Storia e geopolitica della Grecia moderna
di Daniele Perra - 05/10/2025
Fonte: Strategic Culture
Poco si conosce della storia e delle idee dietro la formazione del moderno Stato greco. In questo contributo (suddiviso in due parti) si cercherà di mettere in luce la particolare evoluzione politica di un Paese che, tra alterne fortune, rimane centrale per la geopolitica mediterranea.
Quando si parla di storia della Grecia contemporanea in alcun modo si può prescindere dalla lettura del fondamentale testo di Konstantinos Paparrigopoulos (1815-91) “Storia della nazione ellenica”. Qui, lo storico e nazionalista greco, utilizzando la lingua “dotta” katharevousa (in italiano “puristica”), sottolinea la continuità etnica, spirituale ed ideale del popolo greco dall’antichità classica fino al XIX secolo. E lo fa opponendosi in modo drastico alle teorie dello storico austriaco Jacob P. Fallmerayer che, al contrario, riteneva i greci moderni come degli slavi in parte albanesizzati.
Non solo, Paparrigopoulos enfatizza il fatto che alla base del processo secolare di costruzione dello Stato greco e della guerra di indipendenza vi fosse l’idea di unità e della difesa di tutte le comunità greche sparse per l’Impero ottomano (una “grande idea” rivolta ad annettere ognuna di esse ad una nuova entità politica ellenica). I pilastri di questa grecità, a suo modo di vedere, erano essenzialmente due: l’Ortodossia e la lingua. Una lingua che per secoli ha avuto un ruolo di preminenza nelle relazioni commerciali interne allo stesso Impero.
Nonostante questi tratti ideali che accomunavano le comunità greche, nel momento in cui ottiene l’indipendenza, la struttura sociale del nuovo Stato greco è ancora premoderna: quella che lo storico economico Ernest Gellner ha definito come “società segmentaria” (fondata sul familismo, sulla difesa della comunità dall’autorità centrale e, dunque, su naturali forme di clientelismo).
A lungo gli statisti greci, dopo l’indipendenza, cercheranno di smantellare tale sistema imponendo modelli di governo centralizzati in stile francese (quanto fecero Kapodistrias o Mavrocordatos). Ma tutti dovettero scontrarsi con la tradizione profondamente conservatrice di un popolo materializzatasi anche nell’ossessione anticomunista prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale. Di fatto, e paradossalmente, con la fine di questo conflitto, molti di quelli che avevano collaborato con l’occupazione del Paese da parte dell’Asse (gli italiani in Macedonia occidentale, i bulgari nella Tracia e nella Macedonia orientale) finiscono ad unirsi con la guerriglia comunista il cui obiettivo era o annettere parte del Paese alla Jugoslavia di Tito, o giungere ad una secessione del nord sotto la tutela della Bulgaria. Questo, dopo un secolo di irredentismo, portò allo sviluppo di una sorta di nazionalismo difensivo e sotto certi aspetti fondamentalista secondo cui la Grecia era uno Stato circondato da nemici e secondo cui nessuna parte del suo territorio poteva essere perduto.
Ora, per meglio comprendere questa particolare evoluzione (dal nazionalismo espansivo a quello difensivo) si rende necessario analizzare i fattori che hanno portato all’indipendenza della Grecia. Anche in questo caso, tra l’altro, è interessante osservare come l’iniziale moto spontaneo popolare viene utilizzato dalle potenze dell’epoca per cercare di raggiungere i loro obiettivi geopolitici particolari; tra i quali spiccava ovviamente l’indebolimento dell’Impero ottomano.
In primo luogo, non si può prescindere dal trattare l’argomento del cosiddetto “rinascimento ellenico” o “illuminismo greco” come sovrastruttura ideale alla base del processo di indipendenza. Questo si concentra sull’invenzione linguistica di Adamantinos Korais (1748-1833) – la già citata katharevousa – rivolta a minimizzare le variazioni del greco del periodo bizantino e ottomano per creare una forma adeguatamente modernizzata di greco antico. Tale “invenzione”, inserito nel più ampio processo noto come “questione della lingua greca”, diventerà la lingua ufficiale del nuovo Stato in sostituzione del greco popolare (dhimotiki). Tuttavia, rimarrà sempre confinato ai soli documenti ufficiali. Mentre, oggi, dopo l’adozione della lingua popolare come “ufficiale” alla fine del regime dei colonnelli, viene utilizzata solo dalla Chiesa ortodossa greca.
Ad ogni modo, a questo fervore intellettuale dei primi dell’Ottocento si unì lo sviluppo di alcune società segrete che sognavano la rinascita dell’Impero bizantino. Un’idea che, ad onor del vero, per lungo tempo fu nella mente della zarina Caterina II. Il suo “progetto greco”, infatti, dopo la conquista russa della Crimea (antica periferia bizantina), si fondava proprio sulla ricostituzione di Bisanzio sotto diretta tutela di San Pietroburgo al preciso scopo di porre sotto il controllo russo gli Stretti del Bosforo e dei Dardanelli.
La scintilla che portò allo scoppio della “guerra di indipendenza”, in realtà, fu il prodotto di una questione interna al mondo ottomano: l’apostasia e ribellione di Ali Pasha a Ioannina che portò le forze ottomane nella regione a concentrarsi sull’Epiro, lasciandone altre quasi totalmente scoperte (Morea, Tessaglia ed alcune isole ionie). È indubbiamente curioso inoltre notare come il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, indissolubilmente legato alla Sublime Porta, abbia condannato la rivolta greca. Solo dopo le stragi di preti, la Chiesa ortodossa locale si unirà al conflitto. Cosa che, dopo la sua conclusione, porterà a sua volta alla ricerca dell’autocefalia da parte della Chiesa ortodossa greca rispetto al Patriarcato.
Come già sottolineato, la base ideale di questa ribellione era caratterizzata dall’influenza del neoclassicismo e di certo romanticismo diffuso in tutta Europa. L’obiettivo dei ribelli era quello di liberare la Grecia per fare in modo che questa riottenesse la sua identità autentica. Ed a questo scopo non fu di poco conto il ruolo della diaspora greca nel resto del Vecchio Continente che non mancò di sottolineare il carattere di “guerra di civiltà” di tale rivolta, al preciso scopo di trasformare la questione greca in una “questione europea”. Bisogna riconoscere che lo stesso Impero ottomano non fece nulla per evitare tale processo. Anzi, il massacro di Chios del 1822 e l’assassinio (da parte di una folla inferocita lasciata agire indisturbata dalle autorità) a Costantinopoli del patriarca Gregorio V contribuirono in modo determinante a sensibilizzare l’opinione pubblica europea alla causa greca. E, di fatto, l’indipendenza greca sarà il risultato dell’intervento delle potenze europee (Francia, Gran Bretagna e Russia) – ognuna con i suoi specifici interessi ma tutte convinte di poter utilizzare la Grecia per controllare da vicino l’Impero ottomano – per porre fine in modo definitivo ad un conflitto che si protrarrà per dieci anni.
