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Sull’ecologia (I parte)

di Alain de Benoist - 15/04/2021

Sull’ecologia (I parte)

Fonte: GRECE Italia

Era il 1859 quando il naturalista tedesco Ernst Haeckel inventò il termine «ecologia» per designare la scienza delle relazioni tra gli organismi viventi e il loro universo «domestico» (in greco oikos), che potremmo definire anche come il loro ambiente naturale. L’espressione «ecologia umana» arriverà nel 1910. La nozione di «ecosistema» è stata creata nel 1935 dall’inglese Tansley. Nel 1953, nel loro Fondamenti di Ecologia, i fratelli Odum daranno agli ecosistemi il rango di organismi viventi, aprendo così nuove prospettive per la scienza.
L’ecologia diviene una tema di preoccupazione sociologica e politica solo molto più tardi rispetto alla sua nascita; infatti trova espressione in questi termini nel 1926 ad opera del biologo Vernadsky. Nei Paesi anglosassoni, uno dei suoi pionieri George Stapleton, scrive il suo libro Ecologia Umana, tra il 1946 e il 1948, ma il suo lavoro riscosse così poco interesse che resterà nel cassetto fino al 1960, quindi fino alla morte dell’autore(1). Si è dovuto attendere gli anni 60 del ‘900 per vedere l’ecologismo conoscere il suo primo sviluppo grazie ai libri di Gunther Schwab in Germania, di Barry Commoner, Barbara Ward, Evelyn G. Hutchinson e Rachel Carson negli Stati Uniti(2). Nel 1971 in Francia viene istituito il Ministero per l’Ambiente e l’anno seguente il celebre rapporto del Club di Roma sui «limiti alla crescita» e sull’esaurimento delle risorse energetiche scatenerà polemiche memorabili. Negli anni 70 del ‘900, con la crisi petrolifera che sembrava suonare a moto le campane per la crescita infinita e la piena occupazione, la «tutela dell’ambiente» (ingl. protection of environment, NdT) (3) diventa inesorabilmente l’ordine del giorno della discussione pubblica, e contemporaneamente si assiste alla nascita nei Paesi Occidentali di partiti “verdi”, di comitati di cittadini e di «nuovi movimenti sociali» (4).
L’aumento della preoccupazione ecologista è ovviamente proporzionale alla constatazione dei danni inflitti all’ambiente naturale causati dall’attività tecno-industriale. Per decenni, se non secoli, l’attività economica si è svolta nell’ignoranza delle leggi fisiche fondamentali che stabiliscono come l’ambiente e l’economia non possono considerarsi come entità totalmente separate. Aver lasciato che i mercati funzionassero senza controllo ha permesso a coloro che prendevano le decisioni di massimizzare i propri profitti senza prendere in considerazione le «esternalizzazioni» derivanti dalle loro azioni. La logica del profitto ha spinto alla ricerca di profitti a breve termine, «spostando all’esterno» i costi necessari alla riproduzione o alla ricostituzione delle condizioni non mercantili, cioè in ultima analisi scaricando sull’aspetto sociale (come la celebre formula «effetto NIMBY»: «not in my backyard» («non nel mio giardino», NdT). Questa propensione al saccheggio o all’esaurimento incondizionato delle risorse naturali ha coinvolto anche i cosiddetti Paesi a «socialismo reale», come dimostra la situazione disastrosa in cui ancora oggi, molto spesso, si trova l’ambiente naturale nelle nazioni dell’Europa Orientale. Di fronte a questa situazione, la discussione generale, tanto nell’opinione pubblica quanto nelle istituzioni ufficiali, un po’ alla volta si è spostata sull’interrogarsi su un eventuale esaurimento degli stock di risorse naturali, nonché sui costi di una crescita illimitata e sull’impatto che un certo numero di misure pubbliche e private possano avere sul ritmo di questa crescita. Si sono quindi formate due visioni ben distinte: una di orientamento riformista, che continua a veicolare una concezione strumentale o utilitarista della Natura, come per esempio sostenuta da William F. Baxter e John A. Livingston (5); l’altra, quella dell’ecologismo in senso proprio, che si esprime a favore della crisi attuale al fine di modificare in modo radicale i rapporti tra uomo e Natura. La prima di queste concezioni è quella che l’ecologista norvegese Arne Naess ha definito «ecologia superficiale» (shallow ecology), di contro a quella chiamata «ecologia profonda» (deep ecology) (6). L’ecologia superficiale rappresenta meramente una semplice gestione dell’ambiente mirante a conciliare la preoccupazione ecologica e la produttività senza mettere in discussione i fondamenti stessi del sistema di produzione e di consumi dominante. In sostanza, si iscrive nella prospettiva «antropocentrica» di tipo classico, cioè quella che si basa sull’idea che la Natura non meriti di essere protetta se non nella misura in cui la Terra rappresenti il quadro in cui si svolge la vita della specie umana, quindi un suo deterioramento eccessivo dell’ambiente naturale andrebbe contro i meri interessi degli esseri umani. Questa posizione è stata espressa brutalmente da Haroun Tazieff: «A mio avviso, la Terra deve servire l’umanità. Se l’umanità dovesse sparire, la sorte della Terra non avrebbe più alcuna importanza per le persone» (7). Nel migliore dei casi, questa posizione, senza dubbio oggi la predominante, si concentra unicamente sulle «responsabilità dell’uomo» nei riguardi di una Natura soprattutto concepita come un capitale che non si possa dissipare sconsideratamente (8).
Questo approccio riformista, che oppone nettamente l’ecologia (come scienza) all’ecologismo (come indirizzo politico), è stato portato all’estremo da alcuni autori liberali e ultra-liberali, riferibili a economisti come Tietenberg e Solow.
