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Possiamo interpretare il ritorno al potere delle “élites” come un’inconsistenza del populismo?

di Marco Tarchi - 14/03/2021

Possiamo interpretare il ritorno al potere delle “élites” come un’inconsistenza del populismo?

Fonte: L'intellettuale dissidente

l termine “populismo” è uno dei più ricorrenti nel dibattito politico odierno. Viene frequentemente utilizzato come elemento discriminatorio nei confronti dell’una piuttosto che dell’altra forza politica. Per liberare il campo da interpretazioni fuorvianti riproponiamo un’intervista rilasciata dal Professor Marco Tarchi nel novembre del 2017 (e pubblicata sul portale vita.it), qui aggiornata alla luce dell’attuale quadro politico.  A cura di Filippo Romeo

2017

Essendo lei uno dei massimi studiosi di tale fenomeno potrebbe darci una definizione appropriata del termine populismo?

La definizione che ne ho fornita nel mio libro Italia populista è la seguente: “la mentalità che individua il popolo come una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili, gli attribuisce naturali qualità etiche, ne contrappone il realismo, la laboriosità e l’integrità all’ipocrisia, all’inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche, economiche, sociali e culturali e ne rivendica il primato come fonte di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e di mediazione”. A distanza di quasi tre anni, la trovo più che mai appropriata.

Quali sono le condizioni ideali che permettono lattecchimento e lo sviluppo di tale fenomeno? 

Situazioni di crisi e di diffusa sfiducia verso la classe politica, che possono essere determinate dai fattori che ho indicato nella definizione appena citata. In questo senso, il populismo non è, come spesso si sostiene, un fattore di logoramento dei sistemi politici democratici, ma un prodotto delle loro insufficienze.

Quali i fini politici perseguiti dai promotori? 

In astratto – o, se si preferisce, nel lungo o lunghissimo periodo, la restaurazione di quella unità ed armonia del corpo popolare che è alla radice del loro immaginario. Concretamente e in termini di tempo meno dilatati, la conquista del potere di governo, auspicabilmente da soli per evitare di dover subire condizionamenti ed intralci, per mettere in atto quelle riforme che reputano essenziali per raggiungere i fini ultimi. Di solito, fra i primi provvedimenti, auspicato c’è l’avvio di procedure di democrazia diretta che si sostituiscano progressivamente alle istituzioni fondate sul principio della rappresentanza indiretta, che agli occhi dei populisti non è altro che un meccanismo volto ad espropriare il popolo delle prerogative di autogoverno che gli spetterebbero. Ovviamente, a questi progetti se ne affiancano altri in vari ambiti, sempre indirizzati allo scopo principale.

Può il populismo essere incarnato da esponenti delle istituzioni? In caso affermativo può illustrare qualche esempio?

Se ci si riferisce alle tradizionali istituzioni rappresentative, è senz’altro possibile che chi ne fa parte o le dirige utilizzi il gergo e la retorica del populismo; ma si tratta in genere di usi strumentali, che non si raccordano alla mentalità cui ho fatto cenno. Di questi tempi, non pochi politici di professione, esponenti di quello che i populisti definiscono l’establishment, rendendosi conto della presa che talune argomentazioni tipicamente populiste hanno su settori importanti della pubblica opinione, le prendono a prestito per far concorrenza a questi avversari sul loro stesso terreno. Si spiega così perché Renzi, ad esempio, faccia frequente ricorso ad aspri attacchi verbali contro soggetti che i populisti mettono alla berlina: i “burocrati di Bruxelles”, “l’Europa delle banche e della finanza” e così via.

Nel suo libro Italia populista lei definisce il Paese come un laboratorio del populismo. Potrebbe fornirci le ragioni di questa sua valutazione? 

