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Lo scossone è in atto

di Lorenzo Merlo - 20/03/2020

Lo scossone è in atto

Fonte: Il giornale del Ribelle

Forse non è chiaro a tutti, ma sono i sentimenti a fare la storia. Indipendentemente dal soggetto che li porta. Un atteggiamento disponibile tende a realizzare buone relazioni, uno chiuso e ostile, relazioni tese e pronte al sopruso.  A partire dalla fine dell’era della Milano da bere, un sentimento di crescente alienazione ha, come un virus, infettato la maggioranza dei cuori. Coinvolgeva l’ampia fascia che la forbice sociale ha gradualmente divaricato, fino al punto di separarla da quella sottile di chi può permettersi tutto, dei politici e delle istituzioni. Intanto burocrazia e fisco distribuivano un rancio sempre più povero, la democrazia, inspiegabilmente, faceva acqua dappertutto, le infrastrutture crollavano e altri capisaldi sociali, come giustizia, scuola, salute erano sempre più una siliconata caricatura dell’originale che erano state. Quel sentimento cupo a vario titolo, inizialmente serpeggiava nascosto dai primi mucchi di macerie umaniste. Non aveva ancora coscienza di se stesso. Si lasciava solo immaginare: l’edonismo spumeggiava e i giornali-merce (o marci?) vi surfeggiavano sopra. (Il profitto e la competizione interessa loro come a qualunque altro bottegaio). Del terzo mondo domestico nessuno si occupava. Don Ciotti, i volontari, San Patrignano e gli altri servivano da bon bon per abbellire le loro vetrine. Neppure la sinistra sapeva più quale fosse la ragione per cui esisteva. Pur di prendersi i voti aveva rinunciato alla sua storica base per dedicarsi ad altri spumeggi, quelli dei diritti individuali. Salotto, clarks e tweed avevano preso il posto che era stato delle piazze e della solidarietà.

 

In un secondo tempo, quel sentimento, lo si è visto emergere dalle catacombesche macerie spirituali, dentro le quali – incomprimibile – era sopravvissuto e si era rafforzato e disintossicato da un’ideologia nel frattempo divenuta vuota di significato. La curva delle tessere rosse era in discesa, qualcosa stava accadendo.

 

Chi faticava non guardava più ai suoi compagni e alla sua classe. Puntava dritto al massimo. L’equazione era semplice: ce l’hanno loro perché non devo averlo io? L’individualismo esisteva, era lì, tutti i giorni a guidare noi e gli altri.  Che altro fare, dire, pensare, volere se quello era il modello edonista ben realizzato dalle élite filoliberiste e ben diffuso dai pennivendoli, anche loro autoassolti causa famiglia a carico. Perfino le femministe presero a modello il maschio in carriera e vincente. Le capitane erano più interessate a dirigere l’azienda che ad allevare e a educare. Quella era la loro emancipazione dalla cultura maschilista. Che loro come tutti fossero succubi e propulsori del modello consumistico e dell’ “io posso e voglio”, non era problema di cui crucciarsi.

 

La terza fase del declino e di quel sentimento – la nostra – è lontana mille miglia dai tempi delle tute blu, dei baschi e delle schiscette. Neppure se li ricorda. La dissoluzione ideologica della destra e della sinistra aveva fatto convergere nelle stesse urne vecchi nemici e nuovi ammutinati, pronti a marcare gli stessi simboli, a cercare e sentire la speranza sui lidi opposti, che erano stati osceni fino a ieri. Le élite non avevano argomenti di contrasto e adottavano linguaggi ormai impotenti, slogan che come una qualsiasi parola ripetuta a ciclo continuo lascia andare il suo senso originario. Fascisti a più non posso e poi sovranisti e populisti, purché con accezione negativa. Ovvero dimentichi che quella generazione è stata da loro inseminata. La ragione e il diritto di discernere era loro. Era stato così per tanti decenni che ne sentivano la pregnanza genetica, come i pashtun in Afghanistan non possono contemplare che un presidente possa non essere della loro etnia.