Per i liberali, che si rimettono a un mercato senza regole, gli ecologisti sono semplicemente dei seguaci del dirigismo economico, vengono classificati come neo-malthusiani, partigiani di un’economia «stazionaria», regressiva, fondata sulla valutazione unicamente dei “volumi” (limitato) a discapito del concetto di valore (illimitato). Questa critica liberale all’ecologismo prende di solito le mosse da un elogio incondizionato della proprietà privata. L’idea di base è che solamente i beni appartenenti a un privato (o a un’associazione di persone private) possono essere preservati e ben gestiti, perché è nell’interesse dei loro proprietari che se ne occupano direttamente. Al contrario, i «beni pubblici», che non appartengono a persone, saranno inevitabilmente i più trascurati e i più inquinati. Tale inquinamento deriva dal fatto che le risorse naturali non sono considerate come beni di mercato stimabili, ma come se avessero un valore nullo o quasi zero. Se ne può dedurre che le autorità pubbliche, disinteressate sul lungo termine, sono i «più grandi inquinatori del pianeta» (Gérard Bramoullé) e che la «ecologia di mercato» deve avere come principio primo quello di generalizzare la proprietà provata fornita di tutte le virtù. In breve, si tratta di trasformare il più possibile la res communes (qualcosa che non appartiene ad alcuno di specifico, ma il cui uso è comune a tutti) in res nullius (qualcosa che non appartiene ad alcuno di specifico, ma che di cui ci si può appropriare), e poi in res propriæ (di proprietà di qualcuno). Parallelamente, si dovrebbe generalizzare il principio «chi inquina, paga»: cioè, chi inquina dovrebbe essere tenuto a pagare un prezzo per rimborsare le vittime delle sue azioni (9).
Murray Rothbard ha infatti scitto: «Se, per esempio, un’azienda è proprietaria di una risorsa naturale, come potrebbe essere una foresta, chi la gestisce sa che un’azione quale abbattere un albero per venderlo porterà un profitto nel breve termine ma contemporaneamente porterà a una riduzione del valore capitale dell’intera foresta. Un imprenditore privato deve sempre soppesare i guadagni nel breve con le perdite sul capitale, di conseguenza, è portato a guardare avanti: piantare nuovi alberi per sostituire quelli abbattuti, aumentare la produttività, conservare le risorse, ecc» (10). Gérard Bramoullé, seguendo la stessa impostazione, spiega la scomparsa di spazi selvaggi col fatto che non sono di proprietà di alcuno. Mette la questione in questi termini: « Perché mai un petroliere dovrebbe preoccuparsi di degassare uno spazio che non appartiene ad alcuno?». Dal canto suo, Alain Laurent afferma che «il proprietario si prende cura della sua proprietà, la valorizza e la fa fruttare perché si vuole assicurare di conservarla bene e trasmetterla ai suoi eredi e perché vuole metterla nelle condizioni che sia più redditizio per lui utilizzarla nel medio-lungo periodo, piuttosto che esaurirla o deteriorarla eccessivamente» (11).
Tali argomenti si confutano da soli, infatti, quello che Rothbard, Bramoullé o Laurent si sono limitati a spiegare è che può essere nell’ interesse di un proprietario preservare una risorsa naturale che costituisce una fonte di reddito per lui. Ma questo è ovvio. Ma cosa succederebbe se la vendita di questa risorsa, vendita che implicherebbe il saccheggio o la distruzione di tale risorsa, rappresentasse un interesse ancora maggiore? Murray Rothbard prende come esempio una foresta. Quale sarà l’atteggiamento del proprietario di quella foresta se dovesse ricevere un’offerta di valore superiore a quello che potrebbe ottenere utilizzandola allo scopo di cementificarla e riempirla di cartelloni pubblicitari piuttosto che trasformarla in una discarica di rifiuti da affittare al migliore offerente? È del tutto evidente che tale proprietario non avrebbe nemmeno un minimo di dubbio poiché la sua motivazione principale è quella di ottenere i maggiori vantaggi materiali. Siamo evidentemente nel campo assiomatico dell’interesse e della logica del «profitto maggiore». Il rispetto per la Natura può essere preso in considerazione solo come una conseguenza indiretta e contingente del desiderio di massimizzare gli utili individuali, cosa che ovviamente nulla ha a che fare con l’ecologia (12). Quanto al principio «chi inquina, paga», con i suoi corollari di internalizzazione di costi esterni e della «verità ecologica del prezzo», va detto che le sue prime applicazioni che si sono registrate, in particolar modo negli Stati Uniti a partire dagli anni 60 del ‘900, non si sono dimostrate risolutive. Questo principio si è di fatto tradotto nella creazione di un «mercato dell’inquinamento», che consente alle aziende con più mezzi – cioè le più ricche – di acquisire il «diritto a inquinare» alle condizioni più vantaggiose possibili. Inquinatori e inquinati si mettono d’accordo sulla cifra per un giusto risarcimento per i danni causati dagli uni e subiti dagli altri. Queste contrattazioni ovviamente non diminuiscono l’inquinamento, considerato in questo caso come «esternalità negative», perché si trovano sempre vittime potenziali rese consenziente dalle cifre delle indennità promesse: il California Waste Management Board, l’ente californiano incaricato della gestione dei rifiuti ha pagato qualche anno fa la cifra di 1 milione di dollari alla Cereel Associates, una società di consulenze di Los Angeles, per determinare la popolazione del pianeta che, a fronte di un rimborso dei danni finanziaria, sarebbe quella che «si opporrebbe meno a un utilizzo indesiderabile della terra», formula «politicamente corrette» per designare lo scarico dei rifiuti tossici (13).
