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Occidentali, decadenti di successo

di Marcello Veneziani - 01/03/2020

Occidentali, decadenti di successo

Fonte: Marcello Veneziani

Ma che strana decadenza vive l’Occidente. Scoppia di salute e di successo, perciò invecchia e declina. È la tesi originale, o quasi, di una giovane pensatore conservatore americano, quel Ross Douthat, quarantenne, studi filosofici ad Harvard, cattolico ex pentecostale, firma del New York Times e della National Rewiew, autore di saggi con una forte risonanza, come quello dedicato al New Party repubblicano, o alla Bad Religion.

La sua opera sulla decadenza della nostra società è il controcanto aggiornato non tanto al Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler, di un secolo fa, ma alla Fine della Storia e l’ultimo uomo di Francis Fukuyama, che l’autore nippoamericano ha ora ripubblicato, ampliando il suo famoso testo di trent’anni fa. Allora la storia finiva con la caduta del Muro di Berlino nelle braccia dell’Occidente sconfinato, che diventava globale e imponeva al mondo il suo modello liberale e capitalista, uscito vincitore dalla disputa col comunismo ma ancora ignaro del pericolo islamico e della minaccia cinese.

Stavolta, invece, la fine della storia s’impregna di decadenza più che di sconfinamento, e non somiglia nemmeno al Suicidio dell’occidente di cui scriveva nei primi anni Sessanta James Burnham. Ma con una modalità diversa e sorprendente. Decadenza per troppo successo, sazietà che diventa stagnazione e opulenza che si fa disperazione.

Seguiamo il ragionamento di Douthat in questo libro, Decadent society, uscito a fine febbraio negli States, che ha un sottotitolo particolare: “Come siamo diventati vittime del nostro stesso successo”, che fa il verso all’altro suo sottotitolo sulla Bad Religion “come siamo diventati una nazione di eretici”. Per Douthat la decadenza non cominciò con la crisi economica, con la guerra in Vietnam, la Contestazione o il declino del modello americano (secondo la tesi famosa di Paul Kennedy), ma dopo la conquista della luna. Fin lì credevamo entusiasti nel futuro e nel progresso scientifico, vivevamo la tensione di un’impresa corale gloriosa, che era poi la versione spaziale del mito americano della nuova frontiera. Invece, dopo la conquista della luna lo slancio si fermò, il disincanto spense il sogno astrale, scoprimmo un grande avvenire alle spalle, il futuro si fece passato (una tesi che ho già espresso nel mio ultimo libro, Dispera bene).

Il progresso fu messo in discussione, si riscoprirono i limiti dello sviluppo, si pensò che fosse prioritario difendere l’ambiente e il pianeta piuttosto che tentare ardite conquiste dello spazio. Il cammino della scienza e della tecnica certo non si fermò ma la sua ricaduta pratica riguardò soprattutto la nostra vita privata, individuale. Infatti la conquista più travolgente di questi anni è stato il web, lo smartphone, i passi da gigante della tecnologia personale, portatile, domestica. E’ come se la tecnologia abbia rielaborato la fine della storia e abbia pensato a produrre mutazioni antropologiche, cambiamenti a livello individuale ma non più sociali, civili o epocali. Ecco, l’individualismo come frantumazione del mondo ed egocentrismo di massa.

Il livello di benessere è cresciuto, nonostante le crisi economiche e politiche, la crescita demografica del mondo è pazzesca ma la denatalità è paurosa in Occidente. Per Douthat siamo vittime del nostro successo. Occidente sazio e disperato, diceva già Papa Giovanni Paolo II trent’anni fa; lo diceva prima il cardinale Biffi parlando di edonismo emiliano. Il nostro benessere, la nostra agiatezza che non ha paragoni col passato si volge in stagnazione, ripiega nella solitudine, vive la fine di ogni dimensione storica di civiltà. Il collasso della cultura, la perdita della tradizione e della memoria storica, il trionfo della mediocrità di massa. Sradicati dal passato, privi di ambizione, privati di futuro… La stagnazione per Douthat si manifesta nella tecnoeconomia globale, nella sterilità demografica, nella sclerosi delle istituzioni democratiche (che produce poi reazioni come il successo di Donald Trump) e lo stanco ripetersi della produzione culturale, schiava ormai di canoni e stereotipi.

In opposizione a questo scenario di decadenza, Douthat riprende la prospettiva escatologica, che serpeggia nelle vene dell’America, e ritrova sulla sua strada il nostro GiovanBattista Vico, con la sua Provvidenza e la sua teologia civile. La società occidentale, americana, moderna è fondata sul progresso verso l’infinito, ma se all’infinito togli la meta finale, il culmine nelle braccia di Dio, nella Redenzione o nel Paradiso, è come una lucertola decapitata, che si dimena come in preda a una dannazione. Il progresso infinito senza il fine supremo si scopre inquietudine e angoscia, ripiega in se stesso per proteggersi dalla velocità verso l’ignoto e produce stagnazione. Ecco la decadenza, senza peraltro una visione della decadenza, anzi con l’interruzione di ogni discorso pubblico e di ogni telos o apertura di senso.

Alla vertigine per l’infinito dedica un suo saggio un altro giovane filosofo francese, cattolico e conservatore di Versailles, il trentacinquenne Francois-Xavier Bellamy, che nel suo ultimo pamphlet, Dimora, pubblicato in Italia da Itaca per la Fondazione De Gasperi, si chiede come sfuggire “all’era del movimento perpetuo”. Già, la stagnazione di Douthat è staticità, ma non è stabilità. Al suo interno è divorata da un moto perpetuo che ci fa perdere ogni equilibrio, ogni identità e ogni rapporto significativo col mondo circostante. Tornare a casa e tornare a Itaca è il messaggio di Bellamy.

Nell’attesa viviamo la decadenza stagnante da homeless spiantati; ma con un successo e una longevità senza precedenti.