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Se il complesso di Cenerentola pesa ancora

di Marco Tarchi - 22/12/2017

Se il complesso di Cenerentola pesa ancora

Fonte: paradoxaforum

 

Il «complesso di Cenerentola» è una figura retorica fin troppo nota a quanti si occupano in campo scientifico di populismo, tanto da essersi trasformata, in molti di loro, in un’ossessione: a mezzo secolo di distanza dall’occasione in cui Isaiah Berlin la coniò, nel famoso simposio della London School of Economics, non c’è infatti pressoché nessun libro o saggio in argomento che non la citi e ne tragga spunto per qualche considerazione. A beneficio dei non addetti ai lavori se ne può riassumere così il significato: si ha un bell’affannarsi a cercare una definizione astratta di populismo che intenda raccoglierne le caratteristiche essenziali; sta di fatto che, qualunque essa sia, nessun fenomeno politico concreto vi corrisponderà pienamente. Ci sarà sempre qualcosa in più o qualcosa in meno del dovuto. Mai si riuscirà a trovare un piede che si adatti perfettamente alla scarpa confezionata.

Più che suonare come uno stimolo per ricerche più approfondite e raffinate, come era ovvio il monito di Berlin è servito a creare attorno al populismo un alone di inafferrabilità: si è fatto a gara a definirlo sfuggente, elusivo, camaleontico, persino inconsistente. E, come se non fosse bastato il diffuso pregiudizio negativo degli scienziati sociali nei confronti della parola e di tutti i suoi possibili significati – giustamente rilevato da Margaret Canovan nel suo seminale lavoro del 1981 (Populism, Junction) –, queste aggettivazioni hanno prodotto due significativi danni alla ricerca di politologi, storici, sociologi e filosofi sul tema. Da un lato, quello accademico, hanno consentito ad alcune voci autorevoli di mettere al bando il concetto, considerando con sospetto o fastidio chi si intestardiva a farne uso. Dall’altro, quello mediatico, hanno degradato il termine a mero epiteto polemico, incentivandone un’utilizzazione tanto bulimica e poliedrica quanto squalificante, e per ciò stesso applicabile a piacere a qualsiasi soggetto sgradito operante sulla scena politica. È per questo motivo che la lista dei personaggi, dei movimenti, dei partiti e dei regimi ai quali l’aggettivo populista è stato affibbiato è ormai diventata talmente lunga da non poter più essere contenuta in una pagina di articolo o volume.

Questa deplorevole situazione si è fatta, negli anni più recenti, imbarazzante. Perché più si nega che il populismo esista in quanto realtà provvista di vita autonoma e lo si accosta o lo si sovrappone ad una vasta serie di altri fenomeni – dalla demagogia all’estrema destra (ma anche a certe forme di radicalismo di sinistra), passando per l’antipolitica, l’autoritarismo e via ampliando il rosario delle attribuzioni – suggerendo di considerarlo semplicemente come una loro variante, più ci si imbatte, nell’osservazione delle dinamiche politiche contemporanee, in soggetti che della vituperata nozione esibiscono molti dei tratti fondamentali e, per quanto ci si sforzi di farlo, non è possibile collocare in modo soddisfacente all’interno degli schemi classificatori tradizionali. E poiché le regole basilari dell’analisi scientifica impongono, in materia di classificazione, di rispettare le regole auree dell’esclusività e dell’esaustività, non è possibile mettere fra parentesi questi scomodi guastafeste, relegandoli in un contenitore privo di etichetta.

È giunto quindi il momento di mettere in discussione la convinzione di Isaiah Berlin e di mettere alla prova la tenuta del complesso da lui denunciato.

Per farlo, occorre partire dal superamento della dicotomia che ha diviso per decenni gli studiosi, portando gli uni ad andare alla ricerca di un’univoca ideologia populista e gli altri a limitare la portata del populismo alla dimensione stilistica e comunicativa – con il contrapposto effetto di non trovare nessun esempio su un versante e di ammassarne troppi sull’altro. Le contorsioni lessicali dei ricercatori del primo tipo, tutti attaccati alla formula dell’«ideologia sottile» coniata da Michael Freeden, da taluni indicata anche come «ideologia debole» e persino come «quasi-ideologia», non hanno prodotto risultati consistenti, per il connaturato rifiuto del soggetto analizzato di darsi una qualunque veste dottrinaria e per la conseguente ovvia inesistenza di testi (e padri) fondatori in cui possa essere racchiuso il sistema di credenze ipotizzato. Ma neppure il profluvio di citazioni di cui abbondano gli scritti dei sostenitori della riduzione del populismo a stile comunicativo ha avuto un esito migliore, perché, se si segue l’affermazione di Pierre-André Taguieff secondo cui il populismo non è che la forma contemporanea della demagogia, si finisce col constatare che, oggi come ieri, di questo stile sono a tal punto impregnati il linguaggio e le strategie discorsive della quasi totalità degli attori politici da vanificare l’intenzione di fare di questo tipo di stile un dato identificante di una specifica categoria di soggetti.