L’emissione dei «diritti a inquinare» non può essere quotata che a un prezzo fittizio, loro stessi basati su supposizione, perché è impossibile prevedere in anticipo i costi totali di un’azione inquinante futura. Un tale mercato non può che riguardare gli effetti immediati, una tantum, di una certa attività inquinante, senza prendere in considerazione gli effetti che si rivelano solo a lungo termine e dei quali gli stessi inquinati non si rendono conto (l’acqua inquinata dai nitrati, ad esempio, è limpida come quella pure) non tanto del costo, per definizione non calcolabile finanziariamente, ma delle funzioni che si perderanno nell’ambiente inquinato. I «permessi a inquinare», infine, sono totalmente inadatti per quello che concerne i principali rischi tecnologici o i danni irreversibili all’ambiente.
In fin dei conti, il «mercato dell’inquinamento» spinge quindi le aziende, non a ridurre la somma delle loro emissioni nocive, ma a internalizzare i costi derivanti dalle loro azioni potenzialmente inquinanti, per esempio trasferendoli sui prezzi finali. Questa è la ragione per cui il principio «chi inquina, paga», adottato nella dichiarazione finale del “Summit della Terra” organizzato a Rio de Janeiro nel 1992, tende oggi a cedere il passo alle organizzazioni dei sistemi per il riciclaggio o di stoccaggio, e, soprattutto, alle “ecotasse”, cioè a imposte dirette prelevate alla fonte delle attività inquinanti.
Altri economisti riformisti, come Pearce, Bishop o Turner, coscienti della miopia di mercato di fronte alla complessità dei problemi della biosfera e dei danni provocati all’ambiente naturale dalla ricerca sistematica del profitto a tutti i costi, puntano a interventi pubblici di tipo nuovo. La loro impostazione si iscrive quindi in una «economia dell’ambiente», a cui generalmente di associano le nozioni di «sviluppo ecologico» o di «sviluppo sostenibili» (14).
Questa economia dell’ambiente è decollata principalmente sulla base di analisi in termini di costi e benefici le quali, seguendo la maggior parte degli studi disponibili, mostrano che i sosti per le misure di protezione della natura sono sempre inferiori ai danni subiti qualora queste non fossero adottate. A differenza dell’idea produttivista classica, questa teoria si basa sull’idea che l’attività economica debba sviluppare benefici a favore delle generazioni presenti senza però compromettere la capacità di quelle future di fare fronte ai propri bisogni. Il metodo adottato è quello della “regola della compensazione” enunciato nel 1977 da Harwick: l’obiettivo è garantire l’equità tra le generazioni attuali e future in modo che i guadagni aumentano man mano che le risorse deperiscono – data dalla differenza del costo marginale di queste risorse e il loro prezzo di mercato – e vengono reinvestiti per produrre un capitale di sostituzione del «capitale naturale» che viene distrutto. Quindi, lo sviluppo è tanto più «sostenibile» quanto la «sostenibilità» del capitale riproducibile delle risorse naturali consumate sarà forte. Ma, come abbiamo visto, il patrimonio naturale e il capitale finanziario non sono sostituibili tra loro. Considerare il primo come un «capitale» non è altro che un artificio linguistico, perché il valore delle risorse naturali è incalcolabile in termini economici: si tratta di una condizione per la sopravvivenza umana, il «prezzo», quindi, è infinito. Si tratta quindi di un adeguamento riformista della visione umanista sulla modernità,di cui troviamo illustrazioni nelle risoluzioni delle grandi conferenze internazioni, come nei discorsi degli esperti e degli esponenti dei partiti politici tradizionali, nei quali di volta in volta l’obiettivo è quello di ridurre l’inquinamento, di fermare l’esaurimento delle risorse naturali o dell’erosione del suolo, cercando di determinare le scelte energetiche dell’avvenire e di modificare certe forme dell’habitat urbano.
Per ottenere questo obiettivo, le istituzioni internazioni propongono standard e divieti ai quali si aggiungono le diverse iniziative dei singoli Stati e dei loro governi. Alcuni testi costituzionali menzionano esplicitamente i «doveri verso l’ambiente» (il Umweltschutzgebot della Costituzione bavarese); mentre alcuni Paesi, come la Germania, hanno già attivato iniziative che agiscono sul quotidiano: stampa su carta riciclata, introduzione della marmitta catalitica e del combustibile senza piombo, una legge federale che permette ai consumatori di riportare gli imballi ai venditori, raccolta differenziata dei rifiuti industriali e domestici, ecc.
Tuttavia, come regola generale, le proposte concrete fatte all’interno delle grandi conferenze internazionali raramente hanno sortito effetto, sia a causa dell’ostinata riluttanza della grande industria che per certi egoismi nazionali. Come il caso degli Stati Uniti, nei quali il consumo di energia pro-capite è due volte maggiore di quello in Europa, rimangono ostili a tutti gli accordi internazionali sull’emissione di anidride carbonica (CO2). La Francia, dal canto suo, si finora sempre opposta all’idea di un’ecotasse sulle industrie inquinanti proposta dalle istituzioni comunitarie. Un altro esempio tipico è quello sulla biodiversità, che fu uno dei punti chiave del summit di Rio (16). Il termine biodiversità fa riferimento sia alla diversità degli escosistemi che alla diversità genetica delle specie animali e vegetali (17). Al termine della conferenza venne approvata una convenzione sulla biodiversità firmata da 160 dei 172 Paesi presenti. Un’altra riunione si è tenuta nel Maggio del 1993 a Trondheim, in Norvegia, al fine di determinare le modalità operative di tale progetto. Tuttavia, gli Stati Uniti si sono semplicemente limitati a rifiutarsi di firmare il testo adottato a Rio col pretesto che gli interessi della loro industria farmaceutica potevano subire un danno. (18)
Nella migliore delle ipotesi, quindi, queste misure non possono avere altri effetti che ritardare le scadenze, senza però farle sparire. Michel Serres paragona questa ecologia di tipo riformista «alla forma di una nave che corre alla velocità di 25 nodi contro una barriera rocciosa dove inevitabilmente si schianterà e intanto sul ponte l’ufficiale al comando ordine di ridurre la velocità delle macchine di un decimo, ma senza cambiare direzione» (19). La moltiplicazione delle misure inspirate alla teoria dello «sviluppo sostenibile» rafforza ulteriormente l’autorità delle burocrazie nazionali e internazionali nonché il controllo tecnocratico. Questa teoria, allora, si traduce «nell’ambito dell’industrialismo e della logica di mercato, in una estensione del potere tecno-burocratico (…) Abolisce l’autonomia della politica in favore di una espertocrazia, istituendo lo “Stato degli esperti” e gli “Esperti di Stato” diventano giudici degli interessi generali e dei mezzi per sottomettere gli individui» (20). Parallelamente, permette l’emergere di un «mercato dell’ambiente» che integra la preoccupazione ecologica nel settore mercantile (21). Riprendendo una formula di Edgar Morin, si accontenta di far fronte ai problemi, di sviluppare «tecnologie di controllo che si preoccupano degli effetti ma lasciano svilupparsi le cause» (22). Infatti, è da condannare in quanto continua a inscriversi in un sistema di produzione e di consumi che è la causa essenziale dei danni ai quali tenta di rimediare.
