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Pace eterna o farsa coloniale? Analisi del Piano Trump per Gaza

di Daniele Perra - 08/10/2025

Pace eterna o farsa coloniale? Analisi del Piano Trump per Gaza

Fonte: Strategic Culture

Hamas ha lasciato intendere che gli serve tempo per studiare il Piano Trump. In realtà, come già fatto da Israele, sta studiando come fare in modo che questo non venga mai realizzato, anche se posto in essere previa accettazione. Ma cosa prevede realmente il Piano?

Gli Stati Uniti, storicamente, hanno un’idea piuttosto bislacca di negoziazione della pace. Anche in questo caso, il Piano proposto da Donald J. Trump agli Stati arabi per la risoluzione del conflitto a Gaza, di fatto, si presenta come il frutto del dialogo tra due parti che stanno entrambe sullo stesso lato della barricata: ovvero, gli stessi USA e Israele. La controparte palestinese non è stata nemmeno presa in considerazione e semplicemente messa di fronte al fatto compiuto con l’aut aut o lo accettate o il genocidio prosegue. Questo, in linea teorica, lo renderebbe già di suo inaccettabile. Ma è giusto andare con ordine ed analizzare nel dettaglio i venti punti di un piano già ritoccati a più riprese sotto pressione sionista.

Gaza dovrebbe divenire una zona libera dal terrorismo incapace di porre minacce ai suoi vicini. Qui ci sarebbero da fare alcune precisazioni, perché la lotta armata di Hamas è sempre stato rivolta contro un solo “vicino”: quello che occupa ciò che è considerato come “territorio dell’Islam”, la Palestina storica. Mai le operazioni militari di Hamas sono state indirizzate contro altri soggetti. Anche il caso siriano – quando Hamas, ad inizio conflitto, si schierò con i presunti “ribelli” – rimane piuttosto controverso in questo senso, visto che fu l’esito di una frattura tra l’ala politica (legata al Qatar, e dunque pro-ribelli) ed ala militare (più vicina all’Iran).

Inoltre, andrebbe sottolineato come, in realtà, sia Israele a rappresentare una minaccia per i suoi vicini, avendo reiteratamente attaccato negli ultimi anni sei diversi Stati: Siria, Libano, Iraq, Iran, Yemen e Qatar (Senza considerare ovviamente la Striscia di Gaza, vittima di innumerevoli aggressioni dal 2007 in poi, e la proiezione di influenza sionista su Cipro).

Il Piano prevederebbe inoltre la liberazione dei rimanenti ostaggi in mano ad Hamas in cambio di 2000 (circa) prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane (compresi alcuni ergastolani). A questo proposito andrebbe riportato che spesso le azioni di Hamas (ma anche dei gruppi più secolarizzati della Resistenza palestinese) sono state rivolte alla liberazione di detenuti. Hamas, dopotutto, agisce sulla base di un centralismo democratico (assai simile ai Partiti marxisti-leninisti del Novecento) in cui le decisioni vengono prese previa consultazione tra le diverse sezioni (Gaza, Cisgiordania, esponenti all’estero e prigionieri). Ancora, andrebbe sottolineato il fatto che sugli ostaggi presi da Hamas si è costruita una retorica stucchevole sia all’interno che all’esterno di Israele. L’esecutivo israeliano ha dimostrato di essere meno interessato alla loro liberazione che al raggiungimento di precisi obiettivi di espansione territoriale che richiamano il sogno della “Grande Israele” (cosa dimostrata anche dall’applicazione del protocollo Annibale che prevede l’eliminazione congiunta di rapitore e ostaggio per fare in modo che questo non venga utilizzato come arma negoziale contro Israele), a differenza di parte dell’opinione pubblica israeliana che sembra invece essere interessata alla loro sorte. Sul piano internazionale, l’indignazione provocata dall’azione di Hamas del 7 ottobre 2023 non si è mai osservata nelle migliaia di casi in cui Israele ha letteralmente rapito, incarcerato e torturato cittadini palestinesi senza alcuna reale accusa e processo. E nemmeno durante le operazioni “Piombo Fuso” o “Pilastro di Difesa” che, prima del 2023, hanno portato alla morte di centinaia di civili a Gaza (senza considerare l’illegale blocco navale che da oltre un decennio ne limita l’accesso ai bisogni di prima necessità). Una commissione ONU, tra l’altro, aveva già stabilito, in riferimento proprio a “Piombo Fuso”, che Israele anche in quella occasione si era macchiato di gravi crimini di guerra (ovviamente senza alcun tipo di reazione da parte delle sempre attente democrazie occidentali, sic!). Va da sé, infine, che nessuna voce internazionale si era alzata, ancora una volta, prima dell’ottobre 2023, quando Israele aveva già raggiunto il triste primato di anno con il maggior numero di minori assassinati dal 1967 in poi.