A ciò bisogna comunque aggiungere il fatto che l’Europa in cui irrompe la questione greca è comunque quella della Restaurazione e della Santa Alleanza. Gli stessi protagonisti della rivoluzione greca sono dei conservatori convinti. Ioannis Kapodistrias, già ministro degli esteri della Russia zarista, non nutriva grande considerazione per l’estremismo della “Società dei Fratelli”, alla base del moto indipendentista. E pure Alexandros Ypsiliantis (colui che proclamò la rivoluzione) era un principe della élite commerciale greco-ottomana (i cosiddetti “fanarioti”, dal nome del quartiere di Costantinopoli “Fanari” dove in prevalenza vivevano) che aveva ricoperto un ruolo di rilievo sempre nell’esercito dello Zar.
I britannici, a loro volta, dopo una iniziale diffidenza, solo nel 1824 garantirono un prestito al governo rivoluzionario greco. Mentre la Francia si unisce alle altre due potenze anche se impegnata a modernizzare l’esercito dell’ambizioso vice-Re d’Egitto Muhammad Ali (di origine albanese) che darà ulteriori problemi alla Sublime Porta proprio dopo la fine del conflitto in Grecia.
La battaglia di Navarino tra le flotte delle tre potenze e quella ottomana nel 1827 segna una svolta decisiva nella guerra. L’anno dopo, Kapodistrias viene invitato a divenire capo del governo greco (carica che manterrà fino al suo assassinio nel 1831). Tuttavia, si trova di fronte ad una situazione drammatica, con il Paese in mano ai signori della guerra ed a gruppi mercenari (slavi e albanesi) che si vendono senza problemi al migliore offerente.
Nonostante ciò, le negoziazioni tra le potenze e l’Impero conducono alla creazione di un nuovo Stato la cui corona viene affidata alla casa bavarese Wittelsbach. Uno Stato di 700.000 abitanti, devastato economicamente, con due milioni di greci che ne rimangono fuori.
La nuova casa regnante porta con sé un esercito tedesco, burocrati e fondi, ma nonostante il desiderio di stabilità (espressione anche del compromesso con il Patriarcato ecumenico del 1850 in base al quale le due Chiese ortodosse rimanevano dogmaticamente unite seppur politicamente separate) deve fare i conti con le milizie irregolari che agiranno tra le frontiere settentrionali almeno fino alle Guerre Balcaniche del 1912-13. Queste, ad onor del vero, erano utili su entrambi i lati: gli ottomani potevano dimostrare come la Grecia non fosse pronta a venire inserita all’interno del sistema di sicurezza europeo (i signori della regione, inoltre, potevano ottenere più fondi ed armi dalla Sublime Porta); mentre, lo Stato greco li tollerava perché, concentrandosi sull’idea di liberare i fratelli rimasti fuori dalla nuova entità statale, non si ribellavano al potere centrale (e molti di loro verranno successivamente incorporati nella polizia e nell’esercito).
Ad ogni modo, le correnti politiche interne del nuovo Stato riflettevano gli interessi delle potenze che avevano sostenuto la causa greca. I conservatori (tra cui spiccavano l’eroe di guerra dell’indipendenza Theodoros Kolokotronis ed il fratello del defunto Kapodistrias) erano vicini alla Russia – il pensatore e diplomatico russo Konstantin Leont’ev, da molti considerato come una sorta di precursore dell’eurasismo, scrisse non poche pagine in cui sottolineava come la Grecia, aprendosi all’Occidente, avesse perso la sua anima tradizionale – mentre i liberali erano più propensi a guardare verso Gran Bretagna e Francia. Tra di essi prese il sopravvento una forma di politica centrista (il cui principale protagonista fu il Ioannis Kolettis) che presentava al popolo grandiose immagini di prosperità, sviluppo e confini allargati ma che nella realtà non fece praticamente nulla di concreto in questo senso. Anche perché dovette affrontare la realtà di un Paese in grave crisi economica (paradossalmente l’Impero ottomano aveva una classe mercantile greca, mentre la Grecia ne era priva) ed incapace di portare avanti un reale programma di redistribuzione della terra. Inoltre, con il deterioramento delle relazioni tra le stesse potenze (e l’approssimarsi della Guerra di Crimea), Francia e Gran Bretagna spingono la Grecia a migliorare i rapporti con l’Impero ottomano ed a sganciarsi dall’influenza russa. Di fatto, in questo periodo, la diffusione del panslavismo in Russia è direttamente proporzionale alla diffusione della slavofobia in Grecia (anche sotto diretta spinta britannica) il cui unico interesse nazionale diviene la “sanificazione dei confini settentrionali”. Quella che fu la terra di Filippo ed Alessandro Magno veniva infatti considerata come parte essenziale per l’esistenza della Grecia, per la sua sicurezza e prosperità. Ed è assai curioso il fatto che furono proprio i greci a chiamare i bulgari slavizzati, che in parte la abitavano, come slavi macedoni, dando il là ad uno dei problemi etnico-culturali che contraddistinguerà i rapporti della Grecia con i suoi vicini addirittura fino ai primi due decenni del XXI secolo.
Nel 1862 il sovrano Otto I abdica e la sua dinastia viene sostituita da quella danese Glucksburg. Otto era infatti diventato il capro espiatorio per tutti i problemi del Paese. Senza considerare che, prima dell’intervento di Francia e Gran Bretagna contro la Russia nel Mar Nero, si era convinto di poter dare avvio ad una “seconda guerra di liberazione” contro l’Impero ottomano, salvo poi rimanere molto deluso dall’atteggiamento dei suoi “protettori”. Il nuovo sovrano Giorgio I si dimostrò subito più abile del predecessore sul piano politico. Nel 1864, la Gran Bretagna consegna alla Grecia le isole ionie acquisite durante le guerre napoleoniche. Mentre nel 1881, a seguito di un lungo negoziato, la Grecia acquisisce la Tessaglia dall’Impero ottomano, aumentando il suo territorio del 26% e la sua popolazione del 18%. Questo negoziato fu il prodotto della crisi orientale del 1878 (nuovo conflitto russo-ottomano) e della Conferenza di Berlino con la quale Francia, Gran Bretagna e Germania cercarono di mitigare la vittoria russa e gli esiti del Trattato di Santo Stefano.