La teoria dello «sviluppo sostenibile» mira a correggere lo sviluppo di tipo classico, ma si guarda bene dal considerarlo per quello che è: la causa profonda della crisi ecologica. Non fa altro che «temperare lo sviluppo con considerazioni sul contesto ecologico, ma senza mettere in discussione i principi del modello di tale sviluppo» (Edgar Morin). Così, risulta particolarmente fuorviante, poiché suggerisce che è possibile rimediare a questa crisi senza mettere in discussione la logica mercantilistica, l’immaginario economico, il sistema monetario e l’espansione illimitata della Forma-Capitale.
Come ha ben dimostrato Serge Latouche, la teoria dello sviluppo sostenibile non è altro che la continuazione del colonialismo, in un’altra versione (23). Implica che tutte le società adottino lo stesso modello di produzione-conumo e che tutte seguano il modello di civilizzazione occidentale dominante. Sottoprodotto dell’ideologia del progresso e del discorso di espansione economica mondiale che ne consegue, porta a trasformare il rapporto che l’uomo ha con la natura e tra loro reciprocamente. Lo “sviluppo sostenibile” non mette in discussione alcuno dei principi fondamentali di questa dottrina. È sempre questione di ottenere profitto dalle risorse naturali e umane riducendo l’impatto dell’uomo sulla natura utilizzando dispositivi tecnici che permettono di trasformare l’ambiente come fosse una merce. Si possono certamente ridurre gli sprechi o la quantità di inquinamento, ma nel lungo periodo la protezione dell’ambiente non può convivere con la ricerca ossessiva di prestazioni sempre maggiori e di un profitto sempre più alto. Queste due logiche sono contraddittorie.
È proprio per uscire da questo circolo vizioso, che un certo numero di economisti (Brown, Lele), di teorici o gruppi ambientalisti propongono di adottare un approccio alternativo. Invece di limitarsi a valutare il costo finanziario dei rischi, per determinare tassi di inquinamento sopportabili, per moltiplicare le sanzioni, tasse e altre regolamentazioni, propongono di ripensare completamente l’attuale modalità di organizzazione della società, per porre fine all’egemonia del Produttivismo eil modo di pensare strumentale, insomma, rompendo con la religione della crescita e il monoteismo del mercato, per agire sulle cause piuttosto che sugli effetti.
Negli Stati Uniti, questo ecologismo radicale si ispira alle teorie avanzate già nel 1949 dal celebre naturalista e guardaboschi Aldo Leopold (24). Esso implica una critica all’ antropocentrismo che può assumere varie forme. Tra le sue varie interpretazioni, per la più «moderata», l’uomo è posto come parte integrante di un tutto «cosmico» dal quale non si può astrarre, senza però negare le caratteristiche specifiche della specie umana e la superiore dignità ad esse connesse (25) . Ma questa critica all’antropocentrismo può anche essere portata all’estremo, fino a sfociare in una sorta di «biocentrismo» egualitario, che considera di equivalente valore tutte le forme di vita (o anche tutte le forme di oggetti) contenute nell’universo e tende a considerarle come veri soggetti di diritto. In ogni caso, questo’ecologismo radicale richiede una nuova etica e un nuovo modo di vedere il mondo. Professa che la natura merita di essere protetta a prescindere dall’ «utilità» che rappresenta per l’uomo e generalizza un principio di prudenza fondato su una nuova forma di «ignoranza appresa»: le conseguenze a lungo termine di una trasformazione dell’ambiente naturale non potranno mai essere completamente previste, quindi astenersi ogni volta che si manifesta il rischio insito in una determinata azione è da ritenersi fondamentale (26).
Una delle correnti più radicali che si collocano in questa prospettiva è quella della «Ecologia profonda», apparsa alla fine degli anni 70 del ‘900 e di cui i rappresentanti maggiori sono il norvegese Arne Naess e gli americani Bill Devall e George Sessioni. Un movimento di pensiero più filosofico che politico, per di più aperto a tendenze abbastanza diverse, l’ecologia profonda contesta contemporaneamente sia l’individualismo che l’antropocentrismo, considerati intrinsecamente portatori di un atteggiamento strumentalista nei confronti dell’ambiente e sostiene una «saggezza» centrata sulla natura che mira a ripristinare la simbiosi armoniosa tra tutti gli esseri viventi. Bill Devall e George Sessions scrivono che «crediamo che non serve alcunché di nuovo, ma dobbiamo far rivivere qualcosa di molto anziano, per ravvivare la nostra comprensione della saggezza della Terra» (27).
