Mediobanca e i tentacoli della piovra finanziaria Usa
di Alessio Mannino - 14/09/2025
Fonte: La Fionda
Il cosiddetto “risiko” della finanza italiana si è concluso con la vittoria dei Caltameloni (con contorno a stelle e strisce). Il costruttore ed editore Franco Caltagirone e la Delfin, holding degli eredi Del Vecchio (Luxottica), sono infatti i nuovi padroni di Mediobanca tramite Monte dei Paschi (Mps), l’istituto senese di cui il Tesoro, cioè il governo, è il primo degli azionisti, fra i quali fa capolino anche BlackRock, il fondo americano al vertice mondiale della gestione patrimoni.
La vicinanza dei due potentati nostrani al centrodestra di Giorgia Meloni è cosa nota. Meno nota, anche se nient’affatto nuova, è la solita, eterna regola che guida le operazioni in cui è coinvolto lo Stato e che ha avuto conferma anche stavolta: la socializzazione delle perdite e la privatizzazione dei guadagni. I gruppi Delfin e Caltagirone, assommando in totale il 30% delle quote, sono anche i principali soci di Mediobanca, che ora hanno comprato. Il salvataggio di Mps è costato al bilancio pubblico 5,4 miliardi di euro. Da gennaio di quest’anno quando è stata lanciato l’assalto, Delfin ha guadagnato 850 milioni di euro e Caltagirone quasi 430 (mentre BlackRock ne ha macinati 172).
Acquistando in pratica sé stessi in una banca rimasta in piedi solo grazie all’intervento statale, lorsignori fanno vertiginose montagne profitti grazie al contribuente. E si preparano al colpo grosso che è stato il loro obbiettivo fin dall’inizio: tramite il 13% in mano a Mediobanca in Generali, mettere le mani sulla compagnia assicurativa che ha in pancia 800 miliardi di investimenti.
Del resto questo governo, in modo non dissimile da quel che farebbe uno di centrosinistra, sa farsi apprezzare dalla finanza predona. L’anno scorso KKR (Kohlberg Kravis Roberts & Co), uno dei maggiori fondi pensione degli Stati Uniti, ha acquisito la quota di controllo della NetCo di Tim, la rete di telefonia fissa, dopo aver già messo un piede nel gruppo con la partecipazione in FiberCop. A nulla è valsa l’inefficace opposizione dell’Antitrust. Il quadretto rende bene quella che viene chiamata finanziarizzazione: non solo dell’economia, ma anche della politica.
Perché è chiaro che avere l’ultima parola su un snodo così importante per le comunicazioni com’è la rete telefonica, significa avere un peso che non solo determina, ma pre-determina gli orientamenti internazionali di un governo. Tanto più se si pensa che presidente dell’istituto di analisi di KKR è un certo David Petraeus, ex capo della Cia e in passato comandante delle truppe Usa in Afghanistan e Irak. La finanza, insomma, è legata a doppio filo alla politica. È politica. Ma per capire bene questo nesso decisivo è bene dare uno sguardo al panorama dei signori del denaro.
KKR, assieme a Blackstone, è al vertice di quella categoria di società finanziarie dette private equity che hanno in portafogli titoli e quote di vario tipo, specializzandosi nel rilevare imprese decotte o bisognose di finanziamenti, tagliarne i costi (ossia licenziare), spolparle e rivenderle solitamente a pezzi.
