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Mea culpa

di Livio Cadè - 11/09/2023

Mea culpa

Fonte: EreticaMente

Ricordo, quand’ero ragazzo, quel trasandato battermi il petto durante il Confiteor domenicale borbottando “mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa”. In realtà non avevo nessuna idea di che colpa si trattasse. Pareva sufficiente simulare un certo pentimento, non si sa di che, per ottenere il perdono divino. “Il Signore è vicino a quelli che hanno il cuore contrito” è scritto. Ma non ricordo alcuna vera contrizione. Anzi, avrei potuto dire anch’io, come Giordano Bruno: «non devo né voglio pentirmi, non ho di che pentirmi e non so di cosa mi debba pentire».
Del resto, il peccato è un concetto muffito, un pezzo d’antiquariato morale. La moderna psicologia ci insegna a liberarci dei nostri sensi di colpa, non delle nostre colpe. Non siamo portati alla resipiscenza ma all’auto-assoluzione. La colpa resta ancora come solido fondamento del nostro sistema psicologico, ma vi vediamo un attributo del Non-Io. “L’inferno sono gli altri” diceva Sartre. Quindi, davanti al tribunale della mia coscienza – molto più indulgente del Sant’Uffizio – posso lecitamente rifiutare di pentirmi.
So che v’è chi coraggiosamente confessa d’esser troppo buono, troppo sincero, di fidarsi troppo degli altri, d’esser troppo paziente o impulsivo, e altri simili orrendi peccati. Ma infine, anche in questi casi, il pentimento mi sembra più ostentato che sincero. Per altro, mi chiedo perché nessuno ammetta mai d’esser falso, disonesto, crudele, avido. Diceva una mistica tibetana dell’XI secolo: “tutti i demoni sono compresi in quelli dell’orgoglio”. Questa mi sembra una buona risposta. La verità non sempre si concilia col nostro amor proprio.
L’orgoglio è in fondo un problema legato alla nostra percezione assiologica dello spazio, riguardato nella sua verticalità. In sostanza, tutto ciò che è super, che sta sopra, in alto, ha un’eccedenza di valore rispetto all’infer. “Se disïassimo esser più superne” dicono a Dante le anime del Purgatorio. Il Paradiso non può esser che lassù, in qualche sublime altezza. Superbo è il fuoco che s’innalza, le maestose vette, superba è l’opera magnifica. All’eterno castigo abbiam dato invece il nome di inferno, ciò che sta sotto, forse dimenticando che è stato un peccato di superbia a crearlo. Così, anche le parti vergognose del corpo son naturalmente poste in basso, rese sede di istinti subumani, mentre in alto sta il nostro meraviglioso cervello, il celeste mondo delle idee.
Il ricco è altolocato, il nobile è Sua Altezza, la sovranità è attributo regale. La nostra intera immagine del mondo si basa su relazioni spaziali di superiorità o inferiorità – morale, intellettuale, razziale, economica, sociale, sessuale (“la donna sia sottomessa all’uomo” dice san Paolo), dell’uomo sugli animali ecc. Tutti noi soffriamo di una sorta di sindrome ‘ascensionale’. Dobbiamo portare in alto i nostri cuori, sollevare lo sguardo, elevare i nostri pensieri. Il basso ci ripugna, bassezza è l’atto ignobile, turpe.
Eppure, bassa è la terra, umile è l’acqua che, feconda, scorre verso il basso, e da questo humus nasce l’uomo. Perché dunque l’umanità non è spontaneamente umile? Forse per vizio o per corruzione di natura siam diventati altezzosi e alteri. Vediamo nell’umiltà una condizione incompatibile col nostro superiore status ontologico. L’umiltà ci riporta alla terra, alle nostre oscure radici, a una semplicità senza pretese. ‘Umili condizioni’ diciamo. Umile è per noi il misero, il povero, umile è un’esistenza dimessa. Anche riconoscere d’esser colpevole è un atto d’umiltà. Perciò il mea culpa non si addice all’uomo.
La coscienza comune, che non ha il coraggio di conoscersi, si basa su una presunzione d’innocenza. E se l’inconscio la turba con i suoi fantasmi, li esorcizza con le formule di un’analisi razionale e interminabile. Il vero problema dell’uomo moderno non è l’esser colpevole ma inadeguato. Posto di fronte ai modelli che l’educazione, la pubblicità, l’immaginazione gli pongono, pensa di doversi migliorare, conformare a uno stereotipo positivo. È così soggetto a una continua ansia di prestazione. E se fallisce cade nella depressione. Rincorre un’astrazione che sempre gli sfugge e la cui lontananza lo umilia, provocando in lui una sensazione di scacco. Deve allora cercare compensazioni che ristabiliscano il suo senso infantile di onnipotenza, il suo grandioso essere ‘magico’.