 

Lo scossone è in atto. L’egemonia culturale della sinistra sta vacillando. La richiesta di ordine e destra è crescente, forse a breve dilagante. Perfino istituzioni e partiti a lei lontani, in questi giorni virali non solo hanno adottato espressioni e applicato modi antilibertari, ma questi sono stati ascoltati e rispettati.  Forse un cambio è in atto, ed è particolare se fino a circa un mese fa, la sola risorsa che i progressisti avevano trovato per tenere il galleggiamento, era stata la ciambella lanciata nell’aria dal branco delle Sardine. Ciò che resta di una storia popolare ha avuto l’accortezza di farne uso. Un branco che pur non sapendo che dire ha avuto voce tra i muti di idee e vedute dei succedanei resti del partito dei lavoratori.

 

La vita, la società, la realtà, i pensieri e i sentimenti sono divenuti il corpo materiale di uno spirito in silente tensione. Alcuni momenti di rottura ne hanno momentaneamente esasperato il valore. Il crollo del Muro di Berlino, simbolo di una divisione e anche di un equilibrio; la scomposizione dell’Unione sovietica, che lasciava al capitalismo le sorti del mondo; l’infezione del globalismo, che ha privato i suoi singoli corpi di autodifese economiche e di dignità nazionale; la disumanizzazione ad opera del capitalismo finanziario – un’entità in grado di muovere, più degli stati, gli equilibri del mondo – né più, né meno di quanto farebbe un nemico.  Tra le pieghe di quelle storie abbiamo visto l’avvento dell’azione islamista, che ci ha fatto paura ma che forse possiamo dire superata; dell’azione migratoria, che forse possiamo dire contenuta e di quella del Covid-19, di cui ancora non possiamo che sospettare tanto di oscuro e dire poco se non sulla legittima impreparazione comune a gestirla.

 

In mezzo a tutto ciò, c’è anche una prospettiva dalla quale l’Europa, la sua forza, il suo significato strategico sembrano nel mirino americano. C’entrano sempre. Il Vecchio continente è un peso della bilancia planetaria. Meglio – dicono loro – averlo in mano sul campo della battaglia per l’egemonia del mondo. La partita è Usa versus Cina-Russia e altro di asiatico. Pretendenti che hanno da lunga data buone ragioni per rifarsi nei confronti dell’invasività culturale, commerciale, economica che hanno dovuto subire loro malgrado da parte dei dispensatori di democrazia e libertà. Da quella prospettiva si traguarda una mira che allinea l’islamismo, i migranti e il virus come possibili – per alcuni probabili e per altri non escludibili – azioni strategiche americane. Chi la fa presente ha a suo favore certi documenti Nato, risultati di studi e analisi per stimare i criteri con i quali riconoscere i Paesi potrebbero essere interessati ad un’azione batteriologica quale per esempio quella in atto. Gli Usa passano tutte le griglie dello studio Nato. C’entrano sempre. L’eventuale azione virale e le altre appena elencate, sarebbe destinata a indebolire l’Unione Europea e l’Europa tutta. Per poi offrirle aiuti al fine di evitare che finisca entro il dominio continentale cino-russo-asiatico.

 

Se così accadesse, per l’America sarebbe finita. Le resterebbero due soluzioni: autarchia, con parziali infrazioni di qualche sostegno centro-sud-americano o guerre di ogni tipo soprattutto informatiche e da remoto. Almeno finché ne avesse i mezzi, almeno finché il deep state volesse fiancheggiarla, almeno finché i sauditi facessero la loro parte a loro favore, ma non è detto. A parte questa catena prospettica per nulla da scartare – la logica dell’interesse americano la fa economicamente, militarmente, culturalmente, psicologicamente sussistere – la grande fascia di persone senza più padrone ideologico, con molto malcontento da vantare è ora più che mai e con una crescente capacità di stimare cosa le è adatto o inopportuno. Libera di seguire il proprio fiuto dietro ai like più promettenti, da quando è chiusa in casa per decreto governativo, si è messa a cantare dai balconi e dalle finestre.

 

Palazzi dagli occhi spenti e vuoti si sono accesi con affacci, musica e canti. Quartieri di dirimpettai anonimi automi, fino a ieri privi di una vera esistenza si guardano con piacere e interesse, con un senso di comunità che sorprende chi lo vive come un inatteso dono utile. Il senso di unità, di esigenza di umanesimo tangibile nel quotidiano, che dal dopoguerra in poi è stato demolito mattonella dopo mattonella, con la nonchalance di chi non sa cosa stia buttando via, fa sentire la sua potenza, il suo valore, la sua necessità. Quei canti, quella musica, quelle persone che dal marciapiede si fermano e partecipano, che ballano e cantano e suonano erano dentro un abbraccio che loro stessi avevano creato. Un’esigenza spontanea si realizzava senza che nessun esperto potesse suggerirla. E forse più che un canto è un urlo liberatorio di uno stress antico, accumulato con un dolore che adagio era riuscito a diventare coinquilino, come succede nelle alienazioni, nelle psicopatologie.

