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Nestore e Humbertino

di Lorenzo Merlo - 21/09/2025

Nestore e Humbertino

Fonte: Lorenzo Merlo

 Humberto Maturana, ricercatore cileno da poco mancato, forse più di altri, e in particolare nel suo (con Ximena Dávila) Emozione e linguaggio in educazione e politica, ci ha fatto presente la struttura a muro di cinta entro cui ci muoviamo, scegliamo, viviamo.

 Nestore

Avevo voglia di marinara, quindi gli dissi: “Andiamo in pizzeria stasera?”

Nestore, mio fratello minore, mi rispose che non voleva, perché preferiva stare a casa a guardare la partita.

Ribattei ricordandogli che era una pizza croccante, ma non ottenni niente. Neanche l’ottima birra alla spina riuscì a smuoverlo.

Effettivamente, era attaccato alla sua squadra: si deprimeva se perdeva, gli volava l’autostima se vinceva.

Stavo lasciando perdere l’idea di una buona marinara sottile, quando me ne venne un’altra.

“Ti ricordi quella volta, quando eravamo in una grande ferramenta e, a un certo punto, davanti alla cassa ti sei bloccato?”

“E come non avrei potuto”, mi rispose. “Eravamo davanti alla cassiera più bella del mondo”.

“È vero. Sembrava di una razza umana di livello superiore”

“Ma perché me ne parli?”, mi chiese, mentre vedevo che aveva leggermente alzato il mento e socchiuso un poco gli occhi, come per contemplare qualcosa che vedeva solo lui.

Fu in quel preciso momento che, come un preveggente, fui certo che la marinara non sarebbe stata rimandata.

“Perché ora serve ai tavoli della pizzeria”.

A quelle parole, Nestore non rispose, come se in lui l’immagine della cassiera più bella del mondo si stesse addensando in materiale tangibile.

Quando l’eco delle mie parole lo raggiunse, l’incantesimo in cui si trovava si interruppe. Era come se la statua di un mimo si fosse scrollata da dosso l’involucro di immobilità e fosse tornata ai movimenti della vita.

“E da quando lavora lì?”

“Non credo da molto. L’avevo vista dalla vetrina qualche giorno fa. Volevo dirtelo, ma poi mi sono dimenticato”.

“Era ancora come alla cassa della ferramenta?”

Qui dovevo giocare bene la mia carta.

A seconda della risposta il suo desiderio di riprovare l’emozione avrebbe potuto eccitarsi o smorzarsi. Se gli avessi detto che era sempre incantevole come quel giorno, avrebbe potuto preferire evitare l’umiliazione legata alla certezza di poterla solo guardare, al massimo scambiarci due parole, mentre in cuor suo sentiva una specie di diritto ad averla, a conoscerla, a uscire con lei, a toccarla con la sua accondiscendenza. Un diritto all’amore ricambiato, che scaturiva dal suo sentimento puro e assoluto. Mentre, se gli avessi raccontato che non mi sembrava più la sola stella del firmamento, forse l’avrei attratto nella trappola della marinara. Sarebbero scattati infatti due moventi.

Il primo: avrebbe voluto verificare come la luce di Roberta – così si chiamava, l’avevamo letto sulla spilla, in ferramenta – si fosse affievolita. Cioè, avrebbe dimenticato la partita e sarebbe venuto in pizzeria, semplicemente dando seguito a una questione affettiva, meglio, a un’attrazione e a una preoccupazione: in quel modo, infatti, era come se volesse prendersi cura di lei, meglio, di qualcosa che era in lui stesso, di suo.

Il secondo, pienamente connesso al primo: se rivedendola non avesse più sentito il colpo di torpedine che lo aveva pietrificato in coda alla cassa, quella tensione latente, pronta a immobilizzarlo ogni volta che incontrandola si fosse trovato davanti alla bellezza nel suo stato sublimante, non avrebbe più avuto modo di farlo sentire umiliato.

Bastò un istante per decidere come proseguire nella mia provocazione. Avrei optato per la seconda risposta, quella della luce perduta di Roberta.

Mentre Nestore mi guardava come se il suo futuro dipendesse da me, e in un certo senso era proprio così, glielo dissi.

“È ancora carina, ma sembra la sorella stanca di quella della cassa. La pelle chiara, che avevamo chiamato bianca, dalla vetrina mi è parsa grigiastra. Perfino i tatuaggi colorati delle braccia, che avevamo inteso come una bandiera di libertà, rivedendola non mi hanno più fatto quell’effetto, anzi, l’hanno deposta dall’Empireo da cui ci pareva potesse comandare gli uomini, gettandola tra le dozzine di repliche anonime che popolano i giorni qualunque”.

“E il suo sguardo dai grandi occhi neri che non lasciava respirare?” Chiese Nestore con parole un po’ spezzate.

“Non saprei, quel giorno non mi sono fermato a fissarla dalla strada. Immagino che tutto vada insieme”.

Era la mia ultima battuta, non avevo più idee, se la trappola non fosse scattata con quella, addio preveggenza alla marinara.

In attesa dell’effetto delle mie parole, fingendo di non essere sulle spine, non aggiunsi nulla.

Erano passati pochi momenti quando mio fratello disse: “D’accordo, marinara e Roberta”.

“Niente partita?”

“Niente, tanto era contro l’ultima in classifica”.

 HM

L’io, a qualunque idea di noi stessi crediamo corrisponda, non è noi. Esso ha il carattere di una struttura ed è necessario alla sua e nostra sopravvivenza. In un certo senso, è una sorta di guida che ci conduce attraverso la vita.