Nel 1896 una rivolta anti-ottomana sull’isola di Creta (l’ennesima) costringe la Grecia ad inviare truppe ed aiuti. L’anno successivo, tuttavia, l’esercito greco subisce una pesante sconfitta in Tessaglia ad opera di truppe ottomane addestrate ed equipaggiate dalla Germania. Si tratta di un particolare contesto geopolitico in cui i rapporti tedesco-ottomani si stavano rafforzando rapidamente (si pensi all’idea dell’infrastruttura ferroviaria Berlino-Baghdad, contrastata dai britannici, ad esempio) ed in cui la Sublime Porta si stava facendo garante della causa bulgaro-macedone (spinta al Patriarcato ecumenico per il riconoscimento dell’autocefalia della Chiesa bulgara, ovviamente in contrasto con quella di Atene, e nascita dell’Organizzazione Rivoluzionaria Interna della Macedonia). A ciò si aggiungano le crescenti preoccupazioni inglesi per la costruzione di una flotta militare tedesca, considerata alla stregua di una vera e propria minaccia esistenziale all’Impero di Sua Maestà. Tutti fattori che si riflettono sulla politica interna greca dove le divisioni nel campo monarchico tra filo-tedeschi e filo-britannici entrano in contrasto con le tendenze più apertamente “occidentali” della classe politica liberale.
Così, nel 1909, arriva il colpo di Stato della Lega Militare che lamentava l’eccessiva influenza della monarchia sull’esercito e la diffusa corruzione politica. I giovani ufficiali, prodotto dell’Accademia militare di Atene, chiamano come consigliere politico l’avvocato cretese Elefterios Venizelos, che avrà un ruolo determinante nella storia della Grecia per tutto il decennio successivo ed oltre.
Questi, una volta salito al potere, spinge per un’agenda riformista e per importanti modifiche costituzionali che andranno di pari passo con l’esplosione di un nuovo conflitto nei Balcani. Un conflitto determinato in primo luogo dalla debolezza che l’Impero ottomano aveva mostrato con la guerra italo-turca del 1912 che porta Roma ad impossessarsi della Libia (sebbene solo nei primi anni ’30 l’allora Italia fascista riuscirà ad ottenere pieno possesso della colonia schiacciando la ribellione della Senussia guidata da Omar al-Mukhtar). Dunque, Serbia, Bulgaria e Grecia (inaspettatamente alleate) approfittarono della situazione anche alla luce del fatto che l’Impero stava affrontando i problemi interni legati al colpo di Stato dei cosiddetti “Giovani Turchi” ed alle successive crisi/trasformazioni istituzionali.
In questa nuova fase conflittuale, l’obiettivo principale della Grecia era quello di prendere possesso di Salonicco (città cosmopolita – abitata nel periodo da 61.500 ebrei, 50.000 cristiani ortodossi e 45.000 musulmani – e centro commerciale di primaria importanza per la regione). Ma i maggiori successi, vengono ottenuti sul mare con la flotta greca che riesce a raggiungere la piena supremazia sull’Egeo, bloccando gli aiuti alle truppe ottomane impegnate sulla terraferma e costringendo la flotta della Sublime Porta a rifugiarsi oltre gli Stretti.
Grecia, Serbia e Bulgaria, infine, definiscono sulla base di trattati bilaterali i rispettivi confini, sebbene la già citata Organizzazione Rivoluzionaria Interna della Macedonia fosse intenzionata a proseguire le attività belliche contro gli alleati.
Le guerre balcaniche del 1912-13 da molti vengono considerate come l’inevitabile preludio alla “Grande Guerra”, così come il conflitto civile spagnolo fu l’anticipazione del Secondo Conflitto Mondiale. Non è un’affermazione errata, visto il coinvolgimento più o meno diretto anche delle grandi potenze europee (si consideri l’interesse di quell’alleanza passata alla storia come la “Triplice Intesa” allo smantellamento progressivo dell’Impero ottomano, con una Gran Bretagna con obiettivi strategici crescenti soprattutto nel Vicino Oriente; oppure alle crescenti tensioni tra Serbia ed Impero austro-ungarico, con quest’ultimo afflitto da gravi problemi interni). Non solo, con le guerre balcaniche divengono anche più accese le persecuzioni dei greci dell’Asia minore; iniziano gli scambi di popolazione tra Grecia e Impero ottomano; e si pongono le basi per lo “scisma nazionale greco” (dichasmos) con l’assassinio di Giorgio I e la salita al trono del figlio Costantino (già protagonista del conflitto sul fronte macedone ed epiriota).
Proprio i primi scambi di popolazione generano alcune evidenti tensioni interne tra i nuovi arrivati ed i “nativi” (in particolare l’élite politica conservatrice del Peloponneso assai ostile all’idea di condividere il potere e le posizioni di vantaggio acquisite in quasi un secolo di indipendenza). Una tensione che si acuisce con la deflagrazione del conflitto mondiale e con le diverse posizioni assunte da Venizelos e dal sovrano. Con il primo deciso ad entrare in guerra affianco all’Intesa (l’ambasciatore britannico aveva offerto alla Grecia concessioni territoriali in Asia Minore e Cipro, mentre lo stesso Venizelos chiedeva Smirne ed i territori circostanti sempre in Asia Minore, le isole dell’Egeo, il nord dell’Epiro e la Tracia) e Costantino (germanofilo) intenzionato a mantenere una posizione neutrale.
Lo scontro, dunque, è anche il prodotto di due visioni contrastanti: i liberali di Venizelos legati ancora alla “Megali Idea” (alla “liberazione” di tutte le comunità elleniche dal giogo ottomano); ed i conservatori filo-monarchici fautori di una “Grecia territorialmente ridotta ma comunque onorabile”. Costantino e la sua cerchia, ad esempio, sostenevano l’argomento dell’inutilità dell’ingresso in un conflitto che avrebbe finito per favorire le aspirazioni espansioniste della Serbia.
Un’ulteriore spinta a quello che è stato definito come “scisma nazionale” tra monarchia e governo parlamentare venne dato dalla stessa Intesa che minacciò di cedere Salonicco e la Macedonia proprio alla Serbia, se la Grecia non fosse entrata direttamente nel conflitto. Elemento che, insieme alle continue violazioni territoriali sempre dell’Intesa, spinse Venizelos ed alcuni ufficiali dell’esercito a creare un governo alternativo nella stessa Salonicco per sostenere lo sforzo bellico accanto a Francia, Gran Bretagna e Italia sul fronte macedone (azione comunque non particolarmente apprezzata dai britannici che, nell’opera di Venizelos, vedevano un eccessivo avvicinamento all’alleato francese).