Il suo orgoglio nasce dunque da un doloroso senso di inferiorità. Ma questa percezione di insufficienza è ovviamente il contrario dell’umiltà. Ci spinge a liquidare il nostro normale Io, a sostituire la manchevole, imperfetta umanità, con un Io superiore. Dobbiamo oltrepassare i nostri limiti, elevarci indefinitamente. Tendiamo quindi al sovrumano, o al transumano, come si dice oggi. Siamo indotti a credere che qualcosa in noi debba continuamente progredire, crescere. Ma in realtà, se guardiamo la storia dell’uomo – fin dove possiamo conoscerla e non puramente immaginarla – non notiamo alcuna evoluzione fisica, morale o intellettuale. Ciò nonostante, non ancora disillusi, alcuni prevedono per l’uomo “salti quantici” o “balzi evolutivi”, adattando vecchie attese messianiche agli idola mentis della scienza moderna.
Si dirà che è assurdo negare all’uomo la possibilità di migliorare sé stesso. Nessuno nega infatti sia legittimo e appagante coltivare i propri talenti. La colpa nasce da quel gesto con cui l’Io, sfuggendo alla forza di gravità, si stacca dalla terra e sale verso un cielo ideale e infinito, che non pone limiti alle sue pretese narcisistiche. «Attacca il tuo carro a una stella» diceva Emerson. Ma v’è sempre una stella più lontana che ci ammicca. Se invece scendiamo verso terra c’è un punto zero, dove tocchiamo il suolo e ci fermiamo. Lì è l’umiltà, e anche la nostra umanità, la perfezione che ci è donata e dalla quale fuggiamo per inseguire i nostri sogni.
L’umiltà, va precisato, non è presenza ma assenza di qualcosa, un vuoto. Si realizza “per via di levare”. Si qualifica perciò negativamente, come il silenzio. È il tacere dell’Io, una mancanza di rivendicazioni. È un vedere in sé in una comprensione spassionata, oltre lo schermo delle proprie psicosi. Una normalizzazione della mente, liberata dalle illusioni e dagli idoli. Non nasce perciò dall’azione ma dalla contemplazione, non è virtù morale ma sapienziale. Delle vie per giungere alla sapienza, diceva infatti Agostino, «la prima è l’umiltà, la seconda è l’umiltà, la terza è ancora l’umiltà». Ma è un sapere subliminale, ignaro di sé. Un’umiltà consapevole sarebbe una contraddizione in termini, un vuoto simulacro.
Viceversa, l’orgoglio è un’inflazione della coscienza e un’idolatria. E ogni forma idolatrica è essenzialmente un’adorazione della Potenza. Perciò adoriamo un Dio onnipotente, padrone, dominatore, in cui rispecchiarci. Non sapremmo che farcene di un Tao che scorre come l’acqua, il cui principio è la debolezza, il dono semplice della vita. Siamo morbosamente attratti dal potere, dalla sovranità, dalla forza che si impone, causa di infinite sopraffazioni sociali e personali. E questa pulsione è tanto più pericolosa in un’epoca come la nostra, dotata di mostruosi strumenti di dominio, e che ha finito, nel suo ateismo, col fare dell’uomo un Dio prima ancora che diventasse umano.
Se dunque dovessi battermi il petto e dire mea culpa, ciò di cui vorrei esser perdonato è quello che, con un termine ibrido, definirei narcisadismo. Sostanza di questa colpa è il voler piegare la realtà ai miei ideali narcisistici, infliggendo sofferenza a ciò che vive. Devo esercitare violenza sulla realtà per poterla controllare, e questo mi procura una momentanea eccitazione, una sensazione di grandezza. Viceversa, quando le cose mi resistono e mi rimandano un’immagine di impotenza mi deprimo. La mia vita, il mio destino, si riducono a un ambiguo Non-Io, entità misteriosa e separata da me che può ferire o compiacere il mio amor proprio. E tutta la mia esistenza si agita nella tensione tra questi due poli, tra la speranza di realizzare i miei sogni e il timore che si infrangano contro il muro della realtà.
Resto così preso nell’angoscia, irretito in un diuturno travaglio immaginativo. Devo incessantemente elaborare strategie per difendermi dalla frustrazione, e non esiste alcun Punto Omega da raggiungere, dove le mie aspirazioni si plachino, il cerchio magico si spezzi e io possa uscire dall’incantesimo. Sono prigioniero di una crescita che è accumulo, infinita progressione numerica. I superbi, per Dante, camminano portando sulle spalle un opprimente macigno. Così io salgo ripide scale, curvo sotto il peso di me stesso. Per salvarmi devo convertirmi e tornare indietro, verso lo zero. Scendere dal mio cielo inquieto e vertiginoso e tornare sulla pacifica, umile terra.