 

Applausi durante i canti e le musiche arrivano dai timidi vicini che ogni giorno crescono di numero e diminuiscono le inibizioni. È l’espressione di fatto, di un frutto che rifonda ciò che non doveva essere distrutto in nome di un benefit, di un interesse breve, di un acquisto in più. La musica, quella musica, mentre si fa ascoltare, ci fa vedere il banco. Ci sono due carte, una della vita e una dei falsi miti del cosiddetto progresso. Quale sceglierà il mazziere dopo questa lezione? Avrà le doti per evolvere o resterà felice a sguazzare nella tonnara delle egoiche pretese, dell’importanza personale e dei vizi?

 

Riduzione inquinamento sulle aree colpite dal virus in cui si è deciso l’arresto delle attività e degli spostamenti gratuiti. Qualcuno del Governo, dell’Europa, del Mondo vorrà considerarlo come un dato definitivamente esplicito sui valori dei danni antropologici nei confronti dell’ambiente, della salute, del futuro? E nelle case, nelle famiglie, nelle singole menti? Seguiteremo a restare in attesa e a delegare il comando di noi stessi o sapremo trarre motivazione per modificare le abitudini del divano? Una cultura tutta sviluppata sul ciglio del baratro dell’opulenza preoccuperà? Ora qualcuno canterà, ballerà e suonerà anche per allontanarsene, per tornare da dove eravamo partiti, per recuperare se stessi e la bellezza profonda, lasciando negli scaffali dei centri commerciali quella di plastica? La globalizzazione e il suo delocalizzare ride di chi promuove le bioregioni, entità per definizione a chilometro zero. Ora, la lasceremo ancora governare i nostri pensieri, i nostri sentimenti, i nostri valori? La natura, che come un soprammobile era stata ridotta ad amica, a poster o a facciata, tornerà a guidare il nostro fare? Gli scientisti e i positivisti seguiteranno imperterriti nonostante la simbolica lezione degli eventi incoronati, a tenerla con riguardo sul comò a fianco degli argenti; a studiarla come fosse scomponibile?

 

Dunque un sentimento risorto, annuncia un’altra storia, un’altra politica. Non più solo Pil, sempre in testa alle classifiche che contano, non più solo economia al centro del mondo, né protezione (e/o dipendenza) a prezzi dei peggiori usurai, non più questa Europa, che non è in grado di governare il proprio territorio o, anche per i suoi fondamentalisti, scrivere proprio è un po’ eccessivo? Tutto ciò fino a ieri. Poi, la Germania rompe i ponti con l’Unione europea, si stampa euro secondo necessità, ovvero la obbliga a interrompere le sue norme economiche e si chiude dentro le proprie frontiere. Vedremo domani quale musica e canti, quanti applausi. Forse, a cose fatte non dureranno, ma l’esperienza dell’abbraccio ci ha fatto sentire un calore che sebbene assente da tanto non poteva essere dimenticato, né non poteva non essere. L’espressione di umanesimo detto in musica l’ha detto chiaro, gli applausi hanno condiviso il messaggio e lo hanno fatto proprio.  Il “ce la faremo” governativo campeggia nei monitor e nelle colonne dei giornali. È un giusto sprone dall’anima temibilmente forse doppia. Forse non è lo stesso ce la faremo che molti auspicano dai balconi infettati di tricolore finalmente libero e genuino. Se a crisi risolta nessuna legge, né forza politica darà voce alle rinate consapevolezze ed esigenze umanistiche del lavoro e della vita, e ci si ritufferà nel processo produttivistico della globalizzazione, dell’economia come perno del mondo, del produci, consuma, crepa, temo che altra musica e altri abbracci, dalle finestre e dai balconi scenderanno in strada per andare a riempire le piazze vere e virtuali. Forse il virus avrà portato bene.