Assieme agli hedge funds, i classici speculatori di Borsa, sono chiamate in gergo “cavallette” o “locuste”. Le altre tipologie sono le banche (tradizionali, come Deutsche Bank o Intesa, e d’investimento, come Lazard, Rotschild, Goldman Sachs), gli oligopolisti del web (Google, Apple, Microsoft, Meta, Amazon), le piattaforme digitali multinazionali (Uber, Netflix, Deliveroo, Airbnb, ecc) e, ultime ma non ultime perché in realtà in cima alla piramide, i tre mega-fondi BlackRock, Vanguard e State Street. Le onnipresenti “Big Three” funzionano come fossero banche d’affari ma non sono banche, e dunque non sono assoggettate alla regolamentazione e alla vigilanza a cui è sottoposto il sistema bancario. Investono soprattutto in farmaceutica (Pfizer, Moderna, Johnson&Johnson), digitale (Google, Apple, Meta, Snapchat, Amazon, Microsoft, Netflix), assicurazioni (United Health Group, Elevance Health, Prudential Financial e Centene Corporation), alimentare (Coca Cola, Pepsi, Heinz), pagamenti elettronici (Visa, Mastercard, PayPal), ovviamente in altre realtà finanziarie (come le già citate KKR e Blackstone), senza dimenticare le armi (sono presenti in Lockheed Martin, Boeing, Honeywell ecc). Ma non disdegnano nemmeno l’informazione: Fox, CNN, CNBC. E non hanno pudore nel controllare pure le agenzie di rating che poi danno loro i voti, la S&P Global Rating, Fitch e Moody’s.
La caratteristica che salta agli occhi è il costitutivo conflitto d’interessi che, come si è visto nel caso Mps-Mediobanca, è un classico del settore: BlackRock è infatti posseduta per il 14% da Vanguard, a sua volta partecipata per il 13,5% da BlackRock, mentre State Street ha BlackRock all’8,1% e Vanguard al 12,6%. La più grande concentrazione di potere finanziario mai avvenuta nella Storia consiste in un intreccio da cui non è possibile neppure evincere chi domina chi. Quel che si sa è che i loro clienti fanno parte dell’élite planetaria, quella vera, la crème formata da coloro che hanno almeno 50-100 milioni di dollari di patrimonio liquido. Non solo persone fisiche nella cerchia dei più facoltosi rentier del globo, ma soprattutto banche, fondazioni, assicurazioni, fondi ecc.
BlackRock merita una parentesi a parte. Gestisce 70 società in trenta nazioni ed è comproprietaria di più di ventimila fra imprese, istituti bancari e altri soggetti. Elargisce consulenze al governo statunitense, al Fondo Monetario Internazionale, alla Bce e alla Commissione Europea. La sua ascesa si deve all’amministrazione del democratico Barack Obama, che nella crisi del 2008 incaricò BlackRock di normalizzare il mercato creditizio occupandosi di liquidare Lehman Brothers e Bear Steanrs e salvare le assicurazioni AIG. E così, nel biennio 2008-2009, il patrimonio gestito da BlackRock schizzò a oltre 3 mila miliardi di dollari.
Le sue origini sono misteriose. Fondata nella seconda metà degli anni ’90 da Laurence “Larry” Fink (inventore dei famigerati “subprime”, i prodotti finanziari costruiti sulla cartolarizzazione dei mutui, uno che solo per questo dovrebbe stare in galera a vita), nel 1999 l’azionista di maggioranza risultava essere una piccola banca di provincia, la Pittsburgh National Corporation. Nel 2005, quest’ultima acquistò la Riggs National Bank, banca sconosciuta ai più ma parecchio conosciuta dagli addetti ai lavori: nei suoi depositi si sono succeduti i conti di 23 dei 45 presidente degli Stati Uniti, nonché di quasi tutte le ambasciate straniere in Usa.
Con sede legale in Delaware, paradiso fiscale dove si può fondare una società-fantasma in pochi minuti e senza passaporto, la Riggs ha avuto un ruolo di primo piano nel riciclaggio di tangenti di oligarchi russi, funzionari sauditi e perfino, ai tempi, del dittatore cileno Augusto Pinochet. Ebbene, acquisita dalla Pittsburgh, la Riggs cessò di esistere. E la sua privilegiata clientela, intessuta di relazioni ai più alti livelli, passò a BlackRock.
