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Propagande e “complottismi”

di Andrea Zhok - 24/01/2023

Propagande e “complottismi”

Fonte: Sfero

Quando si parla di propaganda e di manipolabilità della popolazione è un luogo comune, spesso ripreso, quello per cui il livello culturale sarebbe una variabile decisiva, in quanto capace di ostacolare l’influenzabilità dei soggetti. Questo assunto, oltre al pregio di essere gradevolmente consolatorio per chi di cultura si occupa, sembra seguire un semplice sillogismo. Dopo tutto uno non è facilmente ingannabile sulle cose che conosce, chi ha un’istruzione superiore per definizione dovrebbe conoscere più cose, ergo chi ha un’istruzione superiore dovrebbe essere meno ingannabile. Questo ragionamento è tanto apparentemente intuitivo quanto sciaguratamente sbagliato.
È possibile distinguere due forme distinte di manipolabilità soggettiva, che possiamo nominare schematicamente come manipolabilità (da istruzione) primaria e manipolabilità (da istruzione) terziaria.

1) Sulla manipolabilità primaria
Per istruzione primaria si intende la scuola dell’obbligo, e oggi possiamo considerare questo livello di istruzione come livello base, assumendo che tutti i cittadini ne abbiano goduto. Soggetti che abbiano limitato la propria istruzione a questo livello tendono ad entrare per primi nel mondo del lavoro con mansioni a basso tasso di specializzazione. Chi abbia questo retroterra culturale (naturalmente al netto della coltivazione autonoma di propri interessi) è sensibile ad alcune specifiche forme di manipolazione: quelle che fanno uso di una retorica della semplificazione e di appelli ad un presunto buon senso comune. Questa è una forma di manipolabilità potremmo dire classica, di tipo “viscerale”, in cui il manipolatore deve apparire come “persona comune con i piedi per terra” e la falsificazione avviene nella forma di taglio orizzontale della complessità. Se qualcosa rappresenta un problema la risposta sarà “schiacciamo il problema”, se qualcuno è un nemico la risposta sarà “abbattiamo il nemico”. Questa forma di manipolazione si presta a suscitare emozioni semplici e violente, ed è quella che ha trovato più spesso ospitalità nelle forme di populismo autoritario. Per prendere un esempio classico, la fiammeggiante retorica antisemita che precede e prepara le persecuzioni nella Germania del primo dopo guerra ha questo tipo di forma: data un’atmosfera di umiliazione e risentimento nazionale, cui si sommava un grave impoverimento dei ceti medi, stigmatizzare l’ebreo come “straniero in casa nostra” la cui ricchezza era “rubata al popolo” consentiva di veicolare, con due rozzi tagli semplificatori, la sofferenza popolare verso un conveniente capro espiatorio.
Questa forma di manipolazione è nota e rispetto ad essa esiste un certo grado di allerta – il che non significa che non rappresenti più un pericolo.