La Grecia si trova così divisa in due e separata da una zona neutrale, sebbene sempre Venizelos continuasse a richiedere all’Intesa l’autorizzazione per marciare su Atene. Il suo ritorno nella capitale, infine, viene da subito contraddistinto per la pesante repressione degli elementi filo-monarchici e per le pressioni a Costantino, costretto ad abdicare in favore del figlio Alessandro ed a abbandonare la Grecia a bordo di un incrociatore britannico.
Alla fine del conflitto, la Grecia, nonostante la grave crisi politica interna, si siede al tavolo dei vincitori nella convinzione che l’armistizio di Mudros avrebbe legittimato la sua espansione verso l’Anatolia. Sulla base dell’esito finale della Conferenza di Parigi, del Trattato di San Remo e di quello di Sevres (quest’ultimo rivolto in particolare alla salvaguardia dei gruppi etnici all’interno dell’ormai ex Impero ottomano), Smirne diviene protettorato greco per cinque anni. Al termine di questo periodo, la città e la regione ad essa circostante avrebbe dovuto scegliere il proprio destino sulla base di un referendum. E, nel momento in cui le truppe greche entrano nella città (15 maggio 1919), la regione era abitata da 620.000 greci e 950.000 turchi.
Le cose cambiano rapidamente nel 1920, dopo la sconfitta nelle elezioni parlamentari dei liberali di Venizelos ed il ritorno in Grecia di Costantino (sotto tutela britannica) dopo la morte improvvisa del figlio Alessandro. Di fatto, i britannici si erano autoconvinti di poter utilizzare la loro influenza sulla Grecia per fare della stessa il controllore degli Stretti. Al contempo, i militari greci cercarono di impressionare Londra affermando di essere capaci di poter annientare sul nascere (o quasi) la ribellione nazionalista guidata da Mustafa Kemal, la cui ambizione era quella di costruire uno Stato etnico turco all’interno dei confini anatolici, limitandone così la spartizione.
I greci, così, inviano in Turchia un contingente di 200.000 uomini con l’idea, addirittura, di porre Ankara sotto assedio (quartier generale dell’assemblea nazionale kemalista). Tuttavia, vengono rapidamente costretti alla ritirata da un esercito che utilizza sia strumenti simmetrici che asimmetrici (gruppi irregolari e guerra di guerriglia). A ciò si aggiunga che Francia e Italia, teoricamente alleati dei britannici e dei greci, cominciano a tessere relazioni con il governo turco nazionalista insieme ai bolscevichi russi. Questi, infatti, preoccupati dalla presenza inglese sugli Stretti, cominciano a fornire sostegno militare ai kemalisti, mentre il “venizelismo” e la “Megali Idea” venivano considerati da Mosca alla stregua di forme di imperialismo.
Il tentativo greco di accerchiare Istanbul per fare pressioni contro Mustafa Kemal, di fatto, indebolisce ulteriormente il fronte nell’Asia Minore che viene rotto dalle forze nazionaliste turche nell’estate del 1922. Evento cui seguirà il progressivo abbandono del sogno greco da parte dei britannici e la tremenda catastrofe di Smirne, nel corso della quale la popolazione greca della città venne letteralmente gettata in mare dalle milizie irregolari (desiderose di vendetta per il tradimento dei greci durante la Prima Guerra Mondiale) che precedettero, secondo una prassi consolidata, l’ingresso nel centro urbano dell’esercito di colui che diverrà Ataturk.
Il successivo Trattato di Losanna, di fatto, sancendo un nuovo scambio di popolazione, pone fine non solo al mito espansivo della “Megali Idea” ma anche ad una convivenza pacifica tra diverse etnie e confessioni in Asia Minore che durava da diversi secoli.
In conclusione di questa prima parte, si rende opportuno sottolineare come la storia e la geopolitica della Grecia nel suo primo secolo di vita, pur guidate da un’idea di rinascimento nazionale, siano state contraddistinte dall’influenza di volontà esterne (spesso o sempre in contrasto tra loro, anche quando si trattava di presunti alleati, Francia e Gran Bretagna) che ne hanno determinato in modo evidente i loro indirizzi. Con la fine della guerra in Asia Minore, inoltre, la Grecia si troverà sottoposta alla pressione di (nuovi) nemici esterni (l’Italia fascista) e interni (il timore esistenziale bolscevico).
Come anticipato in conclusione della Parte I, la Grecia tra i due conflitti mondiali si ritrovò schiacciata tra due nemici esterni (l’espansionismo dell’Italia fascista e la neonata Repubblica turca kemalista) ed il timore del nemico interno (la diffusione del bolscevismo anche ad opera dei “nuovi arrivati”, tra cui non pochi provenivano dai territori russi sul Mar Nero). La piccola borghesia, in particolare, era spaventata dall’allargamento territoriale comunque importante arrivato al termine delle guerre (con la sovranità su larga parte dell’Egeo e della Macedonia meridionale) e dal fatto che il dislocamento sul territorio dei profughi (prodotto degli scambi di popolazione con i Paesi confinanti, ma soprattutto con la Turchia) potesse in qualche modo fratturare la società segmentaria greca, con il suo tradizionale familismo e clientelismo, ed aprire spazi alle ideologie politiche in voga nel periodo. Lo Stato, a sua volta, si trovò ad affrontare anche il problema dei diversi regimi ecclesiastici che inevitabilmente riflettevano i diversi momenti in cui i nuovi territori sono divenuti parte dello Stato greco (alcune parti della Grecia, infatti, risultavano sottoposte al Patriarcato ecumenico di Costantinopoli e non alla Chiesa ortodossa greca con sede ad Atene).
A ciò si aggiunga la sostanziale ostilità dei rifugiati dell’Asia Minore nei confronti della monarchia, che in essa vedevano la causa delle espulsioni da quella che per millenni era stata la loro terra. Fattore che, materializzando le suddette paure della piccola e media borghesia, li spingerà verso l’estremismo politico soprattutto a seguito della Convenzione di Ankara del 1930, con la quale venne stabilito tra Grecia e Turchia che i profughi su entrambi i lati non potevano reclamare le proprietà perdute. Ed a questo proposito è importante tenere a mente che i greci dell’Asia Minore erano in buona parte benestanti.
Ad ogni modo, già per tutto il corso degli anni ’20 si intravedono i sintomi della fine progressiva della democrazia liberale in Grecia. Tra i primi effetti della catastrofe di Smirne vi fu l’abdicazione di Costantino in favore del figlio Giorgio sotto spinta dei militari. Nel 1924, invece, un plebiscito popolare che opta per la fine della monarchia apre la strada ad una prima dittatura militare, sotto la guida di Theodoros Pangalos, che durerà fino al 1926. Questa è seguita da un nuovo frangente “democratico” in cui Venizelos torna brevemente al potere. Un frangente in cui lo statista greco riuscirà comunque a preparare un trattato di amicizia con l’Italia (1928) che limiterà negli anni successivi quell’enorme problema di sicurezza per la Grecia rappresentato dalle mire fasciste alla piena egemonia mediterranea.