“Imparate da me, che sono mite e umile di cuore”. Qui sta tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Un’umanità umile sarebbe anche pacifica. Cesserebbe la lotta per arrampicarsi su scale immaginarie, per salire su pioli sempre più alti. Ma è un insegnamento che non posso accettare, perché offende il mio consolidato modo d’essere. D’altro canto, “chi si umilia sarà esaltato” può lusingare il mio orgoglio, farmi credere che umiliarsi convenga alla mia più segreta aspirazione. Ma nessuno sforzo intenzionale può rendermi umile.
Mi è infatti impossibile abbassarmi da me. Forse il mitico Barone potrebbe uscire dal pantano della superbia tirandosi per il codino. Ma per quel che mi riguarda, solo la realtà mi può umiliare. E la vita, a saperla interpretare, è una lunga lezione di umiltà. È una lettera che ricevo dalla profondità dell’anima e di cui devo decifrare il contenuto. È un linguaggio talmente diverso dal mio che mi è quasi impossibile comprenderlo. “La via del mondo è di crescere. Ogni giorno di più. Il Tao è diminuire. Ogni giorno meno. Finché si arriva al non-fare. Arrivati al non-fare non v’è nulla che non si compia”. Nessuna promessa di un’evoluzione che mi porti dall’uomo al superuomo, nessuna elevazione. Sembra piuttosto una regressione, un ritorno al non-essere di cui mi sfugge il senso. Ma l’anima non ha fretta, e mi manderà altri messaggi, finché capirò.
Non si tratta solo di abbandonare le nostre pretese di superiorità ma anche quei sensi di inferiorità su cui si reggono i nostri complessi evolutivi, il nostro affannarci verso un futuro espansivo, sempre più gratificante. Nell’umiltà ritroviamo il valore del presente, la pienezza dell’adesso. In questo senso è una medicina all’angoscia. Perché la nostra sofferenza è il più delle volte legata alla paura dell’umiliazione, di ciò che mi attende e minaccia il mio fondamentale narcisismo. La vita nega la mia onnipotenza, e io nego questa negazione, in un perenne conflitto. Per sottrarmi all’umiliazione cerco rifugio in dottrine, in teorie, di carattere filosofico, psicologico, religioso ecc., che assecondano il mio amor proprio.
Ma è una soluzione ingannevole, che mi fa cadere in nuove forme d’angoscia. Nello sforzo frustrante e inestinguibile con cui cerco di emulare nuovi modelli evolutivi, posso impegnarmi in tecniche di consapevolezza, in pratiche meditative, in penose privazioni, in opere meritorie, ma questi espedienti non offrono alcun effettivo rimedio all’angoscia. Semplicemente orientano il mio sadismo, cioè la mia ansia di potere e di controllo, su piani più sottili. Tiro i fili di un invisibile, immaginario teatro di marionette, maschero le mie paure, ma infine ritrovo sempre la realtà ad attendermi.
È dunque importante capire che l’umiltà non può nascere da una tecnica e da una scelta. Deve prenderci alla sprovvista, come l’amore. Non possiamo né prevederla né sopportarla pazientemente, sperando che ci elevi e ci rafforzi. Inutile anche accettarla senza lottare. Sarebbe solo un modo per negarla, per sottrarsi all’esperienza penosa del limite, per evitare lo scacco e la percezione della nostra impotenza. D’altro canto, cercare l’umiliazione con atti intenzionali servirebbe solo a mantenere l’illusione del controllo. Tutti stratagemmi inefficaci, che cercano di sottrarmi all’angoscia affermando ancora la mia superiorità, rimuovendo il senso della sconfitta e lasciando all’Io una nascosta speranza.
Un’umiliazione in cui l’Io trovi un interesse non ha alcun valore. La vera umiliazione si mostra nei momenti limite, nei naufragi esistenziali: morte, malattie incurabili, disperati rovesci sentimentali. Può capitare allora di toccare un fondo oscuro. Se permanessi in quell’abisso di impotenza potrei forse purgare me stesso e consumare la mia angoscia. Ma non posso resistere a lungo nella notte dell’anima, ascoltare quel silenzio profondo e privo di consolazione. Così non colgo il senso terapeutico dell’umiliazione, mi privo dei suoi insegnamenti.