2) Sulla manipolabilità terziaria
Molto meno nota, e perciò molto più insidiosa, è la manipolabilità cui sono soggetti gli individui che hanno goduto di un’istruzione terziaria, cioè di livello universitario, dottorale o postdottorale. Per intenderne le caratteristiche è necessario fare chiarezza su cosa implica un’istruzione di questo tipo.
Se nella manipolabilità primaria il problema era rappresentato dalla povertà categoriale, cioè dalla possibilità di cadere in rozze semplificazioni a causa della mancanza di attenzione ai dettagli, nel caso della manipolabilità terziaria si ha a che fare con un problema assai diverso. L’essenza dell’educazione terziaria è la specializzazione, che qualifica ad occupare posizioni lavorative appunto maggiormente specializzate (e perciò più rare e tendenzialmente meglio retribuite). Nell’era moderna, diversamente dall’antichità e dal medioevo, la forma presa dalla conoscenza propriamente scientifica è quella dell’approfondimento settoriale, dell’isolamento di un campo in modo da dedicare tutte le proprie energie cognitive ad esso. Mentre la scientia antica e medievale era senz’altro il “sapere” in senso generale, la scienza moderna è lo sviluppo di una facoltà specifica di astrazione. Il soggetto che sia passato con successo attraverso un ciclo di studi superiori è un soggetto che ha imparato ad isolare un proprio campo dei saperi, con specifici metodi, secondo un sistema di divisione del lavoro, delegando ad altri l’approfondimento di altri campi.
Lo sviluppo della facoltà di astrazione-separazione è cruciale nella nascita del sapere moderno. È questo quel tipo di conoscenza che consentì di sezionare i cadaveri come oggetti, rimuovendo ogni remora legata all’idea che fossero persone, incrementando così la conoscenza anatomica; è questo quel tipo di conoscenza che fornisce tecnologia bellica o genetica disinteressandosi all’uso che ne verrà fatto, perché è un problema che riguarderà altri. Si tratta di un modello di coltivazione della mente che ha il suo punto di forza (e di debolezza) nell’esercizio a lavorare per compartimenti stagni, evitando di farsi carico dei problemi contigui, delle premesse, delle implicazioni emozionali, dei collegamenti con altri campi, ecc.
Ecco, ciò che è interessante è che questa forma mentis manifesta una propria peculiare manipolabilità: la mente formata da un’istruzione terziaria è una mente abituata a delegare ciò che esula dal suo campo di competenze a specialisti appositi, ad autorità accreditate. Paradossalmente, l’accresciuta autorevolezza e autonomia nel proprio campo tende ad esprimersi come eteronomia negli altri campi del reale. E questa, si badi, non è semplicemente una disposizione raccomandata, ma è anche realmente giustificata dal fatto che davvero l’accresciuta specializzazione tende a generare soggetti limitati e miopi in ogni campo che trascenda la propria competenza. Il prototipo macchiettistico dello “scienziato pazzo” cattura in forma di iperbole popolare un fatto che sembra paradossale, ma non lo è: il fatto che una soggettività che ha sviluppato grandemente le proprie facoltà in un campo possa risultare cieco, insensibile e squilibrato nelle proprie valutazioni al di là di quel campo. L’istruzione terziaria è un’istruzione che chiede e supporta una mente eteronoma, una mente abituata a “fidarsi dell’autorità” su tutto ciò che non rientra nelle proprie competenze, e a ragionare per astrazioni e separazioni. (Naturalmente anche qui si tratta di propensioni, non condanne: c’è chi riesce a sottrarvisi).
Sul piano dell’assoggettamento alla propaganda questo significa che la “manipolabilità terziaria” ha forme specifiche. Non è una manipolabilità legata all’emozione violenta, ma all’affidamento cieco e alla sospensione del buon senso (e persino della logica) in tutto ciò che non è direttamente di propria competenza. In un mondo sempre più complesso, con sempre maggiore divisione del lavoro, le specializzazioni sono sempre più settoriali e questo significa che il campo dell’“ignoranza del dotto” è sempre più vasto. Così, la manipolabilità terziaria finisce per essere persino più virulenta e potente della manipolabilità primaria. Questo perché, diversamente dalla manipolabilità dei meno istruiti, la manipolabilità dei “dotti” è disposta ad accettare qualunque infrazione del buon senso, considerato una guida inaffidabile rispetto all’autorevolezza degli “accreditati”. Sotto queste condizioni, basta che alcuni accreditati strategici siano corrotti, o che lo siano i media che li scelgono, o entrambi, e i soggetti con istruzione superiore possono divenire un gregge manipolabile nelle forme più sconcertanti, proprio perché risulta disattivato l’ancoraggio al senso comune e alla capacità autonoma di giudizio d’insieme.

