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Quel filo rosso che va dall’Ucraina all’Iran

di Francesco Sylos Labini - 29/06/2025

Quel filo rosso che va dall’Ucraina all’Iran

Fonte: Francesco Sylos Labini

Il generale statunitense Wesley Clark, già comandante della campagna di bombardamenti Nato contro la Repubblica federale di Jugoslavia durante la guerra del Kosovo e comandante supremo delle forze alleate in Europa dal 1997 al 2000, ha rivelato in una celebre intervista del 2007 un retroscena inquietante: pochi giorni dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, apprese all’interno del Pentagono dell’esistenza di un piano strategico per avviare operazioni militari contro sette Paesi nell’arco di cinque anni. I Paesi indicati erano: Iraq, Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan e Iran. Secondo Clark, già all’indomani dell’11.09 erano stati delineati interventi militari mirati a rimodellare il quadro geopolitico del Medio Oriente e di altre aree strategiche. L’Iran figura come ultimo obiettivo di questa lista: tutti gli altri Paesi hanno già subito profondi sconvolgimenti, cambi di regime e devastanti guerre civili. L’esportazione della democrazia, come oggi il pericolo nucleare iraniano, si è rivelata una tragica copertura retorica per legittimare, agli occhi dell’opinione pubblica occidentale, una strategia imperniata su interessi geopolitici ed economici che rispondono a un obiettivo ben definito: il contenimento della Cina e, più in generale, del rafforzamento economico e politico dei Paesi Brics.
Zbigniew Brzezinski, ex consigliere per la Sicurezza nazionale del presidente Carter, nel suo celebre libro La grande scacchiera, sosteneva che l’Eurasia rappresenta la chiave per il dominio globale, in virtù della sua estensione geografica, delle sue immense risorse naturali e della densità della sua popolazione. Brzezinski identificava in una possibile alleanza tra Russia e Cina l’unica vera minaccia all’egemonia globale statunitense. Per questo motivo propose una strategia articolata in cinque fasi: il controllo dell’Ucraina, la separazione dell’Europa dalla Russia, la sottomissione della Russia, la neutralizzazione dell’Iran e infine l’isolamento della Cina. Le attuali tensioni globali devono essere dunque lette all’interno di una strategia occidentale di lungo periodo, volta a preservare un ordine unipolare ormai in declino attraverso il contenimento dell’ascesa di un mondo multipolare, guidato da Cina, Russia e dai Paesi del Sud globale. Dopo essere inciampate nella terza fase – il maldestro tentativo di cambio di regime in Russia e il suo imbrigliamento in una lunga guerra regionale – le potenze occidentali hanno ora avviato la quarta: il tentativo di destabilizzazione dell’Iran.
L’Iran rappresenta un nodo strategico: ha aderito alla “Nuova via della seta” cinese, è entrato nei Brics e nell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, e ha rafforzato la propria influenza regionale. Questi sviluppi lo rendono, agli occhi occidentali, una minaccia geopolitica rilevante per l’egemonia globale occidentale. In questa prospettiva, un’instabilità cronica e protratta – come già avvenuto in altri Paesi come Libia, Siria e Libano – può risultare funzionale a contenere o disarticolare l’espansione dell’influenza globale della Cina che acquista circa il 90% del petrolio iraniano.
Questa situazione aiuta a comprendere la dichiarazione di Putin secondo cui “Russia e Iran combattono contro le stesse forze”. Quando le tensioni assumono un carattere esistenziale, il diritto internazionale diventa uno strumento manipolabile: come dimostra l’affermazione del segretario della Nato Mark Rutte che ha “ampliato” arbitrariamente il concetto di legalità dichiarando che “l’attacco degli Stati Uniti all’Iran non costituisce una violazione del diritto internazionale”.
Mentre un leader come Netanyahu ha sia un interesse personale di sopravvivenza politica sia l’obiettivo di eliminare i rivali regionali, gli strateghi anglo-americani considerano l’Iran l’ultimo grande attore mediorientale da neutralizzare. Israele, che, come dice il cancellerie tedesco, Merz “fa il lavoro sporco per noi”, con i suoi 9,7 milioni di abitanti contro i 91 dell’Iran e un Pil paragonabile a quello della Lombardia, è troppo piccolo ed economicamente vulnerabile per sostenere da solo un nuovo conflitto regionale. Un confronto diretto con Teheran, che si aggiungerebbe alle guerre già in corso in Libano, Siria, Yemen e al massacro in Palestina, sarebbe insostenibile senza una robusta copertura economica e militare da parte dell’Occidente. L’esito attuale della guerra lo dimostra: la tregua ottenuta grazie all’intervento americano appare più come un’interruzione temporanea delle ostilità che come il raggiungimento di un quadro di sicurezza condiviso.
Gli Stati Uniti dopo la débâcle in Ucraina – oggi praticamente scomparsa dall’orizzonte mediatico – devono riaffermare la propria forza militare per sostenere l’economia nazionale e il ruolo del dollaro negli scambi internazionali e come bene rifugio, un ruolo che sta visibilmente perdendo terreno. Per un Paese la cui economia si fonda sul predominio finanziario, ciò è semplicemente inaccettabile.
La vera domanda, dunque, non è fino a che punto i governi occidentali siano disposti a spingersi con politiche belliciste e fallimentari, ma se abbiano ancora la capacità di immaginare un’alternativa. Tutto lascia intendere che altre opzioni non vengano nemmeno prese in considerazione. Si tratta di una visione claustrofobica e pericolosamente autoreferenziale, espressione di una ristretta élite sempre più scollegata dalla realtà storica, sociale ed economica del mondo contemporaneo. A questo punto, la questione che resta aperta è drammatica: sarà davvero capace di condurre il mondo verso una guerra nucleare?