L’umiliazione è il nostro Buddha, il nostro Maestro interiore. È una grazia che, se incompresa, ci rende cinici, se compresa ci restituisce una naturale dignità. Ci invita a riprendere il contatto con la terra, offre di guarirci dall’angoscia. Perché l’umile non può sentirsi umiliato. Chi non abita altitudini immaginarie non può subire immaginarie cadute. L’uomo ristabilisce così la giusta relazione con la sua soggettività – cioè la sua substantia – e con la Norma che lo governa. Allora la trascendenza, la perfezione, traspare spontaneamente in noi e in tutto ciò che vive, senza bisogno dei nostri sforzi. Non è necessario fare qualcosa per meritarsi il regno dei cieli o il nirvana. Occorre piuttosto non fare, staccarsi dalle proprie pretese, e lasciarsi trasformare dalla realtà che pazientemente ci insegna.
Umiltà non è la degradazione del sottosuolo dostoevskiano, desiderio di auto-umiliazione e di sofferenza, né un appiattimento di valori, contrazione della psiche e del suo spettro cromatico in una grigia uniformità. Non è il privarsi della conoscenza, dell’amore, del proprio talento o di qualsiasi altra cosa, ma il non appropriarsene. È medicina a quel dolore del mondo che nasce dall’io e dal mio. “Se Adamo avesse mangiato sette mele ma non vi fosse stata appropriazione, non sarebbe caduto”, dice la Teologia Tedesca. In realtà è un cadere verso l’alto. Noi immaginiamo Lucifero che cade dal cielo, e san Bernardo teorizza la superbia come una discesa in dodici gradi. Ma questo precipitare o digradare sono un innalzare sé stessi.
Il male nasce tradizionalmente da una trasgressione all’ordine divino, un uscire dalla Norma. Ma perché ribellarsi a Dio? «La radice di ogni disubbidienza è la compiacenza di sé», secondo Ibn ‘Atā’ Allāh. Il caos, la sofferenza, sono i frutti di una tentazione originaria: il crescere, il superarsi, l’essere “come Dei”. Questo auto-compiacimento si esplica in atti di appropriazione e auto-affermazione. Perciò accumuliamo denaro, potere, erudizione, spiritualità. Ogni nostra libidine nasce dalla superbia, diceva Isidoro di Siviglia. E il nostro insaziabile appropriarsi lascia lungo tutta la storia una striscia di orrori.
Perché se “l’orgoglio trasforma gli angeli in demoni” – citando Agostino – può anche trasformare l’uomo in un essere mostruoso. Se dunque ci percuotiamo il petto è per le atrocità che l’umanità ha commesso e ancora commette nella sua insana adorazione del supra, ultra, magis, summum. Non è il pentirsi di qualche occasionale errore, nutrire superficiali rimorsi, ma ammettere in noi una colpa radicale, esistenziale. Per questo dovremmo chiedere d’esser perdonati, ovvero guariti del narcisadismo che ammorba il nostro essere, le nostre relazioni con gli altri e con il mondo, persino le nostre più intime relazioni d’amore. Tuttavia, mai come oggi questa appare un’utopia.
Darwin lamentava che l’uomo, nella sua arroganza, si credesse creazione divina. Più umile, più giusto, diceva, è considerarlo progenie di animali. Così, alla trascendenza metafisica si oppone una Discendenza biologica. Ma v’è qui un totale fraintendimento del divino, immaginato ancora secondo i canoni megalomani dell’uomo. Per cui da una hybris teologica si passa a una hybris bio-tecnologica, quella che oggi giustifica deliri transumani, convinti che l’uomo possa infine prendere le redini dell’evoluzione e piegarla al proprio narcisismo.
E questo folle superomismo ci priva di ogni possibilità di pentimento, perché divinizzandoci ci poniamo sopra ogni Norma naturale e spirituale. Possiamo perciò esibirci in grotteschi pride, esaltare l’abnorme, il post-umano, il demoniaco. Disubbidendo alla vera Legge finiamo con l’ubbidire alle leggi più assurde a alle passioni più disordinate. Rivendicando la nostra libertà da ogni ordine spirituale diventiamo schiavi di forze disumanizzanti. «Ma ora sono ubriachi; allorché avranno vomitato il loro vino, allora faranno penitenza».
Confiteor, confesso che son colpevole, parte di questa umanità superba, di cui condivido il ‘peccato originale’. Non ne sono giudice ma correo, chiamato a rispondere della stessa accusa. “Vorrei migliorare me stesso”, dissi un giorno, parlando con un vecchio monaco. “E come pensi di poter migliorare quello che Dio ha fatto?” mi chiese quello. Ero un ragazzo e mi ci volle molto tempo per digerire quelle parole, per capire che non posso migliorarmi, ma che mi è stata concessa la tragica libertà di peggiorarmi. Non posso acquisire virtù, ottenere meriti, solo perdere i miei vizi. Potrei dire della mia vita quel che Gide diceva dell’arte, che è una collaborazione tra me e Dio, e meno io intervengo meglio è. Ma per capirlo è necessario pentirsi. Confessare d’aver vissuto non basta. Confesso d’aver peccato. Mea culpa.