ed è vero che tra le vittime della violenza titina vi furono non solo italiani, ma anche oppositori sloveni e croati. Oltre a membri della minoranza tedesca.

Canoni interpretativi dal sapore marxista
Il punto però non è questo. Il punto è che la perentoria affermazione di Gobetti si scontra sia con l’evidenza dei fatti, sia con quanto egli stesso ammette, tra le righe, in altri passaggi del libro. «Le vittime […] sono quasi tutte italiane», si riconosce per esempio nel caso della «parentesi di libertà» delle «foibe istriane» del 1943. Mentre in riferimento agli eventi veneto-giuliani del 1945, la violenza titina sarebbe stata funzionale «a intimorire quella parte della popolazione [la componente italiana] che non accetta[va] l’ipotesi di annessione della regione alla Jugoslavia», al punto che tra le vittime si contarono esponenti del Cln triestino che si erano opposti «alla leadership jugoslava sulla Resistenza» (ovvero, per esprimersi con maggiore chiarezza, che non erano disposti ad avallare il progetto titino di annessione di Trieste e delle terre veneto-giuliane).
Gli argomenti che l’autore porta a rinforzo di questa discutibile tesi sono peraltro deboli. Non vanno oltre il ricorso a categorie psico-sociologiche non suscettibili di verifica empirica. L’essere, per esempio, quella delle popolazioni italiane dell’Alto Adriatico una «nazionalità immaginata». Un’«identità mista», fluida, frutto di percezione soggettiva (o di pratiche assimilazioniste) più che basata su un solido dato etno-storico. Non solo. Dovendo comunque spiegare per quale motivo gli italiani furono le vittime privilegiate dei titini, Gobetti non trova di meglio che ricorrere ai desueti canoni interpretativi marxisti. Oppure richiamarsi alla prassi abituale dei movimenti comunisti nell’atto di prendere il potere.

Eccidi in nome della lotta di classe
Gli eccidi in Istria e in Venezia Giulia sarebbero così riconducibili, oltre che alla reazione delle popolazioni slave a decenni di (vera o presunta) oppressione italiana e fascista, ora a episodiche e cruente manifestazioni di «lotta di classe» (come il linciaggio di impiegati e capo-operai alla miniera di Arsa), ora al progetto più articolato di colpire non gli italiani in sé, ma «i rappresentanti dell’élite politica e sociale italiana» (accusati in blocco di collusione con il regime fascista, ma di fatto potenziali oppositori a un futuro regime comunista nell’area alto-adriatica).
Il problema è che, con eccessiva disinvoltura, in questa categoria Gobetti fa rientrare, non solo gerarchi e prefetti, ma anche «carabinieri, […] postini e insegnanti» (oltre ai militi della guardia di finanza), senza contare ragazze come Norma Cossetto, che sarebbe stata assassinata dai partigiani jugoslavi «solo» per la sua «appartenenza familiare e politica» (ovvero perché figlia di un dirigente fascista locale).
Insomma, secondo l’autore di E allora le foibe?, prendere di mira giovani donne, appuntati, finanzieri e impiegati delle poste italiani (ma in Istria, nel 1943, furono uccisi anche veterinari e levatrici e a Zara, nel 1944, perirono semplici operai), significherebbe colpire un’«élite politica e sociale», e non invece preparare il terreno, oltre che all’instaurazione di un regime marxista, a una «pulizia etnica» funzionale a rendere più agevole quel progetto espansionistico titino che, come ammette lo stesso Gobetti, non solo implicava la «restituzione di Slovenia e Dalmazia», ma mirava anche a inserire Fiume, Gorizia e Trieste «nella nuova compagine statale [jugoslava] perché circondate da territori abitati da popolazioni compattamente [sic] slave».