Per Giovanni Filoramo l’ecologia profonda può essere definita «come un tentativo di ordinare ontologicamente l’uomo e la natura, con l’obiettivo di creare un nuovo modo di pensare e di agire, una nuova filosofia di vita, un nuovo paradigma ecologico caratterizzato dall’olismo e dal radicalismo: olistico, perché rifiuta di atomizzare la conoscenza e la realtà; e radicale perché vuole andare alle radici delle cose, criticando e destrutturando la macchina «tecnomorfica» creata dalla scienza moderna mentre ripristina nella sua integrità il senso perduto di armonia tra uomo e natura» (28). Descrivendo i suoi sostenitori, Dominique Bourg scrive da parte sua che «sono portati a respingere la conseguenza stessa di questa elevazione [dell’uomo al di sopra della natura e dell’individuo al di sopra del gruppo], vale a dire la proclamazione dei diritti dell’uomo. Attaccano anche la religione giudaico-cristiana, accusata di essere all’origine dell’antropomorfismo, lo spirito scientifico che è analitico e quindi inadatto alla comprensione della natura come totalità e, infine, la tecnica, accusata di tutti i mali. Niente di ciò che sia moderno sembra trovare favore ai loro occhi» (29).
Arne Naess in persone ha introdotto il termine «ecosofia» per designare una filosofia globale di vita, distinta dall’ecologia come disciplina scientifica e centrata sull’idea di autorealizzazione (30). Trovando la sua origine nel lavoro di Spinoza, considerato l’avversario per eccellenza del pensiero cartesiano e come promotore di una concezione monistica del mondo, questa «saggezza ecologica» postula che l’autorealizzazione (self-realization) passi attraverso un processo di autocomprensione basato sul dialogo con la natura, dialogiche permette all’uomo di scoprire la propria natura e di dare un senso alla propria vita. Questo approccio implica l’abbandono del principio di non contraddizione a favore di un nuovo modello cognitivo, tipo «mitopoietico», grazie al quale l’individuo può trascendere il suo ego e fare l’esperienza dell’unione degli opposti (coincidentia oppositorum) identificandosi con la natura considerata come un grande essere vivente. L’«ecosofia» sembra quindi resuscitare l’ideale della vita contemplativa, non senza sfuggire, purtroppo, alle tendenze caratteristiche della confusione della «New Age» e, perfino, a un irenismo un po’ naïf (31).
Il dibattito tra ambientalisti riformisti e radicali ovviamente non è prossimo alla fine. Piuttosto, sembra destinato a farsi più duro, come evidenziato dalla pubblicazione, alla vigilia del vertice di Rio nell’aprile 1992, dell’”Appello di Heidelberg”, manifesto firmato da oltre duecento personalità (tra le quali, inoltre, pochissimi veri specialisti in ecologia), nel quale si afferma che «l’umanità è sempre progredita mettendo la natura al suo servizio e non il contrario » ed esprime preoccupazione per «l’emergere di un’ideologia irrazionale contraria al progresso scientifico e industriale » (32). Usando, anche nel suo vocabolario, il repertorio più classico dell’ideologia del progresso, questo appello ha dato luogo a forti reazioni, a partire da un contro-manifesto, l’“Appello alla ragione per una solidarietà planetaria”, i cui firmatari hanno protestato «sia contro i comportamenti di estremismo ecologico che sacrificano l’uomo alla natura che contro i comportamenti dell’imperialismo scientifico che pretendono di salvare l’umanità solo con la scienza» (33).
La posta in gioco di questo dibattito è in ogni caso essenziale, poiché si tratta di sapere se i problemi sollevati dall’ecologia sono in definitiva solo una «questione tecnica», che il capitalismo liberale sarà in grado di risolvere senza dover mettere in discussione se stesso, o se, in ultima analisi, implicano una scelta di una società differente, vale a dire una trasformazione dell’organizzazione sociale e del modo di vivere oggi dominanti.
L’approccio planetario al problema fornisce un primo elemento della risposta, non tanto, come si dice spesso, per semplici ragioni demografiche (34), ma piuttosto in riferimento alle possibilità di generalizzazione del modello produttivo e di consumo che è alla base della concezione occidentale di «sviluppo». Come scrive Jean-Paul Besset, «dalla forza congiunta di baionette, del mercato e della televisione, il modello della civiltà occidentale imposto all’universo, sostituendo l’essere con l’avere e i valori con i prodotti. Nella sua versione liberale come nel suo approccio marxista, la produzione e il consumo di massa sono diventati il motore principale delle società, entrambi intese come modalità di regolazione economico-sociale e di progetto culturale […] Ogni società umana ha dovuto abbracciare la religione di [quello] stile di vita, che equipara il benessere al possesso massimo delle cose e si inchina al vitello d’oro delle autovetture di lusso e degli imballaggi in plastica, degli hamburger e dell’energia nucleare»(35). Tuttavia, oggi, solo un quinto degli abitanti del pianeta consuma da solo l’80% delle risorse esistenti. Il quarto più industrializzato della Terra consuma sedici volte più metalli non ferrosi, quindici volte più carta, otto volte più acciaio, quattro volte più fertilizzante, rispetto al resto del mondo. Cosa succederebbe se questo modello fosse effettivamente generalizzato? La risposta non è in dubbio: «La verità è dura da ammettere ma è inevitabile. Far raggiungere i livelli del Nord al Sud secondo i criteri culturali della felicità basata sull’accumulo di beni e sulle regole di un’economia guidata da un consumo ipertrofico costituirebbe un suicidio planetario» (36).
«Popoli tristi del Libro, della grammatica e delle parole, delle sottigliezze vanitose, che ne avete fatto della natura?» (Michelet, La Bibbia della umanità).