Sul piano politico, la galassia di feudi capitalistici di cui stiamo parlando è espressione degli Stati Uniti. Finché la moneta statunitense mantiene il ruolo di valuta di scambio globale, il capitalismo di Wall Street, e con esso il capitalismo occidentale, riesce a tenersi in piedi. Ma solo in virtù di due leve: il tentativo, sempre più oneroso, di tenere le posizioni di un’egemonia militare nei diversi quadranti, e l’azione dei grandi fondi di cui sopra, che traducono ogni loro operazione in bigliettoni verdi. In pratica, è mediante l’uso imperiale del dollaro, fondato su una politica guerrafondaia e sul contributo dell’alta finanza, che il Paese-modello dell’Occidente ce la fa a non crollare come un castello di carta (straccia).
Quella che viene chiamata con ipocrisia “economia reale”, invece, sopravvive grazie a due elementi: le migliaia di miliardi di interventi pubblici (Inflation Reduction Act), coperti dall’abnorme debito galleggiante sulle spalle dei risparmiatori di mezzo mondo, e i dazi doganali, che Donald Trump ha reso un’arma di pressione geopolitica. Scaricare da un lato il peso dell’indebitamento all’esterno e dall’altro ricorrere al protezionismo è una miscela esplosiva. Washington ha la necessità vitale di drenare più risparmio internazionale possibile. Ed è in questo passaggio che i fondi hanno il compito essenziale di fare da incanalatori di denaro. Ecco, quindi, dove sta la loro relazione simbiotica con l’imperialismo in crisi dello Zio Sam.
A Fink e compari fa gola la miniera di 170 miliardi di euro dei fondi pensione italiani, per non parlare degli 800 di Generali. Roma stende i tappeti rossi. Il tutto, contando sull’ignoranza del cittadino medio in materia finanziaria, sui buoni uffici (stampa) dei media, e dello stile caratteristico del felpato mondo degli speculatori di professione: l’opacità. Fra matrioske societarie e filiere che si perdono nei meandri azionari, il potere di chi detiene i cordoni della borsa è schermato per così dire a priori.
Quanti sono a conoscenza, ad esempio, che il primo socio della Rotschild, la banca numero uno al mondo in acquisizione e fusioni, è un’ignota Jardine Matheson Holdings con sede operativa a Hong Kong e legale alle Bermuda? E quanti sanno che il 69% degli hedge funds è domiciliato alle Isole Cayman che, ricordiamolo, sono territorio della Gran Bretagna, Stato-canaglia per eccellenza?
Alzi la mano, poi, chi è a conoscenza del fatto che sette società, dicasi solo 7 società, valgono da sole quasi il 38% di tutte le quotate a Wall Street, una configurazione che non ha precedenti e non ha corrispondenze nella realtà economica produttiva. Una di esse è Amazon. Bene: chi metterebbe sul piatto 2 mila miliardi per comprarsi Amazon? Nessuno. È un’immane costruzione totalmente scollegata dal reale. Un’impostura. Una frode istituzionalizzata.
La questione della finanza fuori controllo non è tecnica: è politica. Per affrontarle, servirebbe modificare i rapporti di forza sociali all’interno degli Stati che ne sono protettori, beneficiari o dipendenti. Detto altrimenti, è necessario cambiare le condizioni che ne assicurano la posizione di imperio e privilegio. E questo si può fare solo con la lotta, appunto, politica. Non si scappa. Utopistica, certo, visto che l’avversario ha mezzi spropositati per mettere a tacere qualunque eventuale opposizione. Ma un’altra via non c’è.
La finanza occidentale, di cui nostro malgrado o volontariamente siamo i favoreggiatori più o meno ignari, non è un’entità divina discesa dal cielo, o la risultante dall’evoluzione naturale dell’uomo.
È un sistema di dominio che ha i suoi quartier generali in determinati Paesi. Anzi, in uno o due. Non è un caso che la Germania, unica potenza europea teoricamente in grado di impensierire la Casa Bianca (specie oggi, con una Francia con le pezze al culo), sia governata da un cancelliere, Friedrich Merz, che era direttamente a libro paga di BlackRock. Il problema della finanza è il cuore del Problema.
Fonte: https://www.lafionda.org/2025/09/10/mediobanca-e-i-tentacoli-della-piovra-finanziaria-usa/