Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Sei incinta? Ti cito per danni

Sei incinta? Ti cito per danni

di Roberto Pecchioli - 19/03/2021

Sei incinta? Ti cito per danni

Fonte: Accademia nuova Italia

Il caso della pallavolista emiliana Vera Lugli è paradigmatico della deriva della nostra società. Due anni fa è rimasta incinta e ha chiesto la rescissione del contratto che la legava alla società di Pordenone per la quale giocava. Il contenzioso è sorto in quanto la sportiva non ha ricevuto le spettanze pattuite. Adesso la società friulana, attraverso un avvocato (donna), chiede a lei i danni: la sua gravidanza ha infatti privato la squadra di una colonna, determinando un calo di rendimento. Dopo il dolore, la beffa: la Lugli infatti non poté portare a termine la gravidanza a causa di un doloroso aborto spontaneo. Adesso, i gentiluomini e le gentildonne del volley pordenonese vogliono essere risarciti: ristori per gravidanza indesiderata (da loro).

Si sono mossi il presidente del Coni e anche la presidente del Senato; la speranza è che la causa si chiuda senza approdare in tribunale, tuttavia la vicenda merita qualche riflessione. Che la funzione di madre sia sempre più disprezzata è un fatto. La gravidanza è diventata per molte donne un orrore, qualcosa da evitare a ogni costo, anche con il ricorso a pratiche come l’aborto o l’uso delle drammatiche “pillole del giorno dopo”, che hanno riportato alla luce l’aborto clandestino. La riprovazione sociale, oggi, non è più per le nascite fuori dal matrimonio, ma per chi “non ha fatto attenzione “ed è incinta, condizione assimilata alla malattia.

Non è questo il caso: Vera Lugli aspettava un figlio, punto e basta. I suoi datori di lavoro non solo le hanno negato la retribuzione, ma hanno avanzato una richiesta di risarcimento per danni, sportivi e patrimoniali. Premesso che l’iniziativa dei dirigenti pordenonesi potrebbe essere un atto difensivo nei confronti di analoghe pretese di sponsor o finanziatori, il fatto di eccezionale gravità è che nella nostra società la gravidanza possa essere considerata un danno contrattuale da risarcire.

Hanno qualcosa da dire le donne? Non parliamo delle femministe radicali, che odiano apertamente la condizione di madre, ma milioni di donne e ragazze “normali”, offese in quello che dovrebbero avere di più caro e profondo: l’immenso potere di dare la vita. Una società che non tutela la maternità e la nascita di nuovi membri non è degna di sopravvivere, infatti sta morendo in un’agonia impressionante. Il diritto civile è il settore giuridico che spiega meglio la mentalità dominante. Se un avvocato presenta una citazione per danni a causa di una gravidanza che lederebbe gli interessi di un datore di lavoro – nella fattispecie una società sportiva che si avvale delle prestazioni di un’atleta donna - lo fa perché ritiene che nel codice, nella giurisdizione e nel senso comune vi sia spazio per vincere la causa. E’ questo che sbalordisce e indigna chi non ha ancora portato il cervello all’ammasso liberal liberista.

L’interesse economico – o il semplice vantaggio sportivo in un campionato- contano più della maternità, del nascituro e dello stesso interesse che la comunità dovrebbe avere alla riproduzione di se stessa. Non è più così nell’Occidente terminale dove – è notizia di questi giorni- l’UE dichiara se stessa “zona libera LGBT”, ma in cui le associazioni di quelle variopinte minoranze mettono al bando i settori femministi contrari all’’utero in affitto-  pardon, “gestazione per altri” - l’odioso sfruttamento del corpo delle donne povere per i comodi di quelle ricche.

In questa stessa oasi di libertà e diritti, Vera Lugli è colpevole di gravidanza. Avrà firmato un contratto-capestro in termini di retribuzione, di dubbia legalità ma di evidente illegittimità morale. Non è la sola: conosciamo tutti casi di donne e ragazze non assunte, licenziate o alle quali non sono stati rinnovati contratti perché incinte o semplicemente perché sono sposate o vogliono farlo. Sono comportamenti disgustosi che il sistema vigente non solo tollera, ma incoraggia: poderoso caballero es Don Dinero, potente cavaliere è Don Denaro. Nessuna ideologia, nessun modello di società ha raggiunto forme di materialismo, di indifferenza a qualsiasi cosa diversa dall’interesse economico (immediato), simili alla nostra. Andando ben al di là dello stesso Adam Smith, la vulgata dominante afferma che l’essere umano è sulla terra per scambiare beni e servizi in un paradiso mitico e virtuale detto mercato. Questa sarebbe la ricerca della felicità, tutto il resto è accessorio.

Al mercato, a Don Dinero e all’interesse strumentale tutto va sacrificato: come si è permessa un’atleta esperta come Vera Lugli di iniziare e proseguire la sua gravidanza, forse di amare già il suo bambino che poi, sfortunatamente, ha perduto? Paghi il conto, risarcisca il danno subito dalla pallavolo pordenonese, alla quale sono mancate le sue prestazioni sportive.

E’ tutto molto normale, nell’impero di Don Dinero. Un giovane amico ci faceva notare che per gran parte delle giovani generazioni è del tutto impensabile un mondo diverso da questo: nessuno ne parla, nessuno lo propone o lo spiega. Da oggi, forse, diventerà normale assicurarsi contro gravidanze indesiderate. Sei incinta, ti sposi? Sei una perdente nel gran gioco del successo, della “realizzazione”. Chissà perché avere figli, educarli e metterli “all’onore del mondo”, come si diceva un tempo, non è una “realizzazione “per madri e padri.

Il deserto avanza: guai a chi costruisce deserti, ammoniva Zarathustra. Viviamo nell’effimero trionfo degli “ultimi uomini” che ammiccano e credono di aver inventato la felicità. La differenza – abissale- dal tempo di Nietzsche, annunciatore della morte di Dio come prologo della fine dell’uomo, è che noi siamo davvero gli ultimi uomini. Dopo di noi, il nulla. Chi verrà dopo di noi, se nascere è un danno, restare incinte una colpa per la quale risarcire non una vittima, ma il datore di lavoro? O forse è meglio dire padrone, come una volta.

La condizione di chi non è padrone di se stesso e della propria vita si chiama schiavitù. Lo schiavo avrà figli – “farà figli”, nel bieco linguaggio produttivo - solo se lo vuole il padrone, nel tempo stabilito da lui. Rassegniamoci, ma abbiamo la certezza, il sollievo, che il suo dominio durerà poco: Don Dinero è sterile, la sua è un’incultura provvisoria, presagio di morte. Un detto orientale dice: quando arrivi alla vetta, continua a salire. E’ vero anche il contrario: quando tocchi il fondo, continua a scendere.