Nuove tensioni ed anni turbolenti portano al ritorno della monarchia nel 1935, con Giorgio II (il figlio di Costantino) sempre più filo-britannico e poco incline (per non dire ostile) nei confronti di quello che sarebbe dovuto essere il suo popolo. Le elezioni del 1936, in questo contesto, rappresentano una svolta cruciale nella storia greca, visto che i comunisti, ottenendo 15 seggi in Parlamento, divengono l’ago della bilancia per la formazione di un esecutivo tra liberali, populisti e monarchici (conservatori). Di fatto, quando l’esercito afferma che non avrebbe tollerato un ruolo di governo per i comunisti, Giorgio II tira dritto e fa della Grecia una dittatura a tutti gli effetti, affidando a Ioannis Metaxas il ruolo di Primo Ministro e sospendendo parte della Costituzione, come suggerito da quest’ultimo.
Metaxas era una figura del tutto particolare. Storicamente antidemocratico (sebbene assai ambiguo su più di una posizione: fu filo-monarchico durante il “grande scisma”, mentre salutò la Repubblica nel 1924), Metaxas fu assai critico nei confronti dell’impresa militare in Turchia conclusasi in disastro, tanto che non ne volle assumere il comando. Particolari furono le sue posizioni anche per ciò che concerne la questione dei profughi, visto che, a differenza di quanto si pensa, si dimostrò più vicino a ebrei, albanesi e musulmani nati sul suolo greco (e dunque ellenizzati) che non ai cristiano-ortodossi arrivati dopo la fine del conflitto con la Turchia. Un caso curioso, in questo senso, è indubbiamente rappresentato dai greci del Ponto che arrivarono sul territorio nazionale – alcuni storici greci li considerano anche vittime di una vera e propria forma di genocidio da parte dei turchi – non conoscendone la lingua (parlavano solo il turco e/o una forma dialettale solo in parte similare al greco). Questi, paradossalmente, dislocati nella Macedonia rurale, si scontrarono inizialmente con la popolazione slava ellenizzata locale sulla gestione delle proprietà abbandonate dai turchi. Uno scontro che avrà ripercussioni nel corso della guerra civile successiva alla Seconda Guerra Mondiale, quando proprio i greci del Ponto ebbero modo di dimostrarsi “ferventi patrioti”, contrastando i disegni secessionisti degli slavi.
In tal senso, per ciò che concerne la politica interna, a Metaxas si deve il mito della “terza civiltà greca”, dopo quella dell’Antica Grecia e quella bizantina. Il suo “regime del 4 agosto”, si poneva come obiettivo quello di costruire una società culturalmente purificata che avrebbe preso spunto dal militarismo del Regno di Macedonia e di Sparta e dall’etica cristiano-ortodossa, fondendo le due cose in una nuova sintesi.
La politica estera di Metaxas, invece, manteneva la sua ambiguità di fondo. Il punto di riferimento geopolitico rimaneva indubbiamente la cooperazione con la Gran Bretagna. Tuttavia, il suo governo dittatoriale ha ammiccato in più di un’occasione alla Germania nazionalsocialista.
Proprio la sua vicinanza alla Gran Bretagna (anche espressione dei voleri della monarchia – da non dimenticare che uno dei nipoti di Giorgio I, nato a Corfù, diverrà dapprima ufficiale della Royal Navy e poi, come Filippo di Edimburgo, marito della regina Elisabetta II) preoccupa non poco Roma che da tempo aveva ingaggiato una sfida con Londra sulla proiezione di influenza e controllo del bacino mediterraneo. A questo proposito si badi bene che uno dei più importanti politologi contemporanei, John Mearsheimer, in suo testo dall’emblematico titolo “La tragedia della grandi potenze”, ha sottolineato come la rivalità italo-britannica avesse ben poco di ideologico (insomma, non era dettata dall’avventurismo fascista). L’Italia, anche se fosse rimasta un Paese semplicemente liberal-conservatore (come in epoca giolittiana) avrebbe comunque finito per scontrarsi con Londra per l’egemonia interna al Mediterraneo ed oltre. A dimostrazione di ciò, si può riportare il trattato di amicizia tra Italia ed Imamato dello Yemen che arriva nel 1926 (a cavallo della definitiva affermazione totalitaria del regime con le “leggi fascistissime”), con il quale Roma riconosceva (in chiave antibritannica) le rivendicazione di Sana’a su Aden, occupata da Londra. Ancora, sarebbe importante ricordare dapprima i tentativi mussoliniani di attirare il progetto sionista nell’orbita fascista; poi, il sostegno garantito alla Grande Rivolta araba del 1936 in Palestina (una ribellione puramente anticoloniale).
Con la guerra d’Abissinia e lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, la situazione deteriora rapidamente, con l’Italia sempre più preoccupata che la Grecia possa trasformarsi in una base britannica a tutti gli effetti. Già nell’agosto del 1940, un nave militare greca era stata affondata da un sommergibile italiano, mentre nel 1939, l’annessione italiana dell’Albania aveva spaventato non poco il governo di Atene. Il 28 ottobre del 1940, infine, Metaxas risponde “oxi” (“no”) ad un ultimatum italiano che richiedeva apertamente il diritto di passaggio dell’esercito di Roma sul suolo greco (una data che, ancora oggi, rientra nell’elenco delle festività nazionali dello Stato ellenico). È l’inizio dell’attacco alla Grecia: un’operazione che sin dai primi giorni dimostrerà l’evidente impreparazione dell’esercito italiano alla guerra. Basti pensare che lo stesso esercito greco, da un approccio all’iniziativa bellica esclusivamente difensivo, passerà rapidamente (e non senza sorpresa) alla fase offensiva, spingendo diversi reparti alpini (che poi saranno protagonisti anche della tragedia del contingente italiano in Russia) nuovamente all’interno dei confini albanesi.
Non è privo di importanza, inoltre, sottolineare il fatto che il conflitto greco-italiano, in questo frangente, rimane ancora come un episodio isolato (quasi staccato) all’interno della più vasta conflagrazione militare continentale. Metaxas, ad esempio (che morirà di lì a poco, nel gennaio 1941, e dunque con una Grecia in netto vantaggio), non aveva alcuna intenzione di entrare in conflitto con la Germania.