3) Funzioni epistemiche delle “teorie del complotto”
Questo discorso ci porta ad una considerazione finale intorno al ruolo giocato nelle società moderne dalle cosiddette “teorie del complotto”. L’insieme eterogeneo di ciò che viene fatto cadere sotto la categoria del “complottismo” è accomunato semplicemente dal rigetto delle interpretazioni ufficiali. In questo spazio amplissimo possono comparire cose ampiamente difformi, da autentici deliri paranoici a semplici teorie scientifiche di minoranza. Non è perciò possibile parlare del valore in generale delle “teorie del complotto”; è tuttavia possibile parlare della loro funzione sociale.
Le cosiddette “teorie del complotto” tendono a fiorire quando cresce la percezione dell’inaffidabilità delle teorie accreditate. E in un mondo in cui gli interessi economici per il controllo dell’informazione sono massivi, e i mezzi per esercitare tale controllo sono manifesti, il sospetto che le teorie accreditate possano essere inaffidabili non può che dilagare. Chi non sia mai incline, neanche un po’, a dare credito a queste interpretazioni alternative è uno spirito clinicamente morto.
Le “teorie del complotto” in questo contesto hanno una tendenza generale, ed è la tendenza alla ricerca di una chiave di lettura intenzionale, e perciò razionale, di catene di eventi cruciali e altrimenti incomprensibili. Questo tipo di teorie è spesso soggetto ad un eccesso di razionalismo in quanto molti eventi anche apparentemente disconnessi possono essere ricondotti sotto l’idea di un “piano complessivo”. Il difetto di questo approccio è ben noto nella letteratura epistemologica: la connessione dei dati in una visione unitaria viene fatta sulla base di un presupposto intenzionale, come se ci fosse sempre un’intenzione nascosta dietro a correlazioni, tendenze, concomitanze. Questa forma di descrizione intenzionale è quasi sempre sbagliata in molti dettagli, e tende a sottovalutare i margini di accidentalità nella storia.
Tuttavia c’è un secondo aspetto dell’atteggiamento “complottista” che viene sempre sottovalutato, e che ha invece una funzione sociale (ed epistemologica) altamente positiva. La logica dell’interpretazione intenzionale (la “intentional stance” di Dennett) ha una peculiare potenza sintetica: riesce a comporre in una configurazione sintetica molti dati che secondo descrizioni causali ordinarie non sarebbe possibile mettere assieme. Ora, mentre è vero che le descrizioni intenzionali tendono ad eccedere nel cercar di fornire un senso comune ad eventi distinti, bisogna rimarcare che le descrizioni di carattere scientifico hanno precisamente il difetto opposto: tendono a non vedere, e non voler accreditare, nessi reali dove non si siano accumulate prove sufficienti per un tempo abbastanza lungo. La visione “scientifica” tende strutturalmente ad una forma di miopia quando si occupa di processi multifattoriali, storici, politici, insomma di tutti quei processi massimamente importanti per chi li vive, e dove la miopia e l’incapacità di interpretare sinteticamente ha un costo elevato.
Ma, si dirà, se un’interpretazione intenzionale non è scientificamente corretta, se alcune delle cose che si ritengono legate assieme da una volontà (un piano) risulteranno non essere parte del piano di nessuno, allora non è forse raccomandabile evitare ogni errore? Non è meglio astenersi da ogni valutazione per non eccedere in congetture erronee?
Ecco, la risposta qui è un secco no.
E la ragione è la seguente: le prospettive che producono una sintesi di molti fattori consentono di scoprire il vero anche quando sono parzialmente false.
Quando gettiamo uno sguardo al mondo, alla storia che abitiamo, ci troviamo di fronte a processi multifattoriali, assai complessi. Qui la scoperta delle cause effettivamente coinvolte è sempre una scoperta complicata, incerta, ardua. Spesso sono all’opera nessi causali indiretti, che emergono solo a posteriori, con analisi statistiche, magari decenni più tardi, e si può anche non raggiungere mai un accertamento che vada al di là della speculazione. Se rispetto a tutti questi nessi il nostro giudizio rimane ancorato alla sospensione del giudizio, ci condanniamo ad una miopia che ci rende impotenti.
La conoscenza, anche la conoscenza scientifica, progredisce attraverso l’utilizzo di metafore, di similitudini, di modelli analogici che vengono regolarmente superati da altre metafore, similitudini, modelli (per dire, noi oggi rigettiamo come falsa la metafora del “fluido calorico” in termodinamica, ma c’erano previsioni corrette che quella metafora consentiva e che rimangono valide tutt’oggi).
Nel “Nome della rosa” Umberto Eco mette in scena brillantemente questa dinamica epistemologica quando fa costruire al suo protagonista Guglielmo da Baskerville una teoria intorno alle ragioni della serie di omicidi che sta investigando. Questa teoria si fonda sull’idea che il perpetratore intenda mettere in scena i momenti dell’Apocalisse di Giovanni. Quando però alla fine Guglielmo si trova a tu per tu con Jorge, il reo, questi gli fa sapere di non aver affatto seguito l’andamento dell’Apocalisse. E tuttavia la capacità di sintetizzare i fatti lungo quella congettura (fattualmente sbagliata) ha consentito a Guglielmo di catturare realmente il colpevole.
Le “teorie del complotto” svolgono una funzione simile. Sarebbe naturalmente preferibile, in un mondo ideale, che tra le stesse fonti accreditate ci fosse sufficiente elasticità e pluralismo da consentire ad ipotesi non ovvie di venire alla luce ed essere discusse, senza bisogno di prendere la “via della clandestinità” propria delle “teorie del complotto”. Ma in mancanza di queste condizioni, alcune tesi tacciate di “complottismo” possono avere precisamente questa funzione: creano una rete di connessioni sulla base di una teoria di tipo intenzionale che è incerta, e che spesso verrà smentita in diversi dettagli, e che tuttavia, lanciando reti ipotetiche consente nel tempo di pescare molti più fatti e nessi reali di quanto accade rimanendo ancorati alle tesi “accreditate”.