Per cogliere l’essenza del populismo occorre invece seguire un’altra via, che del resto era stata ben indicata da Ghita Ionescu ed Ernest Gellner, curatori del volume che raccoglie una parte degli atti del convegno londinese (Populism: Its Meanings and National Characteristics, Weidenfeld and Nicolson 1969), quando avevano scritto, nella loro introduzione, che «Perhaps […] populism was a sort of recurring mentality appearing in different historical and geographic contexts», aggiungendo che esso può anche essere descritto «in terms of political psychology». Riprendere il termine e il concetto di mentalità, ricorrendo anche alle specificazioni che di esso ha offerto Juan Linz quando ha deciso di applicarlo ai regimi autoritari per distinguerli da quelli autoritari, è l’unica direttrice che può far uscire il dibattito scientifico dalle secche in cui lo ha arenato, volente o nolente, Isaiah Berlin con quel «complesso» che fa sentire ancora il suo opprimente peso nelle sedi accademiche.

Attingendo a un’intuizione di Theodor Geiger, Linz ha individuato nella mentalità una serie di caratteristiche che si attagliano perfettamente all’analisi dei fenomeni populisti, sottolineando come esse siano «modi di pensare e di sentire più emotivi che razionali», le cui modalità di reazione alle situazioni che si trovano di fronte «non sono codificate» e tuttavia spingono coloro che ne sono portatori ad assumere atteggiamenti analoghi e convergenti. Altre osservazioni del politologo spagnolo, che esplicitano ulteriormente i tratti essenziali di una mentalità, rendono ancora più evidente come il populismo ne costituisca una delle molteplici espressioni – e come, nel contempo, esso non possa invece configurarsi come un’ideologia. Si vedano, per esempio, a questo proposito, le affermazioni secondo cui «la mentalità è un atteggiamento intellettuale [mentre] l’ideologia è un contenuto intellettuale; la prima è una predisposizione psichica, la seconda è riflessione, autointerpretazione. […] La mentalità precede, l’ideologia segue […] La mentalità è priva di forma, fluttuante, mentre l’ideologia è saldamente formata. […] la mentalità è un concetto che riguarda lo studio del carattere sociale. L’ideologia contiene un forte elemento utopico, le mentalità sono più vicine al presente e al passato» e presentano una certa vaghezza, poiché vi «si fa riferimento a valori generici», adattandoli alle realtà del momento.

Non è facile trovare un fenomeno politico che più del populismo aderisca al concetto di mentalità così definito. E se si prende atto di questo dato, si può fare un decisivo passo avanti grazie alle risorse dell’analisi comparata, riempiendo il contenitore dei contenuti che l’osservazione empirica permette di riscontrare nei soggetti includibili nella categoria di cui ci stiamo occupando. Vi si possono infatti far convergere molti dei caratteri che gli studiosi più presenti ed ascoltati nel dibattito internazionale – Mudde, Taggart, Taguieff, Canovan, Mény e Surel ecc. – hanno, nei loro lavori, posto in evidenza. Chi scrive ha proposto, in tal senso, nel libro Italia populista (il Mulino, 2015) una formulazione che continua a ritenere convincente, che vede nel populismo «la mentalità che individua il popolo come una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili, gli attribuisce naturali qualità etiche, ne contrappone il realismo, la laboriosità e l’integrità all’ipocrisia, all’inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche, economiche, sociali e culturali e ne rivendica il primato, come fonte di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e di mediazione», precisando che, in quanto predisposizione psicologica, questa mentalità mostra gradi diversi di intensità a seconda dei casi in cui la si può riscontrare e si può manifestare in forme più o meno persistenti.

Ovviamente, della mentalità populista si possono dare altre definizioni, più ampie o più sintetiche, che ne colgano le diverse declinazioni, le quali, come suggeriva Linz, possono pragmaticamente incorporare elementi derivanti da diversi centri ideologici – il che spiega la possibilità di imbattersi in movimenti e partiti populisti ‘di destra’, ‘di sinistra’ o trasversali rispetto a questa diade – e che offrano una panoramica più ampia dei significati che ciascuno dei soggetti ascrivibile a questa famiglia attribuisce al concetto di popolo, o dei bersagli polemici che addita come nemici del popolo. In questo senso, i contributi di Hans-Georg Betz (Radical Right-Wing Populism in Western Europe. St. Martin’s Press 1994), Cas Mudde (Populist Radical Right Parties in Europe, Cambridge University Press 2007), Yves Mény e Yves Surel (Pour le people, par le people. Le populisme et les démocraties, Fayard 2001) e Paul Taggart (Populism, Open University Press 2000), assieme a numerosi altri, offrono tasselli essenziali per la ricostruzione del ‘puzzle’ indispensabile a restituire al concetto di populismo la dignità che gli spetta in qualità di strumento necessario a uno studio esauriente delle dinamiche politiche del nostro tempo.