L’avventura greca, di fatto, rimane uno dei tanti errori strategici di Mussolini (il più evidente è proprio l’invio di un contingente in Russia, insieme al fallimento in Nord Africa) che, forse, avrebbe potuto sfruttare le armi del “potere morbido” per attirare verso di sé un regime che aveva non poche similitudini con lo stesso fascismo (sebbene alcuni storici preferiscano includerlo nel novero dei modelli autoritario-conservatori in voga nel periodo, come quello spagnolo di Franco, o portoghese, con Salazar). Anche Hitler ne disapprovò i risultati perché consapevole che questo avrebbe potuto permettere alla Gran Bretagna di aprire un fronte balcanico nel momento in cui la Germania si accingeva ad attaccare l’Unione Sovietica. Per questo motivo, nell’Aprile del 1941, il Reich diede il via all’Operazione “Marita” per assicurare i Balcani.
Durante l’occupazione delle forze dell’Asse l’economia della Grecia cade a pezzi. L’unico obiettivo tedesco è infatti quello di sfruttare le miniere di bauxite e nichel, utili allo sforzo bellico. Tutto il resto va in frantumi, con una popolazione ridotta alla fame e sottoposta alle angherie degli occupanti (soprattutto alle smanie espansioniste della Bulgaria, alleata della Germania). Non a caso, alla fine del conflitto, la Grecia conterà 550.000 vittime (l’8% dell’intera popolazione).
L’occupazione dell’Asse, inoltre, portò ad una crescita politica esponenziale dei comunisti, veri e propri protagonisti della lotta armata. È proprio questa “crescita”, insieme al timore britannico che la Grecia potesse finire nell’orbita di Mosca, a porre le basi per la sanguinosa guerra civile una volta che i tedeschi si ritirano dai Balcani. Di fatto, se la storiografia ufficiale considera il 1946 come la data di inizio del conflitto interno alla Grecia, i suoi germi sono presenti sin dal 1944. Nel dicembre di quest’anno, infatti, a seguito del tentativo comunista di prendere pieno controllo sul governo, inizia lo scontro diretto tra questi ed un contingente britannico di 75.000 unità entrato in Grecia proprio per scongiurare tale eventualità.
Incerto rimane pure il destino della monarchia, con Giorgio II che nomina reggente l’Arcivescovo di Atene Damaskinos, con la “promessa” che sarebbe tornato solo a seguito di un nuovo plebiscito in suo favore. Proprio con la mediazione dell’Arcivescovo si giunge ad un accordo per la smobilitazione delle milizie che, tuttavia, apre le porte ad un periodo di enorme instabilità politica in cui diversi governi, succedutesi in un brevissimo arco di tempo, non riescono in alcun modo a venire a capo della situazione. Nelle elezioni del 1945 i comunisti non si presentano. Vince una coalizione di destra e l’astensione viene indicata al 9%. Tuttavia, i comunisti, con l’appoggio di Tito (mentre Mosca rimane più fredda e, forse, già in linea con i progetti di spartizione europea tra blocchi differenti), affermano che l’astensione era invece al 51%. Nel settembre del 1946, invece, si svolge finalmente il plebiscito che termina con un netto 68% in favore della monarchia (evento organizzato dal governo Tsaldaris che molto si era adoperato per la persecuzione dei comunisti nel periodo precedente). Fattore che favorisce inevitabilmente un nuovo passaggio verso la lotta armata ed il definitivo innesco del conflitto civile.
Qui, inizialmente, i comunisti ottengono delle importanti vittorie contro l’esercito nazionale che, però, in virtù di un processo di accompagnamento al declino della potenza britannica, viene riorganizzato da personale statunitense giunto in Grecia con il medesimo obiettivo dei loro predecessori (sebbene riaffermato dalla Dottrina Truman): garantire all’“Occidente” pieno controllo sull’Europa meridionale; evitare la creazione di un cuneo rosso nei Balcani tra Turchia e Italia; garantire due sponde “amiche” all’ingresso dei mari Adriatico ed Egeo. Secondo Truman, infatti, Grecia e Turchia in alcun modo avrebbero dovuto scivolare nel campo socialista.
L’iniziale slancio comunista, inoltre, deve fare i conti con una popolazione che in buona parte diventa neutrale se non apertamente ostile. Se la guerriglia comunista, durante l’occupazione dell’Asse, aveva mostrato un fiero carattere patriottico; altrettanto non si può dire per le milizie che prendono parte al conflitto civile (senza considerare che gruppi comunisti si erano in precedenza macchiati della profanazione di alcuni monasteri del Monte Athos: centro sacro per eccellenza del mondo ortodosso). E le idee secessioniste di molti esponenti slavi (la creazione di uno Stato macedone con capitale Salonicco, l’unificazione alla Bulgaria o alla Jugoslavia) comportano non poche defezioni sul fronte rosso. Ed è sempre in questo contesto che, come già anticipato, i profughi dell’Asia Minore e del Ponto prendono una chiara posizione anticomunista, spaventati dall’idea di una nuova migrazione.
A partire dal 1949, l’esercito, dopo la “pulizia” del Peloponneso, si concentra sul nord, dove vince le battaglie sul monte Vitsi ed a Grammos, e spinge la guerriglia fuori dai confini greci, verso l’Albania e la Bulgaria.
La guerra civile finisce ufficialmente proprio in quest’anno, sebbene bande di guerriglieri continueranno ad agire e penetrare in territorio greco per tutto il 1950. Le cicatrici e le divisioni interne alla società greca invece rimarranno per decenni (da non sottovalutare il ruolo di vecchie faide famigliari che fecero da cornice al conflitto conferendogli un’ulteriore aura di estrema violenza e spirito di vendetta), senza considerare le ondate migratorie verso Nord America, Australia e Germania.
Il primo ed inevitabile risultato della guerra fu la profonda ingerenza degli Stati Uniti nella politica interna della Grecia. Non a caso, Alexandros Papagos, comandante delle forze armate durante il conflitto civile, diverrà il principale protagonista della politica greca negli anni a seguire. È stato lui, infatti, a portare la Grecia nella NATO e ad inviare a questo scopo truppe greche in Corea (cosa che fece anche la Turchia). I fondi del Piano Marshall, al contempo, divengono fondamentali per la salvezza economica del Paese (soprattutto per la ricostruzione della sua flotta mercantile) che nei primi anni ’50 dovrà affrontare una nuova serie di tensioni con la Turchia per la questione di Cipro.
