Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Lezioni (storiche) da Torino

Lezioni (storiche) da Torino

di Ernesto Galli della Loggia - 13/05/2019

Lezioni (storiche) da Torino

Fonte: Corriere della Sera

È noto che la XII delle Disposizioni transitorie e finali della nostra Costituzione vieta la ricostituzione «sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista». Assai meno noto però è il secondo comma di quella disposizione (anche perché ormai decaduto). In esso si disponeva che a dispetto del riconoscimento della qualità di elettori a tutti i cittadini, ai «capi responsabili del regime fascista» il diritto di voto e l’eleggibilità fossero negati: ma non per sempre. Per non di più di cinque anni, solo per cinque anni: poi basta (praticamente dunque solo per le elezioni politiche del ’48). Lo ripeto: si trattava non di fascisti in generale bensì dei «capi responsabili del regime fascista», vale a dire di coloro che avevano presumibilmente organizzato lo squadrismo e le spedizioni punitive, contribuito in modo decisivo all’instaurazione della dittatura, che avevano occupato le più alte cariche del governo e del partito, erano stati membri del Gran Consiglio, plaudito alla guerra d’Abissinia, all’alleanza con Hitler e alla guerra, avevano approvato le leggi razziali. Ebbene, neppure gente di questa risma la Repubblica volle mettere politicamente al bando: dopo un breve intervallo di tempo (solo cinque anni) li restituì ad una normale condizione di cittadini nella totale pienezza dei diritti politici.
Come mai questa indulgenza? Forse perché l’ispirazione antifascista di quelli che con una certa enfasi ci siamo abituati a chiamare i nostri padri costituenti conobbe un momento di momentanea debolezza? Niente affatto naturalmente, la ragione è un’altra. È che l’Assemblea costituente ritenne saggiamente che la nascente democrazia italiana, reduce tra l’altro da una guerra civile, avesse tutto da guadagnare in termini di legittimazione e quindi di solidità nel mostrarsi verso i suoi nemici anziché rigidamente (e seppur giustamente) sanzionatoria, il più inclusiva possibile. Pensò quindi che bisognasse avere fiducia nel fatto che le norme che regolano lo spazio pubblico democratico all’insegna del confronto e della libera discussione fossero capaci di avere la meglio su qualunque radicalismo (e quale spazio pubblico più rappresentativo di quello costituito dalle elezioni?). Ovviamente ad una condizione: che entro il suddetto spazio pubblico ci si muovesse sempre in modo pacifico.
Un presupposto essenziale della democrazia è che gli esseri umani siano esseri mediamente assennati e ragionevoli e che di conseguenza basti il libero dibattito delle opinioni a far emergere tra di loro l’orientamento più conveniente e giusto facendolo risultare vincente. A patto per l’appunto che non intervenga la violenza ad alterare le cose. È per questo che un principio cardine della democrazia liberale è che tutte le opinioni devono essere libere di esprimersi, anche le più sciocche, crudeli o antidemocratiche. Ciò che è essenziale è che chi professa tali idee si limiti a divulgarle con la parola o con lo scritto senza far ricorso a mezzi violenti. In questo modo, infatti, quelle idee, per quanto funeste, urteranno infallibilmente sempre, alla fine, contro il buon senso della maggioranza e non avranno mai la meglio. È precisamente per ciò che in tutte le democrazie vi sono leggi che puniscono con la necessaria durezza l’uso della violenza politica, cioè della violenza volta ad alterare il processo politico o ad aggredire chi la pensa diversamente. E infatti, non a caso, i medesimi autori della Costituzione, pochissimi anni dopo l’entrata in vigore di questa, ritennero opportuno approvare in aggiunta ai numerosi articoli del codice penale adatti allo scopo una legge che sanzionava in modo particolare oltre l’apologia di fascismo tutta una serie di gesti e di comportamenti ispirati ai modi e alle pratiche del fascismo.

In società complicate e frantumate come le nostre è assolutamente inevitabile che vi sia, diciamo, l’uno per cento della popolazione che crede che la terra sia piatta, che Auschwitz non sia mai esistita, che i vaccini siano dei veleni o che il fascismo sia stato una bellissima cosa. Pensare che non possa o non debba essere così è da illusi o da sciocchi. Pertanto, supporre che in Italia possa non esserci un certo numero di nostalgici di Mussolini e del suo regime significa supporre qualcosa di inverosimile. Ebbene, che cosa bisogna farne allora di questi nostri concittadini? Impedirgli di riunirsi, di parlare e di tenere un comizio? Vietargli di scrivere un manifestino o un giornale, di pubblicare un libro? Mandarli al confino? Arrestarli tutti per attuare tali divieti, con il bell’effetto magari che qualcuno di loro decida allora di entrare in clandestinità e di mettersi a sparare?
La risposta dovrebbe essere evidente. Eppure ogni volta che come per il Salone del libro a Torino si rende visibile la sparuta presenza di qualche gruppuscolo fascista nel nostro Paese, ogni volta che qualche decina di energumeni di CasaPound mette fuori la testa, nessuno del fronte antifascista si attiene all’aurea regola liberale secondo la quale le parole e le idee sono sempre permesse e che solo le azioni se incarnano una fattispecie penale, quelle sì vanno invece impedite e duramente perseguite e sanzionate. No, in Italia questa regola sembra non valere. Di conseguenza, anziché prendersi la briga di indicare e denunciare se ci sono le azioni suddette — ripeto tutte previste e sanzionate dal codice penale — anziché chiedere alla magistratura di intervenire, si preferisce evocare le vacue genericità di Umberto Eco sull’ur-Faschismus, lanciare il milionesimo allarme sul ritorno del fascismo, la milionesima deprecazione sull’«onda nera» che monta. Spacciando alla fine per chissà quale luminosa vittoria della libertà aver fatto chiudere lo stand di una scalcagnatissima casa editrice di serie zeta, diretta da un signor nessuno che travolto da un’inaspettata notorietà non gli è parso vero di poter far sapere al mondo che lui è ancora fascista.
Va detto con chiarezza. Tutto ciò, oltre ad essere intimamente poco serio, è anche ben poco in armonia con i principi di una democrazia liberale. E agli occhi di chi invece vorrebbe che l’antifascismo non si scostasse mai da tali principi appare solo come un parossismo ideologico e una povera strumentalizzazione politica. Qualcosa di assai diverso da quanto pensarono e fecero settant’anni fa i padri della nostra Costituzione: i quali tra l’altro, a differenza degli odierni settari, che cosa fosse il fascismo lo sapevano bene.