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Profeti di sventura

di Marco Tarchi - 26/04/2020

Profeti di sventura

Fonte: Diorama letterario

C’è stato un tempo in cui i futurologi (allora era un neologismo) andavano di moda. Conquistavano le prime pagine dei quotidiani e si faceva a gara ad intervistarli in radio o in televisione. Mancando internet, a nessuno era venuti in mente di battezzarli influencers e non si poteva misurare in likes o in numero di visualizzazioni la loro presa sull’opinione pubblica, ma non c’è dubbio che le loro voci si facevano sentire un po’ ovunque e suscitavano una sequela pressoché infinita di dibattiti. La loro specialità era, ovviamente, disegnare scenari per i decenni o i secoli venturi attorno ai quali esercitare la loro expertise – che poteva derivare dalle più svariate formazioni: dalla sociologia alla biologia, dalla demografia alla fisica, dalla robotica (altra parola che furoreggiava) alla filosofia, e la lista non è esaustiva – e soprattutto la loro fantasia.
Correvano allora, e a passo di carica, gli anni ultimi anni Sessanta e i primi del decennio seguente. Nei paesi che avevano subito le ferite della guerra e le fatiche della ricostruzione, si era già fatto registrare il periodo del boom e, malgrado le periodiche ricadute del ciclo economico – in Italia definite eufemisticamente «congiuntura» –, il clima psicologico volgeva all’ottimismo. Era in pieno svolgimento la gara per la conquista dello spazio extraterrestre, si erano moltiplicati – da noi raddoppiati – i canali televisivi e già da un po’ si parlava di cervelli elettronici, enormi cassoni di metallo che sapevano fare rapidamente calcoli quasi inaccessibili alla mente umana. La sigla Ibm cominciava ad avere un significato per molti e la parola «informatica» circolava a largo raggio.
Gli addetti alle previsioni sul futuro si dividevano, all’epoca, in due schiere, seguendo l’imperitura linea di confine tra ottimisti e pessimisti. Più che scontrarsi frontalmente, si spartivano i compiti e i favori del pubblico. I primi, nettamente maggioritari, puntavano sulle infinite meraviglie della tecnica e della tecnologia, sulla potenza dell’atomo, sulle strabilianti innovazioni nel campo delle telecomunicazioni e della mobilità tout court: il fertile genio di Jules Verne veniva estrapolato dalle pagine dei romanzi per ragazzi e si discettava sulla ormai prossima traduzione delle macchine da lui immaginate in strumenti della reale quotidianità (ma c’era anche chi rispolverava l’uomo-uccello di Leonardo da Vinci e il nome Icaro andava per la maggiore). La genetica faceva la sua parte e prendeva l’avvio la scommessa sugli anni che ci sarebbero voluti per vincere le malattie ed assicurare all’umanità, se non l’agognata immortalità, perlomeno una durata record, con una media spinta oltre il secolo. Gli assai meno numerosi scettici ponevano i primi interrogativi su quella che più tardi sarebbe stata chiamata “l’altra faccia del progresso”. Non smontavano il quadro descritto dalla controparte, ma lo corredavano di dubbi. Come sarebbe stato possibile sfamare una popolazione mondiale in costante crescita? Quali costi avrebbero comportato lo spopolamento delle campagne e il proliferare delle fabbriche nei centri urbani? Il Terzo mondo avrebbe retto l’impatto dell’aumento del già consistente divario di ricchezza rispetto ai paesi “sviluppati”? C’era persino chi metteva in circuito un’espressione fino ad allora riservata a qualche trattato scientifico, «ecologia», associata ad altre parole di recente ingresso nell’uso ordinario, come «inquinamento» e «ambiente».
Il dibattito fra entusiasti e dubbiosi continuò ad attirare l’attenzione delle masse per alcuni anni, poi venne accantonato per far posto ad altre tematiche di attualità non meno stringente, dalla crisi petrolifera innescata dalla guerra del Kippur, che sembrò dare temporaneamente ragione a chi non vedeva tutto roseo, all’involuzione del ribellismo del Sessantotto in guerre civili striscianti, conflitti sociali più aspri, e terrorismo. Finita l’ondata di piena della violenza politica e inaugurato il periodo del «riflusso», gli specialisti in rappresentazione dell’avvenire finirono con l’essere travolti dal ritmo impetuoso con cui l’innovazione tecnologica ridisegnava il presente. Non c’era più bisogno del loro vaticinio: adesso parlavano i fatti, che rafforzavano nella loro fede i cultori del Progresso, infallibile indicatore della direzione intrapresa dal Senso della Storia (maiuscole d’obbligo in tutti e tre i casi). E per magnificare quei fatti bastavano gli scienziati “veri”, i tecnici di laboratorio, i ricercatori, i managers. La fortuna dei moderni stregoni, dei moderni scrutatori degli astri, pareva tramontata per sempre.