Tornando al Piano Trump, viene qui richiesta la totale cessazione delle attività militari, la demilitarizzazione di Hamas (non vengono citati altri gruppi quali il Jihah Islamico, non si capisce perché) e la fine della sua attività politica. Anche qui si è di fronte ad un aspetto controverso. Hamas, infatti, nel corso tempo ha saputo costruire un discorso culturale egemonico (nel senso gramsciano del termine) ed una rete di contatti estremamente ramificata nella Striscia. É difficile pensare che suoi affiliati o simpatizzanti non riescano comunque a ricostruire e riappropriarsi di spazi di azione politica in futuro. Inoltre, nonostante gli sforzi degli influencer a libro paga di Tel Aviv che cercano di presentare la popolazione di Gaza come ostile nei confronti del Movimento di Resistenza Islamico, questo aspetto si scontra con la realtà di una crescente adesione alla sua ala militare che ha permesso alla stessa di rimpiazzare le perdite subite nei primi mesi dell’azione israeliana e di porre nuove minacce all’IDF. In questo senso, Netanyahu potrebbe giocare la carta dell’elevato numero di vittime militari israeliane per mostrare che vi è una qualche forma di conflitto nella Striscia e giustificare gli atti (comunque criminali) delle sue forze di occupazione. Ma questo giocherebbe inevitabilmente a suo sfavore sul piano interno, rendendo ancora più impopolare la sua “guerra totale” (fece lo stesso impedendo che venissero diffuse le immagini della distruzione provocata dai missili iraniani durante la “guerra dei 12 giorni).

Il racconto israeliano dei fatti, inoltre, stride con il punto del Piano in cui viene assicurato l’immediato invio di viveri e aiuti umanitari nella Striscia. I suddetti influencer a libro paga di Tel Aviv, infatti, continuano a ripetere che a Gaza non si muore di fame.

Ancora, il Piano prevede che Gaza venga governata da un apparato tecnocratico composto da “palestinesi apolitici”. Premesso che trovare “palestinesi apolitici”, soprattutto di questi tempi, è piuttosto complicato (anche tra la diaspora), quando Hamas, dopo aver vinto le elezioni del 2006, propose la creazione di un esecutivo tecnico (il celebre “governo dei professori”), Stati Uniti ed Israele fecero enormi pressioni sull’Autorità Nazionale Palestinese affinché questo venisse boicottato in ogni modo. Andrebbe inoltre ricordato che il colpo di Stato di Hamas nella Striscia fu il prodotto del tentativo di infiltrare nella stessa, via Egitto, miliziani di al-Fatah, addestrati da USA, Israele e Giordania, che qui avrebbero dovuto attaccare le posizioni del Movimento di Resistenza. Un’operazione che Israele cercherà di ripetere anche in altre occasioni, sfruttando elementi legati ad al-Qaeda o al sedicente “Stato Islamico”. Questo, inoltre, dimostra quanto fosse in errore l’ala politica di Hamas nel sostenere i “ribelli” siriani nel 2011, tradendo il governo che li aveva ospitati per diversi anni. Oggi, infatti, a Damasco vi è al potere un conglomerato di gruppi assolutamente disinteressati alla causa palestinese e pronti a siglare accordi di cooperazione con Tel Aviv.