Mi pare che la storia politica dell’Italia repubblicana dimostri abbondantemente che sul nostro suolo sono state sperimentate le forme più diverse di populismo: il qualunquismo, il laurismo, alcuni aspetti del radicalismo pannelliano, il leghismo, il dipietrismo, la Rete di Orlando, il berlusconismo, i girotondi, fino a giungere alla predicazione di Beppe Grillo; e l’elenco potrebbe ampliarsi. Nel mio libro ho cercato di mettere in evidenza tutti i caratteri, quelli comuni e quelli specifici, di questi fenomeni, che autorizzano a parlare di un vero e proprio laboratorio. Ma prima di me se ne era accorto lo storico latinoamericanista Loris Zanatta, a cui si deve il conio di questa espressione. Lo storico e politologo francese GuyHermet è andato oltre, parlando dell’Italia, per gli stessi motivi, come del “paradiso populista”.

È corretto interpretare come ondata populista gli avvenimenti politici che di recente hanno interessato Europa e Stati Uniti?

Sì, purché non si faccia di ogni erba un fascio e si sappia distinguere la specificità di ciascuno dei fenomeni che l’hanno caratterizzata: nella Brexit, nell’elezione di Trump e nei successi dei partiti di Marine Le Pen, Geert Wijlders e Hans-Christian Strache ci sono elementi accomunanti ma anche non secondarie differenze.

I movimenti e i partiti di destra radicale” che stanno avanzando in varie parti dEuropa possono essere ricompresi nella categoria del populismo?

Dipende. Diffido della pur molto utilizzata etichetta di “partiti della destra radicale populista”, perché, come ho dimostrato in modo argomentato nel libro da Lei citato, la destra radicale o estrema destra – e anche qui ci si imbatte nella scivolosità delle classificazioni, sulle quali in campo scientifico si è ben lungi dal registrare una concordanza – si differenzia dal populismo per un gran numero di aspetti. Del resto, in un ambito si può parlare di una vera e propria ideologia, mentre nel secondo ci si trova di fronte a una mentalità caratteristica: sono entità diverse. Ciò spiega perché esse assegnino significati diversi a concetti fondamentali, come popolo, nazione, Stato, società, individuo, leader, élite, democrazia, mercato – e di conseguenza li utilizzino in modi a volte opposti. Ciò non impedisce di registrare alcune adiacenze o sovrapposizioni di alcune loro posizioni o campagne, o l’individuazione di bersagli polemici comuni. Ma, tanto per fare un esempio, c’è una netta diversità, in Germania, fra l’AfD (Alternative für Deutschland), populista, e la Npd(Nationaldemokratische Partei Deutschlands), di estrema destra, o in Italia fra Lega Nord e Forza Nuova.

Quali sono in Italia i partiti o movimenti che potremmo definire populisti? E per quali caratteristiche?

Le caratteristiche, ovviamente, devono essere quelle comprese nella definizione da cui ho preso le mosse. Se parliamo di un populismo puro, oggi in Italia ne vedo due manifestazioni: la Lega Nord e il discorso politico di Grillo, che io separo dall’azione politica del Movimento Cinque Stelle perché più volte, su questioni non secondarie, i “grillini” hanno preso strade diverse da quelle indicate dal loro “garante” o “megafono” (basta pensare al problema dell’immigrazione). Io comunque non ho una visione monolitica del populismo: essendo una mentalità, per sua natura fluida, lo si può trovare in diverse percentuali sparso in vari attori del sistema politico, e può essere che il M5S finisca per assorbirne dosi tali da poter essere assegnato a questa categoria, come già pensano vari altri studiosi, oppure che se ne liberi progressivamente, staccandosi dall’impronta del fondatore.

2021

Nell’ultimo decennio il fenomeno populista ha alternato momenti di grande successo a momenti di declino, tra questi la vittoria del Leave in Gran Bretagna nel 2016 oppure l’ascesa di Trump e la sua recente uscita di scena. Che tipo di bilancio possiamo fare di questo fenomeno politico?