Per il libertario Alain Laurent, l’ecologismo deve essere considerato come «una religione neo-animista basata sulla sacralizzazione della natura e sul ritorno al culto arcaica della Terra, madre e dea”, e nello stesso tempo come «l’ispiratore consensuale del comunismo postmoderno che cerca di attuarsi» (37). Pierre-Gilles de Gennes, Premio Nobel per la Fisica nel 1991, qualche tempo fa, lo ha anche definito come la «religione dell’ecologismo». Interrogandosi seriamente sulle «condizioni in cui si è formato questo pensiero», Marc Fornacciari, avanza da parte sua un’ipotesi: «È questo l’antico paganesimo germanico dei popoli sfortunati [sic] rimasti oltre il limes?» (38). La stessa considerazione viene fatta da Haroun Tazieff, il quale parla di «sentimenti neopagani dell’adorazione della natura», e vede nell’appello di Heidelberg un «richiamo al buon senso cartesiano, razionale, antipagano», e si dichiara lui stesso «a favore di Cartesio, contro Heidegger» (39).
Parole meravigliose! Non è molto comune, infatti, che i rappresentanti di una corrente di pensiero, alcuni dei quali hanno un ruolo sulla scena politica, sia oggi collegato al «paganesimo». Al di là del carattere lapidario, persino discutibile, di questa etichetta, vale la pena darvi un’occhiata più da vicino.
Sappiamo che la maggior parte delle religioni tradizionali hanno un carattere «cosmico»: l’universo è percepito come un grande insieme vivente al quale l’uomo è associato per il suo essere medesimo. Nelle religioni orientali, dove troviamo il buddismo, l’Induismo o lo shintoismo, questo legame tra uomo e natura è generalmente sentito e affermato con forza. È lo stesso nelle religioni antiche europee, le quali riconoscono il carattere animato della natura, considerano l’esistenza di «luoghi sacri», rimandano a una concezione ciclica del tempo e chiedono all’uomo di entrare in armonia con il mondo attuando sacrifici e conformandosi ai riti. Da questa prospettiva, la Terra non è solo una dimora per l’uomo; è anche la sua compagna, e non può quindi essere utilizzata come un semplice mezzo al servizio dei suoi fini. Scrive Mircea Eliade che «In tutte le religioni di tipo cosmico, la vita religiosa consiste precisamente nell’ esaltare la solidarietà dell’uomo con la vita e la natura» (40). Qualunque cosmogonia essendo anche un’ontofania, una manifestazione plenaria dell’Essere, in contemporanea una palingenesi, a un perpetuo riavvio: «il mondo si manifesta in modo tale che, contemplandolo, il religioso scopre i molteplici modi del sacro e, di conseguenza, dell’Essere» (41).
È diverso nel monoteismo biblico dove la nozione di natura non esiste come tale nella Bibbia: lascia il posto a quella della creazione. Nella teologia cristiana, il mondo non si manifesta per emanazione, per filiazione, per separazione da una sostanza comune, ma come novità radicale, è un prodotto del libero arbitrio di un Dio alla cui perfezione non si può aggiungere nulla. Dio è certamente presente ovunque in questo mondo, ma non è immanente: lui solo è un essere distinto, che ha creato l’intero universo con un atto gratuito.
Il mondo, in quanto essere creato, non sarà quindi per sé stesso portatore di una sacralità minore. La prospettiva «cosmica», tipica del mondo antico, viene così abolita. L’esistenza dell’umanità non è più inscritta nel ritmo eterno dei cicli e delle stagioni, ma è organizzata prevalentemente e segue una traiettoria orientata alla salvezza. Non c’è più tempo sacro, né ci sono luoghi sacri: il «santo» sostituisce il sacro. La natura testimonia la creazione, ma non può essere di per sé stessa spirito. Inizia così la «de-divinizzazione» del mondo (la Entgötterung di Heidegger), alla quale seguirà quella che Max Weber ha definito come il «Disincanto» (Entzauberung) progressivo. Desacrilizzato, l’universo è svuotato della sua forza magica (42) o spirituale, che già annuncia la sua riduzione allo stato di «cosa» nel pensiero cartesiano.
Allo stesso tempo, l’uomo si vede assegnato un posto speciale all’interno della creazione. Non rappresenta solo un livello specifico di realtà sensibile, ne è il suo centro, il s padrone sovrano. Essendo stato creato a «immagine» di Dio, è ontologicamente diverso da tutti gli altri esseri viventi che, come lui, possiedono il potere di procreare e riprodursi, ma furono creati solo come leminâh, vale a dire «secondo la loro specie». La sua anima, la parte più essenziale del suo essere, la cosa che lo mette in relazione personale con Dio non deve nulla alla natura. C’è quindi tra il mondo e lui una cesura radicale (43). «Coronamento della creazione», protagonista centrale della trama originale, l’uomo trascende la natura e ha diritti su di essa, proprio come Dio trascende gli esseri umani e ha diritti su di loro. Il mondo, infine, è stato creato solo per l’uomo, ed è per questo che ha il diritto di sottometterlo alla sua volontà. Il dualismo originale (dualismo dell’essere creato e dell’essere non creato, dualismo di anima e corpo) si traduce in un antropocentrismo radicale. Questo rapporto di dominio è istituito dal primo libro della Genesi, quando Dio dichiara: «Sia fatto l’uomo a nostra immagine e somiglianza, ed egli domini sui pesci del mare, gli uccelli del cielo, il bestiame, tutte le bestie selvagge e tutte le bestie che strisciano sulla Terra» (Gen. 1, 26). Più avanti, avendo creato l’uomo e la donna, Dio li benedisse e disse: «Siate fecondi, moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela» (Gen. 1, 28). La stessa formula si trova quando, dopo aver lasciato l’arca di Noè, Yahweh stabilisce la sua alleanza con i sopravvissuti: «Dio benedisse Noè ei suoi figli e disse loro: Siate fecondi, moltiplicatevi, riempite la Terra. Siate il terrore e la paura di tutti gli animali sulla Terra e tutti gli uccelli del cielo, come di tutto ciò che brulica sulla Terra e di tutti i pesci del mare: sono consegnati nelle tue mani (…) Siate fecondi, moltiplicatevi, disperdetevi sulla Terra e dominatela» (Gen. 9, 1-7).