Questo presunto governo tecnico risponderebbe direttamente al “consiglio della pace”, presieduto da Donald J. Trump più altri capi di Stato (non meglio specificati), con la supervisione dell’ex primo ministro britannico Tony Blair (ora ben pagato conferenziere, già protagonista della distruzione dell’Iraq con l’aggressione della “coalizione dei volenterosi” nel 2003).

Appare evidente come a comandare a tutti gli effetti sarebbero gli Stati Uniti (e, dunque, pure Israele) ed il fatto che l’obiettivo sarebbe quello di trasformare l’area di Gaza in una sorta di “città internazionale” (sulla scia di Hong Kong prima dell’annessione alla Repubblica Popolare Cinese). A questo scopo, sarebbe pronta un Forza Internazionale di Stabilizzazione che dovrebbe progressivamente sostituire l’IDF nelle aree bonificate dal terrorismo per preparare la strada alla ricostruzione ed all’auspicato flusso di investimenti messo in preventivo dal sogno immobiliare del genero di Donald Trump, l’ebreo vicino alla setta Chabad Lubavitch Jared Kushner.

Anche in caso di non accettazione da parte di Hamas, il piano verrebbe portato a compimento proprio attraverso questo scambio tra IDF, che proseguirebbe il suo lavoro di “bonifica” (ovvero, di pulizia etnica), e la Forza Internazionale di Stabilizzazione, naturalmente a guida USA.

La sorte della popolazione di Gaza rimane comunque incerta. Sicuramente gli viene negata qualsiasi forma di autodeterminazione. E risulta altresì curioso il fatto che a questa, tradizionalmente conservatrice, venga presentato come immagine di sviluppo e prosperità il poter vivere come comparse tra bordelli, case da gioco e locali notturni. Ma questo aspetto rientra nella tradizionale crassa ignoranza americana della geografia culturale e nel più articolato processo di desacralizzazione dello spazio o di “occidentalizzazione” del mondo.

Dunque, Gaza non sarebbe più Palestina. Altro fattore che complicherebbe ulteriormente l’aspirazione ad uno Stato palestinese, visto che i territori ad esso destinati si limiterebbero ai pochi spazi non occupati dai coloni sionisti in Cisgiordania. Aspetto che verrebbe accolto con gioia dai ministri fanatici del governo Netanyahu.

Ora, sul piano più prettamente geopolitico, l’accordo proposto da Trump offre un doppio vantaggio ad Israele. In primo luogo fornisce una via d’uscita ad una situazione che si stava complicando non poco sia sul piano militare (con un attacco a Gaza City che potenzialmente può aumentare il numero delle perdite israeliane sul campo di battaglia), sia su quello dell’opinione pubblica, con un evidente peggioramento della posizione di Israele sul piano internazionale.

Allo stesso tempo, in caso di mancata accettazione, offre ad Israele la scusa per proseguire la sua opera di sterminio, per la gioia di suddetti ministri fanatici che considerano i palestinesi come animali da eliminare.

Il Piano offre una via d’uscita anche ai governi arabi che potrebbero entrare come investitori a Gaza, dando l’idea di avere a cuore la sorte della sua popolazione. Fatta eccezione per l’Egitto che si troverebbe comunque ad affrontare il rischio di una migrazione verso il Sinai assolutamente indesiderata per il semplice fatto che la presenza palestinese lo trasformerebbe inevitabilmente in obiettivo israeliano (dopotutto, già occupato nel 1967 e poi ceduto, il Sinai rimane parte del sogno espansionista della “Grande Israele”).

Oltrepassando i confini della Palestina, in conclusione, il Piano Trump fornisce un’ottima opportunità per distrarre da ciò che è il reale obiettivo: la Repubblica Islamica dell’Iran. Un nuovo attacco è infatti in preventivo ed un accordo su Gaza permetterebbe ad Israele di destinare importanti risorse a questo scopo.