E invece..
E invece, grazie all’epidemia del famigerato Covid-19, l’era dei futurologi si è d’improvviso riaperta. Non li si chiama più così, salvo che in casi rarissimi – si è rispolverato persino Jerry Kaplan, uno dei pochi che ancora rivendica con orgoglio l’etichetta e che sin qui si era intelligentemente limitato a profetizzare sulle connessioni fra intelligenza artificiale e mondo del lavoro –, ma li si invita su tutti i palcoscenici mediatici, se ne ascoltano i pareri con un misto di timore, speranza e devozione, li si gratifica di un’attenzione a tratti spasmodica. È tornato il loro momento e loro ne approfittano. Imperversano, tratteggiando scenari a breve, media e lunga scadenza. Ci dicono quale sarà il nostro destino di qui a chissà quando, cosa accadrà nel nostro habitat, quali conseguenze avrà ogni atto che compiremo, come cambieranno il volto del nostro lavoro, l’impiego del nostro tempo libero, i codici della nostra affettività. Vogliono impressionarci e convincerci. Sguazzano nella pandemia ora con la leggerezza del racconto di miracolose, anche se sospirate, rinascite (la filosofia dell’«andrà tutto bene», quella che innesca i cori sui balconi e l’illuminazione simultanea degli schermi di cellulari, che dovrebbe fugare la paura), ora con i toni severi e dolenti dei profeti di sventura, che snocciolano il rosario di tutto ciò che abbiamo perduto per sempre e, spesso, ci somministrano la versione laica e desacralizzata del «pentiti, ché la fine è vicina», ammonendoci non soltanto a rispettare le regole del «distanziamento sociale» e ad indossare le mascherine, ma anche ad essere d’ora in poi più pazienti, rispettosi e solidali, o addirittura a «sentirsi una vera comunità», obiettivo che a qualcuno potrebbe sembrare difficile da raggiungere se, come pure ci viene vaticinato, ci dovremo scordare una volta per tutti gli «assembramenti», le cene in lunghe tavolate, le chiacchiere gomito a gomito sull’autobus o al mercato.
Sono, o ambiscono ad essere, i nuovi persuasori occulti, adatti ad un periodo in cui l’industria della paura non è più – come si è ripetuto fino allo sfinimento da un quarto di secolo a questa parte, e con crescente insistenza – monopolio dei populisti (che restano comunque «più pericolosi del virus», copyright del consolidato duo Alesina-Giavazzi insidiato da parecchi altri commentatori). Come ai vecchi tempi, appartengono alla corporazioni professionali più svariate: questa volta sono in particolare evidenza i romanzieri, a cui i giornali consegnano volentieri colonne e intere pagine, sapendo che le loro doti immaginative sono particolarmente prolifiche, ma non mancano, oltre a figure già chiamate in causa, gli economisti, i virologi, gli epidemiologi, gli statistici (medici e non), che esercitano questo ruolo come una sorta di seconda professione, spesso esplicitata in sequenza diretta con la prima: appena hanno smesso di trattare il problema-coronavirus secondo le loro competenze di natura medica, indossano i panni degli sproloquiatori sulle prossime sorti del genere umano e procedono a ruota libera.
Per riassumere tutto ciò che è emerso dai responsi di questi nuovi illuminati non basterebbero molte più pagine di quelle di cui disponiamo. Ci si può limitare a un breve campionario, che parte dal livello più basso, quasi infimo, della prospettazione dei nuovi assetti che avranno le spiagge e i ristoranti di quella che, senza un briciolo d’ironia, viene definita «la società del dopo-Covid19», in cui l’ingegno si limita a congetturare gazebo isolanti in plastica sotto i 40 gradi del sole di agosto, paratie mobili fra un tavolo di ristorante e l’altro, bizzarre disposizioni dei sedili in aereo o in treno e si spinge fino al vertice degli oracoli di ambientazione planetaria («è finita la globalizzazione», «il mondo come lo abbiamo conosciuto non esisterà più»), passando per il piano intermedio delle anticipazioni su tutto quello che «finirà»: dal turismo alle classi degli studenti in aula, ai concerti e alle competizioni sportive negli stadi.