Nonostante la sua natura autopoietica – termine che allude all’autoreferenzialità di ogni descrizione della realtà, coniato da Humbertino (1), come, con affetto, lo chiamava una mia amica – e strumentale sia lapalissiana a chiunque voglia indagare oltre le impermanenti apparenze delle verità dei saperi analitici, la consapevolezza della struttura dell’io è poco diffusa. Un peccato! In quanto se così non fosse avremmo a che fare con un’educazione, una politica, una società e una realtà non più mortificante, ma spiritualmente remunerativa.

 Lo scienziato cileno descrive l’io e l’identità di cui lo investiamo come delimitati da un muro, protetti da un involucro impermeabile a tutto ciò che giudichiamo non idoneo al mantenimento dell’equilibrio, della stabilità interna. Ma, come tutti hanno in biografia, nonostante il potente paraurti, un incidente anche frontale è sempre latente. Significa che la protezione non era sufficiente e la destabilizzazione del nostro ordine, si compie come in un combattimento impari, con ferite, disorientamento, umiliazione.

 Dunque, soltanto ciò che è ritenuto compatibile per noi, che non è ritenuto tossico, tanto all’organismo io, chiamiamolo ideologico, quanto a quello fisico-biologico, può attraversare la capsula entro cui ci muoviamo nell’esistenza.

Si può dire che il medesimo argomento può essere accettato/rifiutato se fornitoci in tempo differente. E che, nel medesimo tempo possiamo accettare/rifiutare un identico argomento se fornitoci da fonti differenti. Il primo caso dipende dal variare della nostra intima condizione/convinzione/emozione. Il secondo dal giudizio che generiamo – e con cui ci identifichiamo, a sua volta di natura emozionale – nei confronti dell’emittente.

Poi, c’è anche un riflesso psicologico, ovvero che così come la debolezza e la vulnerabilità sono direttamente proporzionali alla consistenza ed ermeticità del muro, la forza e la invulnerabilità lo sono indirettamente. Queste ultime raggiungono il suo massimo nell’ascolto, in cui il muro appare minimo o abbattuto, on cui abbiamo ciò che serve per prendere le distanze dall’io. 

Nella consapevolezza che l’identità è un’infrastruttura di noi, che essa non corrisponde al nostro sé universale, disponiamo di fermezza e duttilità, depurate dagli inquinanti tossici dell’importanza personale. E allora i traumi sono devastazioni del muro, sono sottovalutazioni del nemico. Le terapie sono consapevolezza che siamo noi a costruirlo e che difenderlo a testa bassa ci procurerà altri inconvenienti, tra cui la follia: uno stato in cui il muro è così stretto intorno a noi da impedire il passaggio perfino alla luce. La saggezza non sta nel non edificare la barriera ma nel prendere le distanze da essa, nel liberarsi dall’orgoglio, nel riconoscere con compassione i propri e altrui muri. Combattere diventa allora recitare consapevolmente un ruolo, per qualche ragione per noi doveroso. Come fa il Samurai, per il quale il nemico vinto avrà l’onore delle armi.

 Ma la voce di Humbertino però arriva molto più lontano quando fa presente al dogmatico mondo della ragione che tutte le scelte, incluse quelle che oculatamente consideriamo razionali, si appoggiano su emozioni.

Sono queste ultime, infatti, che detengono le chiavi del portone del muro entro cui siamo autoreclusi.

 A un cambio di idea, sostanziale o minore, a ogni spostamento di attenzione corrisponde sempre la simbolica apertura di un passaggio che ne permetta l’avvento. Ma non si tratta di elementi della realtà presi a caso che hanno trapassato la soglia di noi stessi, bensì di quanto ci fa vibrare in un senso o nell’altro, a favore o contro. Come detto, l’assunzione o il rifiuto di un dato, di un concetto, di una relazione può avvenire solo a mezzo di un’emozione, oltre che dell’opportuno linguaggio e dello stato – emozionale – in cui ci troviamo, nonché dell’accredito che possiamo o non possiamo offrire alla fonte del messaggio.

 Il fratello di Nestore era arrivato nello stesso punto di Humbertino?

 “Tutto il nostro vivere come esseri umani è in quanto tale politico, perché genera mondi, e i mondi che generiamo con il nostro vivere e convivere nascono dalle emozioni che fondano le risposte […]. Al tempo stesso, tutto ciò che facciamo nel nostro vivere e convivere come esseri umani sarà di per sé anche educazione, perché opererà sempre come formatore dei sentimenti dei giovani […]”. (2)

 “Noi esseri viventi siamo sistemi determinati dalla nostra struttura. Nessuno di esterno a noi può specificare quello che accade. Ogni volta che si verifica un incontro, quello che ci capita dipende da noi. […] Anche in una conversazione come questa, ognuno ascolta a partire da se stesso; e costitutivamente, in ragione del proprio determinismo strutturale, non può che ascoltare a partire da se stesso. Quello che sto dicendo è un’alterazione che scatena in ognuno di voi un cambiamento strutturale determinato in voi, e non in quello che dico e, pertanto, non da me che sono soltanto la contingenza storica nella quale voi vi trovate a pensare ciò che state pensando”. (3)

 Note

.1 – Il pensiero di Maturana è in parte sviluppato insieme a quello di Francisco Varela. Altri autori per approfondimenti, tra cui Gregory Bateson, Paul Watzlawick, Alfred North Whitehead, Edmund Husserl, Herbert von Glasersfeld, Paul Karl Feyerabend.

.2 – Humberto Maturana e Ximena Davila, Emozioni e linguaggio in educazione e in politica, Milano, Elèuthera, 2006, p. 9.

.3 – ivi, p. 75-76.