L’aspetto etnico-nazionale
Che l’aspetto etnico-nazionale degli eccidi, contrariamente a ciò che sostiene Gobetti, fosse tutt’altro che inesistente lo confermano però non solo il rapporto della Commissione storico-culturale italo-slovena del 2000 (in cui si legge, per esempio, che gli «eccidi di italiani dell’autunno del 1943 […] nei territori istriani […] spinsero gran parte degli italiani della regione a temere per la loro sopravvivenza nazionale»), ma anche le cifre del successivo esodo da Istria, Fiume e Dalmazia, quantificabile (sulla base dei diversi criteri di conteggio) tra le 250mila e le 350mila unità, in ogni caso «la quasi totalità della popolazione italiana ivi residente» (secondo il già citato rapporto della Commissione italo-slovena). Un’espulsione de facto, che ridusse ai minimi termini la presenza italiana in territorio jugoslavo.

Un bersaglio polemico: il Giorno del Ricordo
Il lavoro sulle foibe di Gobetti però, nonostante il suo controverso valore storiografico, non deve essere sottovalutato. L’interesse di questa iniziativa editoriale risiede infatti nel suo risvolto «metastorico». Da porre cioè in connessione al ruolo, del tutto anomalo, che la vicenda delle foibe (e dell’esodo) ha assunto, durante gli ultimi anni, nelle «politiche della memoria» nazionali. Questo in particolare da quando, in seguito a un’iniziativa della destra parlamentare poi estesasi trasversalmente ad altre forze politiche, si giunse nel 2004 all’istituzione ex lege di un Giorno del Ricordo (da celebrare il 10 febbraio, data in cui fu siglato, nel 1947, il trattato di pace di Parigi) dedicato alla «tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe», oltre che a quella dell’abbandono delle loro terre da parte dei profughi istriani, fiumani e dalmati.
È proprio questa «giornata» che non incontra gradimento. Né di Gobetti né degli studiosi che, come lui, condividono un «approccio dichiaratamente antifascista» alla storia dell’Italia contemporanea. Secondo l’autore, infatti, la ricostruzione e l’interpretazione degli eventi a cui s’ispira il Giorno del Ricordo sarebbero riconducibili al «bagaglio memoriale dell’estrema destra». Ovvero di quello schieramento che per decenni, nell’oblio più generale, ha in realtà meritoriamente preservato la memoria di quelle tragiche vicende.
A parere di Gobetti, dunque, il 10 febbraio, per il fatto stesso che la narrazione che vi è intrecciata, e l’intento di costruire su di essa una memoria nazionale condivisa, non sono conformi alla visione della sua pars storiografica, rischia addirittura di trasformarsi in una «commemorazione fascista» che la destra vorrebbe contrapporre al «25 aprile», inteso invece (seppure in base a un’interpretazione tutta da corroborare sul piano storiografico) quale legittimo evento fondativo dello «Stato nato dalla Liberazione». Queste considerazioni dell’autore, in ogni caso, non lasciano spazio a molti dubbi.

Foibe e Gobetti: un’operazione nata “sinistra”
E allora le foibe?, uscito nelle librerie a breve distanza dal Giorno del Ricordo e con l’autorevole imprimatur di un editore del peso di Laterza, è un segnale lanciato da una fazione politica e intellettuale ben precisa, sempre più indispettita per ciò che essa avverte, da almeno un quindicennio, come un’indebita invasione di campo. La riemersione nel dibattito pubblico del tema delle foibe e dell’esodo, e quel 10 febbraio che insidia al 25 aprile il posto d’onore nel calendario commemorativo repubblicano, hanno infatti aperto, nelle mura un tempo compatte del «controllo (monopolistico) della memoria» che tale fazione aveva a lungo esercitato, una breccia. Che è poi andata sempre più allargandosi.
Viviamo in tempi di «procurato allarme» per il «risorgente nazional-fascismo». Sembra che, con il pretesto di riaprire il dibattito sulla «tragedia del confine orientale», con la “scusa” delle foibe Gobetti e il suo editore stiano provando, per quanto è in loro potere, a riparare questa breccia.
                   

[1] Vincenzo Maria De Luca, Foibe. Una tragedia annunciata, Settimo Sigillo, 2012

[2] L’oscillazione delle cifre, nelle ricostruzioni dei vari storici e ricercatori che si sono occupati dell’argomento, è riportata in un articolo di A. Burigo consultabile all’indirizzo internet https://zdjp.si/wp-content/uploads/2015/12/burigo-.pdf

[3] Raoul Pupo, Roberto Spazzali, Foibe, Mondadori, 2003