Naturalmente, i pareri sono discordi un po’ su tutto e, complice la trasformazione ormai stabile dell’informazione in infotainment, vanno in onda epiche sceneggiate che hanno per protagonisti i summenzionati specialisti in epidemie, che si trattano reciprocamente da imbecilli, sostenendo l’uno che l’intera stirpe umana andrebbe concentrata in appositi Lager per anni per arrivare al mitico traguardo dei «contagi zero» (e anche oltre, perché ci sarebbero sempre in agguato una recrudescenza del morbo già noto o un’altra pandemia pronta a raccoglierne il testimone) e l’altro o altra che, tutto sommato, il «tutti a casa» serve a ben poco. Non solo. A volte sono le stesse nuove star della tecnocrazia in incubazione a contraddirsi, perdendo il filo del discorso: in un momento sostengono che bisogna continuare a impedire ogni contatto fra individui – trasformati in blocco in potenziali agenti del contagio, perché se non presentano sintomi e stanno benissimo potrebbero essere di danno agli altri – e un quarto d’ora dopo affermano che «finché non ci sarà l’immunità di gregge le cose non potranno cambiare» (e come si fa a crearla, questa immunità, standosene chiusi in casa? Misteri del ragionamento scientifico). Quando poi non sono gli scienziati a prendere la parola, ma viene il turno di altri “opinionisti”, è persino peggio. Fioccano le sentenze senza appello: dopo il da noi già citato fisico per il quale «il bene più prezioso è un po’ di vita in più», quale che ne sia la qualità, abbiamo chi, in prima pagina sul più diffuso quotidiano italiano, ci assicura che «nel dopo-virus il paternalismo sarà impraticabile», aggiungendo pensosamente che «la Storia smaschera la ferocia del mondo» (diamine: ci voleva Covid per questa scoperta?).
L’occasione di fare futurologia sotto l’occhio dei riflettori arriva talvolta a mettere a soqquadro una serie di icone consacrate dallo spirito del tempo che stiamo vivendo almeno da settantacinque anni in qua. La Svezia, esempio fin qui fulgidissimo di affidabilità politica – la perla più splendente della collana delle socialdemocrazie scandinava – ed etica – il paese delle aperture: alla libertà dei costumi sessuali non meno che all’immigrazione e alla multietnicità –, viene additata al pubblico ludibrio per essersi rifiutata di mettere sotto chiave i suoi cittadini, e l’astio nei confronti dei suoi dirigenti si respira, neanche troppo sottotraccia, in articoli e reportages sulla situazione “anomala” intrisi del non dichiarato auspicio di vederla finire prima o poi, la sciagurata!, nella tragedia dei morti a cataste, a far compagnia a noialtri sventurati meridionali del Vecchio Continente. E a chi si azzarda a dire che forse sarebbe stato meglio seguirne l’esempio, isolando tempestivamente case di cura e di riposo, facendo esami mirati ad operatori sanitari e pazienti, viene sbattuta in faccia la velenosa domanda retorica: «Ma allora volevate più morti?», trascurando il piccolo particolare che, per evitare altri decessi di ultraottantenni – intento, per carità, più che lodevole –, si sta mettendo in atto una crisi economica che condannerà milioni di persone più giovani alla disoccupazione, ad un crollo del livello di vita che potrà giungere in non pochi casi alla miseria e alla fame, se non al suicidio. E nel ciclone finiscono travolti altri tabù: dopo decenni di martellante e giustificata propaganda dell’uso dei mezzi pubblici di trasporto per ridurre l’inquinamento provocato dal traffico automobilistico, ci viene spiegato che, finché l’emergenza non sarà terminata, «la macchina sarà il mezzo più sicuro» per qualsiasi nostro spostamento e dovremo utilizzarla addirittura per andare al cinema, che si ristrutturerà con la formula del drive-in (ah, che affascinante prospettiva ritornare agli anni dell’infanzia, per chi ha visto la luce negli anni Cinquanta!), alla faccia delle crociate ecologiche proclamate dalla beata Greta da Staccolma.
Peraltro, gli sceneggiatori del futuro non sanno neppure quantificare i tempi della nostra attesa del «nuovo inizio». Quando finirà questo incubo indotto? Difficile capirlo se si raccolgono le voci della discussione pubblica. Sentiamo un ministro della salute dirci che ciò non avverrà «finché non sarà disponibile il vaccino» mentre leggiamo, per bocca di più d’uno dei tanti specialisti, che per giungere a quel risultato ci vorranno due o tre anni, e qualcun altro della congrega aggiunge che, comunque, quel vaccino non ci preserverà dalle altre epidemie in arrivo, per cui con le pandemie «dovremo abituarci a convivere» (come? Con le visiere di plexiglas vita natural durante?).
