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Non più una classe dirigente ma solo dominante

di Gaetano Azzariti - 05/02/2021

Non più una classe dirigente ma solo dominante

Fonte: Il Manifesto

Abbiamo assistito in questi giorni, impotenti, al collasso della classe politica. Un indecoroso showdown finale, ma i sintomi del tracollo erano da tempo evidenti. Palese la progressiva perdita di autorità di un ceto politico fragile, sradicato dagli interessi materiali dei rappresentati, incapace di costruire il nuovo, persino di gestire l’esistente. Un’introversione che ha trasformato la natura della nostra classe governante: non più «dirigente» ma solo «dominante». In questa situazione tra passato e presente – ci insegna una classica pagina gramsciana – «il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati». Ma è ancora Gramsci a chiedersi se queste fasi si devono risolvere «necessariamente» a favore di una restaurazione del vecchio. Ed è questa la domanda che dovremmo seriamente porci ancor oggi.

È pressoché inutile andare alla ricerca del colpevole: siamo tutti coinvolti. Ciò non vuol dire che siamo tutti egualmente responsabili, tutt’altro. Ma la debolezza complessiva del sistema politico e della rappresentanza ha fatto sì che non si sia riusciti ad evitare il peggio, neppure quando questo si è manifestato nel modo più sguaiato e strumentale: «fenomeni morbosi» fatti passare per «capolavori politici». È allora alla debolezza complessiva del sistema democratico che dobbiamo guardare se non vogliamo finire per rimanere tutti travolti sotto le macerie di un regime di poteri ormai a pezzi.

Non è neppure questione dell’ultimo governo o del prossimo. Non si può ridurre tutto alle inadeguatezze ovvero alle virtù, all’accusa ovvero alla difesa, del governo giallorosso, il quale ha tentato di far fronte ad un’emergenza imprevista e incontenibile con numerose incertezze, diversi errori, qualche successo, molte giustificazioni. Non è la problematica gestione della pandemia il reale problema, semmai questa ha mostrato con drammatica evidenza tutti i difetti del nostro sistema politico. D’altronde, poiché non ci si può nascondere che la follia della crisi di governo era ormai giunta ad un punto morto, non ci si può neppure limitare a recriminare se, in una situazione di pericolosa paralisi, il garante della nostra costituzione ha adottato quel che a lui è parsa l’unica via per provare ad uscire dal tunnel.

Draghi è il frutto del vuoto della politica, non la sua causa. Per questo – volendo risalire alle profonde ragioni della crisi e non rimanere solo avvinghiati agli effetti – bisogna riconoscere che il vero problema è il «vuoto», non chi lo ha riempito. Anche perché la sfida che ci attende è tutta politica. Non è infatti in discussione la sicura competenza e l’alto profilo del prossimo governo, né è da sottovalutare il valore che questo rappresenta.

La questione da porre però è quella del fine che un governo dei migliori deve avere. Ecco il punto critico: mi chiedo chi oggi sappia rispondere alla domanda sui «fini». Non vedo nessuno che si interroghi sulle grandi questioni strategiche, tutti presi a salvare solo se stessi. È qui che si intravede la miseria della politica e, in essa, i limiti della sinistra. Una politica che ha ormai perduto la sua capacità di costruire modelli di civiltà e orizzonti di liberazione; essa si è ridotta a mera tattica, estemporanee dirette sui social e disinvolti giochi di palazzo. Una sinistra che ha rinunciato alle sue «utopie concrete», ai valori storici che l’hanno legittimata (l’eguaglianza nei diritti e il rispetto della dignità sociale), ai nobili ideali, tutti sacrificati sull’altare della modernità del mercato e dello sviluppo.

Entro quest’orizzonte politico-culturale, privati di ogni prospettiva, come stupirsi che ci si affidi a chi ha dato prova di saper evitare il peggio, riuscendo in una fase di massima criticità a scongiurare il crollo del sistema economico-finanziario europeo e, dunque, dimostrando di saper restaurare il vecchio (potremmo ripetere: and believe me, it will be enough). Se il «nuovo» non sa nascere, non può poi pretendere di fermare chi si propone di dare una risposta di sicurezza e protezione evitando la caduta del sistema nell’anomia. Non si può opporre la propria debolezza al passato che avanza. Allora, per dare un nuovo orizzonte al progresso, quello di cui avremmo bisogno – per riprendere ancora Gramsci – è una riforma intellettuale e morale che permetta ad un gruppo sociale di affermarsi come ceto dirigente (e non solo dominante), ma in assenza di una classe politica tutto è molto più difficile.