Questo tema merita un breve approfondimento, visto che si ricollega al più articolato processo di decolonizzazione ed al già citato sforzo di accompagnamento al declino della potenza britannica di cui si sono resi protagonisti Stati Uniti ed Unione Sovietica dopo la Seconda Guerra Mondiale (il caso del loro intervento a Suez nel 1956, a seguito dell’aggressione congiunta franco-israelo-britannica all’Egitto, ne è l’esempio più evidente). Di fatto, l’isola di Cipro venne affidata dal Sultano ottomano alla Gran Bretagna nel 1878. Questa era infatti fondamentale sia per il controllo del canale di Suez, di recente costruzione e del quale Londra si stava appropriando per ridurre i tempi di navigazione verso l’India; sia come base per eventuali operazioni nel Vicino Oriente.
Nel 1925, invece, l’isola diviene una colonia britannica a tutti gli effetti. All’inizio della lotta anticoloniale dell’EOKA (Organizzazione Nazionale dei Combattenti Ciprioti) – che aveva tra i suoi obiettivi di lungo periodo l’unificazione (enosis) con la Grecia – la componente turca della popolazione era sostanzialmente neutrale. Sono proprio i britannici a radicalizzarne le posizioni in chiave anti-ellenica ed a portare la Turchia all’interno della contesa. E sono sempre i britannici e sostenere per primi la tesi della partizione.
Un attentato dinamitardo contro la casa natale di Mustafa Kemal a Salonicco (divenuta nel tempo sede consolare turca) nel 1954 scatena dei violenti moti contro la popolazione greca che ancora viveva ad Istanbul, già provata dalla pesante legge patrimoniale degli anni ’40 volta ad eliminare la restante classe commerciale non turca dal Paese. Le tensioni si fanno ancora più accese con la pesante repressione britannica di un movimento anticoloniale che stava facendo rivivere il mito della “Megali Idea” e dell’irredentismo greco. Cipro, così, diviene un serio problema nei rapporti tra la Grecia ed i suoi alleati. Un problema che spinge gli stessi governanti greci a fare pressioni sulla guida del movimento anticoloniale, l’Arcivescovo Makarios III (già costretto all’esilio nel 1957), per accettare l’idea di un’indipendenza separata da Atene che arriverà nel 1960 sulla base di due trattati separati (quelli di Zurigo e di Londra) che prevedevano comunque una presenza militare britannica nell’isola in due basi distinte.
Più o meno nel medesimo periodo, nel 1958, nasce in Grecia l’Unione Nazionale dei Giovani Ufficiali: organizzazione clandestina legata agli apparati di intelligence della NATO (fotocopia di altre organizzazioni simili nate nello stesso periodo nei Paesi membri dell’Alleanza) tra le cui fila spicca Georgios Papadopoulos (figura di rilievo della futura giunta militare dei colonnelli).
Il colpo di Stato militare arriva nel 1967 dopo un periodo di grave instabilità politica, anche indotta dagli stessi apparati NATO che, per tutto il periodo precedente, avevano insistito sul rischio di un ritorno della minaccia comunista. L’obiettivo primario che si pone la giunta è quello del “ringiovanimento della Nazione ellenica”: ovvero, superare i decadenti costumi occidentali per riscoprire le fondamenta della civiltà greco-ortodossa. Allo stesso tempo, a loro modo di vedere, era necessario riportare l’ordine e risolvere i problemi insiti nello sviluppo. In altre parole, i militari si proponevano come “agenti della modernizzazione che guardavano, però, all’indietro”. In questo senso, si rendeva necessario ripensare le relazioni tra Stato e Chiesa e tra vertici politici e monarchia. I militari, infatti, oltre a reprimere qualsiasi forma di dissenso (soprattutto quello orientato verso “sinistra”), costringono il re Costantino II (figlio di Paolo I e nipote di Giorgio II) all’esilio e purgano gli ufficiali monarchici dall’esercito. Un successivo tentativo di ammutinamento delle forze navali (leali al monarca), inoltre, funge da pretesto per un nuovo referendum (tenuto sotto legge marziale) con il quale viene cancellata l’istituzione monarchica.
Per il 1969, il ministero della difesa consumava già il 49,8% della totale spesa governativa. Una situazione che, insieme ad una modificata congiuntura internazionale, diventerà rapidamente insostenibile, tanto che gli stessi militari si vedranno costretti ad effettuare un “golpe nel golpe” (nel 1973), in modo da limitare il crescente potere del già citato Papadopoulos, accusato di aver abbandonato gli ideali a fondamento della “rivoluzione”.
La fine del regime si lega in modo intrinseco alle vicende cipriote e, più in generale, alla crisi energetica generata dall’embargo petrolifero seguito alla guerra arabo-israeliana dell’ottobre 1973. A questo proposito è bene ricordare che l’attentato contro Makarios (Presidente di Cipro dal 1960, definito dai colonnelli greci come il “Castro del Mediterraneo”) ed il colpo di Stato organizzato dalla giunta militare nell’isola non aveva in alcun modo come scopo quello di preparare l’enosis. I nemici non erano i turchi ma i comunisti e la loro crescente presenza nella politica isolana. L’obiettivo dei colonnelli, dunque, era quello della partizione sulla base del Piano Acheson del 1964 che, già di suo, garantiva una ridotta porzione di territorio alla popolazione turca.
A sua volta, l’intervento turco non era dettato dalla volontà di proteggere la componente musulmana della popolazione dal colpo di Stato. Questa, infatti, non era stata toccata da un evento interno alla parte greca (lealisti contro golpisti). Ankara invocava il rispetto dell’articolo IV del Trattato di garanzia che prevedeva l’intervento militare (sebbene non unilaterale ma congiunto degli Stati garanti dell’indipendenza dell’isola: Regno Unito, Grecia e Turchia) per ripristinare l’ordine costituzionale. Ciò che arriva dopo è solo l’esito del fallimento del regime militare greco che si trova di fronte a due alternative: dichiarare guerra alla Turchia o cedere il potere.
Un fallimento che si ripercuote sulla storia successiva dell’isola, con la conseguente colonizzazione turca, la creazione della Repubblica Turca di Cipro Nord nel 1983 sul 36% del territorio isolano (riconosciuta solo da Ankara), la presenza tuttora di 35.000 soldati turchi in questo spazio e le relative controversie (acque territoriali, sfruttamento delle risorse) che ne sono derivate.
Questo fallimento segna la fine del regime militare e l’inizio di una nuova fase democratica in cui la politica greca è contraddistinta da un sistema bipolare in cui si affrontano i partiti Nuova Democrazia (guidato da Kostas Karamanlis) ed il Movimento Socialista Panellenico (PASOK) di Andreas Papandreu.