4) Conclusioni
La scansione tra “manipolabilità primaria” e “manipolabilità terziaria”, così come quella tra congetture “complottiste” e tesi “accreditate” segue - a grandi linee - un crinale di classe; laddove la classe non è strettamente legata al reddito (per quanto importante), ma alla collocazione rispetto al potere costituito.
I ceti di sostegno al potere costituito, lavoratori della conoscenza integrati, borghesia semicolta, avidi fruitori di media col bollino e testate di regime, si supportano vicendevolmente nell’appuntarsi ai rispettivi petti medaglie di “accreditamento”. Questi soggetti s’imporporano di sdegno di fronte ai “complottisti” e alle “fake news” - certificate tali dalla propria linea di comando - e si interrogano pensosi su come tutto ciò sia possibile, signora mia.
E la risposta è semplice e pronta: è tutta colpa dell’Ignoranza.
Sono gli ignoranti, la plebe a scarsa scolarità e scarsa specializzazione che non riesce a comprendere che non si deve mai credere a quello che hai davanti agli occhi, ma sempre a quello che ti viene autorevolmente raccontato da terzi consacrati. (Curiosamente, sono spesso gli stessi che irridono gli Scolastici per aver cercato la verità sul mondo nelle biblioteche dei monasteri invece che guardare alla natura...) La facoltà di separare e astrarre e trattare per compartimenti stagni i fatti del mondo, confidando sereni nella Reuters o nell’AIFA, in Open o nella von der Leyen, li predispone ad una visione accoccolata nel bene e nel giusto, pronta peraltro a mutare orientamento nell’arco di ventiquattr’ore, purché la catena delle sorgenti di autorità sia rispettata.
In questo gioco sono al tempo stesso vittime e complici della propria manipolazione, che discende direttamente dalla solidarietà con gli interessi e indirizzi del potere. Nello stagno di conformismo benpensante in cui questi ceti nuotano l’essere manipolati è sì una forma di inganno, ma inganno solo a metà, perché se è vero che subiscono le verità del potere, è anche vero che in fondo sanno bene che è l’adesione a quel potere a garantirgli pane e companatico: e questo è sempre un criterio di verità assai robusto.