Questo imperativo di dominio è ovviamente suscettibile di molte interpretazioni. Nella tradizione ebraica, Genesi 1, 28 è stato soprattutto inteso come un incitamento alla procreazione (44). Nella tradizione cristiana, al contrario, si punta l’attenzione soprattutto sulla legittimità di «sottomissione» della Terra che è stata assegnata. Sant’Agostino, che è uno dei rari autori cristiani che hanno interpretato la formula «siate fecondi, moltiplicatevi» in senso spirituale, afferma che Dio vuole «che la vita e la morte degli animali e dellle piante siano soggette al nostro uso»” (Città di Dio I, 22). Ma Tommaso d’Acquino afferma anche che l’uomo può legittimamente esercitare sugli animali e sulle piante un dominio (dominium) d’uso. Nella Somma contro i Gentili (III, c. 112), scrive: «Per divina Provvidenza, secondo l’ordine naturale delle cose, gli animali sono destinati all’uso umano (in usum hominis ordinantur); quindi, senza alcun pregiudizio, quest’ultimo può usarli, uccidendoli o in qualsiasi altro modo».
Sebbene percepito come buono, poiché derivante dalla creazione, la natura non ha quindi nessun valore in sé. Nella migliore delle ipotesi, non dovrebbe essere conservata o protetta perché bello e portatore di una sacralità intrinseca, bensì perché è utile all’uomo, perché costituisce la cornice in cui egli si trova chiamato a realizzare la sua salvezza o perché è un’opera espressamente voluta da Dio, come riflesso dell’intelletto divino. L’amore per la natura in sé stessa è da considerarsi come «idolatria», cioè paganesimo. Ciò porta a pensare che le regole del comportamento umano possono essere limitate solo dallo spettacolo del cosmo. Al limite, nella misura in cui la natura è bella, si rivela anche portatrice di tutti i pericoli insiti nella seduzione. Per il cristiano, la libera manifestazione degli «istinti naturali» (e prima di tutto quelli che rientrano nella sessualità) conduce inevitabilmente al peccato. Nella tradizione ebraica, tuttavia, vi sono molti punti profondamente diversi rispetto a quella cristiana, quando i saggi suggeriscono di guardarsi dalla seduzione esercitata dalle bellezze della natura. Così R. Jacob: «Quello che cammina per strada ripetendo i suoi studi e si ferma a esclamare: “che bell’albero, e quanto è bello questo campo!”, le Scritture ci dicono che è come se avesse perso la sua anima» (45). Catherine Chalier aggiunge che «l’Ebraismo sottolinea il carattere non-naturale di ciò che la Torah prescrive. Si afferma che è stata rivelata nel deserto, dove appunto quasi nulla cresce spontaneamente, perché appunto non è naturale. L’idea stessa della Rivelazione è, inoltre, contraria all’affermazione che la natura sia sufficiente per l’uomo» (46). Gli stessi precetti della Torah (mitzvot) hanno allo scopo di ricordare sempre all’uomo che la Legge supera tutto ciò che è naturale, istintivo, spontaneo: «Anche il gesto più vitale, quello che mira a placare la propria fame – viene comnsiderato al limite della sua naturale spontaneità, perché questo genere non costituisce uno standard di comportamento» (47).
La tesi della responsabilità del cristianesimo nella devastazione della natura da parte della tecnoscienza occidentale è stata notevolmente supportata da un famoso articolo pubblicato nel 1967 da Lynn White Jr. nel quale afferma che «la vittoria riportata dal cristianesimo sul paganesimo è stata la più grande rivoluzione mentale della nostra storia culturale » e aggiunge che «il cristianesimo ha ereditato dal giudaismo, non solo la concezione del tempo lineare, che non si ripete, ma anche un racconto impressionante della creazione del mondo […] Dio ha progettato tutto esplicitamente a beneficio dell’uomo e per consentirgli di regnare su tutto: non c’è niente nel mondo fisico derivante dalla creazione che abbia altre ragioni di esistenza piuttosto che servire i fini degli esseri umani […] Il cristianesimo, specialmente nella sua forma occidentale, è la religione più antropocentrica che il mondo abbia mai avuto […] Non solo il cristianesimo, in assoluta opposizione al paganesimo antico come le altre religioni dell’Asia (ad eccezione dello zoroastrismo), stabilisce un dualismo tra uomo e natura, ma insiste allo stesso tempo sullo sfruttamento della natura da parte dell’uomo per soddisfare i propri fini risulta della volontà di Dio»(48).
Aggiunge White Jr. che «nell’antichità, ogni albero, ogni fonte, ogni rivolo d’acqua, ogni collina aveva il suo genius loci, il suo genio protettivo. Questi spiriti erano accessibili all’uomo, pur differendo notevolmente da lui, come evidenziato dall’ambivalenza di centauri, dei fauni e delle sirene. Prima di abbattere un albero, bucare una montagna o deviare un ruscello, quindi era importante placare il genio protettivo del luogo e far sì che rimanesse tranquillo. Nel distruggere l’animismo pagano, il cristianesimo ha reso possibile sfruttare la natura senza preoccuparsi delle sensazioni degli oggetti naturali» (49).