Dopo un nuovo referendum istituzionale (il sesto nel XX secolo) che rende definitiva l’opzione repubblicana, il governo di Karamanlis punta dritto verso l’Europa e la partecipazione della Grecia al disegno di unificazione continentale, definito alla stregua della “Megali Idea del nuovo millennio”. Una scelta che si scontra con le posizioni del PASOK e dei Partito Comunista (KKE), tornato legale, i quali sostengono che tale processo avrebbe portato (come effettivamente avvenuto) ad una perdita di sovranità ed alla trasformazione della Grecia in periferia del sistema capitalista globale. Delle posizioni che, soprattutto per ciò che concerne il PASOK, si affievoliranno non poco sulla base di precisi interessi e giochi di potere nel corso del tempo.
Papandreu, infatti, si presenta come un politico estremamente pragmatico. Sebbene sia stato spesso definito come “populista”, bisogna riconoscere che il suo “populismo” era da intendere nel senso americano del termine. Era il populismo di Andrew Jackson o di Thomas Jefferson, intrinsecamente connesso alla profonda ammirazione che lo stesso Papandreu (educato negli Stati Uniti) nutriva per la Rivoluzione americana. Di fatto, il PASOK mai è stato socialista in senso marxista. Questo abbraccia da subito la social-democrazia per poi divenire liberal-riformista negli anni ’90 e primi ‘2000. Inoltre, nonostante i tentativi di multilateralismo geopolitico della sua guida una volta giunto al potere, la direzione del Partito da anti-europeista e ostile alla NATO si trasforma rapidamente in pro-Europa e filo-atlantista (un percorso, ad onor del vero, del tutto simile a quello di altri Partiti europei del medesimo orientamento politico).
Con i primi anni ’90 ed il ritorno al potere di Nuova Democrazia migliorano i rapporti con gli Stati Uniti. Creta diviene centrale come base di lancio per le operazioni nordamericane nel Vicino e Medio Oriente. E gli stessi USA mediano un accordo tra Grecia e Turchia con il quale i due contraenti rifiutano l’utilizzo della forza per risolvere le controversie e desistono dal prendere iniziative che possano minare i rispettivi interessi (accordo che ancora una volta non verrà rispettato da entrambe le parti, si pensi alle tensioni scatenate dal caso Ocalan – figura di spicco del PKK curdo transitato per la Grecia prima di venire arrestato in Kenya – oppure alla dottrina geopolitica turca della “Patria Blu” che, in linea teorica, mina la sovranità greca sullo spazio egeo, o ancora al persistente problema di Cipro).
Nonostante ciò, con il crollo del blocco socialista, paradossalmente, la Grecia (alla pari dell’Italia dopotutto) subisce un vero e proprio declassamento geopolitico in quanto non risulta più confinante con il “nemico”, anche se Jugoslavia ed Albania non erano in buoni rapporti con Mosca e solo la Bulgaria rappresentava la vera frontiera con il campo filo-sovietico. A ciò si aggiungano il processo di dissoluzione della Jugoslavia, che arriva a rappresentare una vera e propria minaccia alla sicurezza e stabilità greca con le aspirazioni irredentiste della nuova Repubblica di Macedonia (la diatriba sul suo eventuale ingresso nell’UE e nella NATO durerà per quasi trent’anni fino all’accordo sull’assunzione del nome “Nord Macedonia” e la cancellazione delle rivendicazioni territoriali dal suo testo costituzionale), ed il crollo dell’Albania comunista che spinge in Grecia mezzo milione di immigrati. La Grecia, inoltre, nel contesto delle guerre nell’ex Jugoslavia assume una posizione decisamente più incline verso la Serbia, al contrario di quanto fatto dal resto dell’Alleanza Atlantica.
Più o meno nello stesso periodo, il nuovo governo del PASOK guidato da Kostas Simitis porta la Grecia nell’euro. Nel 1998, infatti, la Drachma entra nell’European Exchange Rate Mechanism. Una scelta che si rivelerà tragica, soprattutto alla luce del fatto che la classe politica greca si era autoconvinta del fatto che, una volta portato il Paese nella zona euro, questo avrebbe potuto rilassarsi e tornare alle vecchie abitudini. Al contrario, questo non fece che accentuare i gravi problemi strutturali della Grecia ed aprire le porte ad una crisi senza precedenti (in cui non è da dimenticare il ruolo delle agenzie di rating USA desiderose di colpire l’euro per salvaguardare il primato del dollaro come valuta di riferimento delle transazioni internazionali) che ha distrutto il già compromesso tessuto economico, sociale e politico del Paese (privatizzazioni selvagge, svendita del patrimonio nazionale e delle risorse strategiche come infrastrutture portuali, aeroportuali e stradali, tagli a salari e pensioni).
La storia greca è ricca di eventi avversi e periodi di gravi difficoltà. Tuttavia, con questa crisi, per la prima volta nella sua storia, il popolo e lo Stato sembrano aver perso la loro direzione, il loro senso della storia e nella storia. Un qualcosa che difficilmente verrà recuperato, sebbene negli ultimi anni la Grecia stia cercando di recuperare un ruolo geopolitico sfruttando la sua posizione di crocevia tra tre continenti. Un qualcosa che ha attirato l’interesse sia della Cina, con il suo progetto di interconnessione eurasiatica della Nuova Via della Seta; sia di USA ed Israele che, oltre a vedere nella Grecia un terreno di passaggio per le vie del gas (dal Mediterraneo Orientale verso l’Europa), alla pari proprio della Cina, vorrebbero sfruttare i porti greci come terminali della cosiddetta “Via del Cotone” che dovrebbe unire l’Europa all’India, attraverso Penisola Arabica e Israele (anche in Grecia, a dei vertici politici compiacenti nei confronti delle politiche israeliane, nonostante i rapporti altalenanti tra Tel Aviv ed il Patriarcato ortodosso di Gerusalemme, si oppone una massa popolare sostanzialmente ostile e critica rispetto al fenomeno sionista). Bisogna altresì mettere in evidenza come Israele punti ad accentuare le frizioni greco-turche a Cipro al preciso scopo di trarre benefici da un divide et impera che porti l’isola (o almeno parte di essa) sotto la sua sfera di influenza (rilevanti, in questo senso, le enclavi sioniste già presenti soprattutto nella Repubblica di Cipro, gli appalti sulla sicurezza degli aeroporti ceduti a gruppi israeliani e le concessioni fatte all’IDF per l’utilizzo delle basi britanniche sull’isola).
In questi giochi di potere geopolitico, la Grecia dovrebbe essere abile nello sfruttare la propria posizione ed ottenere il massimo vantaggio applicando una politica multilaterale (senza ulteriori cessioni di sovranità) e migliorando la capacità di connessione dei propri porti alla massa continentale europea. Allo stesso tempo, con Spagna e Italia, dovrebbe favorire la costruzione di solidi legami tra Europa e Nord Africa, superando interessi particolari, reciproche diffidenze, e combattendo i fenomeni destabilizzanti della regione.