Se tutto questo fosse inquadrabile all’interno dello schema di un delirio collettivo, lo si potrebbe anche accogliere con relativa indulgenza: le cronache degli osservatori del tempo ci riportano che fenomeni di quel genere hanno costantemente accompagnato le fasi epidemiche, suscitando timori dell’Apocalisse, scatenamenti di sette di fanatici, episodi di estasi mistica e scadimenti nelle più abiette caccie all’untore di turno. Ma qui ci troviamo di fronte a qualcosa di diverso ed ancora più preoccupante. Dietro a chi, con un adeguato impiego di argomenti ansiogeni, ci vuole imporre fino a data imprecisata l’uso di guanti monouso, maschere chirurgiche, visori in plexiglas, applicazioni telematiche da scaricare sullo smartphone per essere debitamente «monitorati» e ci ribadisce a ogni piè sospinto che se non ci terremo a due metri di distanza l’uno dall’altro fino a nuovo ordine delle autorità competenti scatteranno nuovamente gli arresti domiciliari per tutti, c’è un’idea del mondo e della vita al cui cospetto le trame dei più arditi romanzi di fantascienza rischiano di apparire puerili.
Non ci riferiamo, dicendo questo, esclusivamente o principalmente al legittimo timore espresso da qualcuno dei pochissimi dissidenti dal verbo proibizionista a cui è stata concessa la parola da qualcuno dei media mainstream, salvo esporli a torrenti di scomuniche e contumelie sulle altre testate e piattaforme (il caso più noto è quello di Giorgio Agamben), che attraverso le app si possa ulteriormente rafforzare un sistema di controllo del potere sui singoli che è del resto già da tempo ben sviluppato, in vista di «strette autoritarie». Questo rischio c’è, ma è forse peggiore l’impiego intimidatorio che si fa delle argomentazioni etiche per obbligare anche i recalcitranti ad usarle, quelle app («se non lo fai, manchi di senso civico e metti a repentaglio la vita degli altri. Vergognati!». E già nei programmi televisivi e radiofonici è usuale sentir rivolgere all’ospite la domanda-tagliola: «Ma Lei la scaricherà»?). E certamente peggiore è il panorama che il clima che abbiamo sinteticamente descritto va dipingendo. Non c’è bisogno di alcun futurologo per rendersi conto che le proroghe del «distanziamento sociale» e la sua santificazione come unica ancora di salvezza di un’umanità altrimenti minacciata di sterminio, l’obbligo di parlarsi attraverso pezzi di stoffa che coprono bocca e naso, la riprovazione di ogni contatto occasionale con sconosciuti così come di gesti di affettuosità con amici, la criminalizzazione degli incontri in gruppo (i famigerati «assembramenti», provocheranno – con effetti tanto più gravi quanto più lunga sarà la durata dei provvedimenti, sempre scongiurando l’ipotesi, coltivata e divulgata da ben più d’un profeta di sventura, che questi marchingegni emergenziali divengano una costante destinata a segnare un «cambio di epoca» (ci tocca sentire pure questa) – la paralisi, o addirittura la fine, della convivialità e la progressiva abolizione della socialità, cardini di qualunque consesso civile.
C’è chi pensa che questo faccia parte di un progetto che non meglio precisati poteri forti ed opachi avrebbero messo in atto per indebolire i popoli e renderli ancora più docili alle proprie strategie. Noi non lo crediamo affatto, anche perché siamo convinti che a quegli ipotetici centri di potere la globalizzazione così come era ieri, e probabilmente tornerà ad essere un domani, andasse più che a genio e che un mondo di frontiere più chiuse, senza traffico aereo e navale, senza flussi migratori di massa, con popolazioni incattivite e rese indocili da un drastico peggioramento delle condizioni di vita, non sia nei loro auspici. Pensiamo solo che, consapevolmente o meno, le odierne classi dirigenti, sia nella loro componente politico-economica, sia in quella intellettuale, abbiano reagito a una situazione di emergenza con l’inettitudine e l’incapacità di comprensione della realtà che da decenni le caratterizza, e di fronte a una pandemia virale non abbiano fatto altro che agire in modo tale da innescarne un’altra, ben più pericolosa negli effetti a lunga scadenza: una pandemia psichica, un meccanismo ansiogeno generatore di una crisi sociale di cui dovremo sopportare nella nostra carne le dolorose conseguenze.

(editoriale del numero 354 di prossima pubbliazione)