Il populismo ha sempre avuto un andamento ciclico: esplosione, successo, declino, scomparsa e poi di nuovo esplosione. Non a caso uno studioso attento come Loris Zanatta lo ha paragonato ad un fiume carsico, che segue un percorso a lungo sotterraneo per poi riemergere in superficie. Ciò dipende dalla sua natura di fenomeno di protesta: raccoglie sostegno quando le cose vanno male e, se ad interpretarlo ci sono leaders e movimenti efficaci, conquista posizioni; quando lo scenario migliora, o le preoccupazioni che lo avevano spinto vengono sopraffatte da altre, perde forza. Nei casi da Lei citati, è accaduto così: in Gran Bretagna l’unico obiettivo di Farage era l’uscita dall’Unione europea. Ottenuto il risultato, i suoi sostenitori si sono orientati verso altre questioni, che né l’Ukip né il BrexitParty erano in grado di affrontare efficacemente. Trump è stato sconfitto dalla pandemia, di fronte alla quale si è mostrato impreparato e poco razionale; questo non gli ha impedito di allargare la platea dei votanti ma lo ha reso incapace di attrarre gli elettori indecisi e indipendenti. In generale, il Covid-19 ha visto i populisti indecisi sul da farsi e fluttuanti nelle scelte. Ma non in tutti i paesi questo li ha fatti arretrare nei favori popolari. Quindi un bilancio netto non si può trarre, ed è probabile che la loro presenza persisterà, con alti e bassi, per molto tempo, in regimi politici che, come le democrazie occidentali, continuano a trovarsi in difficoltà nel risolvere problemi di grave impatto sociale.

Che evoluzione stanno avendo, negli Stati Uniti e in Europa, quelle forze che negli ultimi anni si sono rese protagoniste del “momento populista”? 

Una risposta che ne comprenda per intero la dinamica è impossibile, perché un’altra caratteristica di queste formazioni è il rapporto pressoché esclusivo che hanno con il loro specifico contesto nazionale: ognuna parla solo al proprio popolo, senza elaborare progetti e proposte su una scala che ecceda i confini dello Stato in cui opera. Quindi ciascuna di esse segue una specifica strategia e mette in atto le scelte tattiche che ne derivano: c’è chi radicalizza i toni anti-establishment e chi li attenua, chi guarda ad un’opposizione rigida a governi socialdemocratici o liberali e chi invece cerca il modo di ottenere uno spazio in coalizioni governative di analogo segno. Dipende dalle opportunità che si presentano, ma anche da quella che nella scienza politica è definita la variabile idiosincratica, cioè il carattere, la psicologia, le ambizioni dei loro leaders. Non esiste dunque un’evoluzione comune; i percorsi possono essere molto diversi.

Possiamo interpretare il ritorno al potere delle “élites” come un’inconsistenza del populismo?

Prima di tutto è un segno della forza di quelle stesse élites  o oligarchie, come preferiscono definirle i populisti –, che continuano a detenere risorse di potere notevoli, a partire dal peso finanziario, che in un’epoca in cui la politica è così fortemente condizionata dalle logiche economiche da apparirne quasi sempre subordinata conta in modo decisivo. Quelle élites hanno, ed esercitano, anche un grande potere in ambito culturale, e per quel tramite influiscono massicciamente sulla mentalità diffusa delle popolazioni, attirandole verso le proprie scelte e soluzioni. Poi, certo, ci sono le insufficienze di quei partiti populisti che, essendo riusciti ad esercitare (più spesso in condominio che in proprio) funzioni di governo, non hanno mantenuto una parte più o meno grande delle promesse fatte. E questo attiene alle scarse risorse in termini di expertise tecnica che i populisti detengono, alla loro abitudine di affrontare in modo semplicistico questioni complesse: un difetto a cui finora non hanno saputo porre rimedio e che li pone in difficoltà di fronte a “quelli che stanno in alto”.

L’esperimento populista italiano, targato M5S e Lega, alla fine dei giochi, sta portando alla formazione di quello che già molti definiscono “Governo delle élites”. Che conclusioni se ne possono trarre?

Che l’istituzionalizzazione è il grande nemico dei movimenti populisti (ammesso che il M5S si possa davvero considerare tale): rischia di trasformarli in partiti come tutti gli altri e sottrae loro la voglia di mettere in discussione l’establishment.