Dalla sua pubblicazione, e fino ad oggi, il testo di Lynn White Jr. è stato oggetto di tanti commenti e tante critiche. All’inizio degli anni Settanta del 900, ad esempio, René Dubos ha sottolineato che l’inquinamento e la devastazione dell’ambiente naturale non sono mai state responsabilità esclusiva della cultura occidentale, e che le religioni orientali, generalmente giudicate più rispettose degli «equilibri naturale», non hanno impedito, nel corso della storia, un certo numero di appropriazioni distruttive della natura (50). L’argomento è stato ripreso di recente da Dominique Bourg, il quale pensa che dualismo, antropocentrismo e trascendentalismo non portano necessariamente a promuovere una relazione rigorosamente basata sulla tecnica con la natura (51). Aldilà di un certo numero di osservazioni esatte e puntuali, né l’uno né l’altro mettono in discussione i motivi per cui è comunque nell’area della civiltà «cristiano-occidentale» che la distruzione dell’ambiente è stata la più intensa ed è avvenuta in modo più sistematico, né le fonti filosofiche e metafisiche del dominio della tecnica.
Mircea Eliade, d’altra parte, avrebbe probabilmente approvato White Jr., infatti scrive che «la scienza moderna non sarebbe stata possibile senza il giudeo-cristianesimo che ha eliminato il sacro dal cosmo e quindi lo ha “neutralizzato” e “banalizzato” […] Con la sua polemica antipagana, il cristianesimo desacralizzò il cosmo […] e ha reso possibile lo studio oggettivo, scientifico della natura […] La “tecnica”, la civiltà occidentale, è il risultato indiretto del cristianesimo, che ha sostituito il mito presente nell’ antichità» (52). Anche un autore come Michel Serres sembra fare eco a questa interpretazione quando osserva che «il monoteismo ha distrutto gli dei locali, noi non sentiamo più le dee ridere tra le fonti, né si vedono apparire i geni tra il fogliame; Dio ha svuotato il mondo, il grande Pan, dicono, sia morto» (53). Il teologo tedesco Eugen Drewermann, le cui opinioni sono oggi discusse appassionatamente, sviluppa esattamente la stessa tesi in uno dei suoi ultimi libri: secondo lui, «queste religioni monoteiste associate al razionalismo greco il quale, attraverso il cristianesimo, è responsabile della rottura tra l’uomo e la natura» (54).
In questo settore, come in tanti altri, è infatti difficile affrontare la tradizione cristiana come un insieme omogeneo. Ricorda anche Lynn White Jr. che la centralità dell’uomo rispetto alla natura è stata particolarmente marcata nel Cattolicesimo latino, mentre i cristiani celtici e la Chiesa ortodossa hanno al contrario insistito sulla partecipazione della natura al piano di redenzione. Pone anche l’attenzione al caso eccezionale di Francesco d’Assisi, che definisce come «il più grande rivoluzionario spirituale della storia occidentale» e propone di nominarlo come «il Santo patrono degli ecologisti» (55). Altri autori hanno mostrato l’importanza di una pietà ordinata alla natura, a volte anche al limite del panteismo, come in alcuni grandi eretici cristiani, come Maister Eckart e Ildegarda di Bingen tra i mistici, e anche in alcuni ordini mendicanti, movimenti come la Fratellanza dello Spirito Libero, ecc. (56). Va anche considerata la tradizione ermetica, dove Dio si è fatto creatore di sé stesso nello stesso momento in cui crea il mondo, in quanto «costituisce una via immanente, intramondana ed energica per rivalutare la natura come un tutto vivente che ha in sé, nella sua creazione continua, la sua ragion d’essere» (57).
Il caso del protestantesimo è più complesso. Eliminando il culto dei santi e il culto mariano che aveva in qualche misura preso il posto delle divinità nel politeismo pagano (58), la religione riformata sembra rendere insormontabile l’abisso che separa Dio e la natura. D’altra parte, tuttavia, la soppressione delle forme istituzionali proprie del cattolicesimo favorisce il ristabilimento di un legame diretto tra l’uomo e Dio, dove la natura, e non più la Chiesa, svolge un ruolo di mediatore privilegiato. Osserva Jean Viard che «paradossalmente l’antico panteismo e la religione riformata qui si incontrano» (59).
Questa tendenza è particolarmente marcata nella corrente luterana, e ancor più nel pietismo, che nasce in Alsazia nel XVII secolo, e che manifesta, accanto a un certo individualismo, un «sentimentalismo» che sarà, inizialmente, orientato verso l’amore per la natura intesa come opera di Dio, e quindi fa di questo amore per la natura il contenuto anche del sentimento religioso (60). Il pietismo avrebbe esercitato una forte influenza sul romanticismo tedesco (e indubbiamente anche su Rousseau), assumendo l’amore per la natura la forma di una sorta di pietà ordinata alla natura (Naturfrömmigkeit), visto come «religiosità del mondo» (Weltfrömmigkeit). Novalis in I discepoli di Sais scrive che «l’amore per la natura assume varie forme, e mentre esiste in alcuni per la gioia e per la volontà, ispira ad altri la più pia religione, ciò che dà direzione e sostegno a tutta la vita». Resta da vedere, tuttavia, se questo sentimento «protestante» della natura, che sembra specifico dei paesi del nord Europa, non esprima in una nuova forma un atteggiamento legato a una mentalità antica (61).
Anche la tendenza contemporanea dell’ecologismo sembra aver fatto crollare alcune barriere confessionali. Cattolici, protestanti ed ebrei non sono gli unici, d’ora in poi, a lavorare in favore della natura e a cercare di trovare nel loro patrimonio giustificazioni più o meno convincenti per questo impegno. Il punto di vista cristiano oggi è quello di insistere sulle responsabilità che l’uomo avrebbe di fronte alla natura per il fatto stesso del luogo particolare che occupa (62). Nel giudaismo, il racconto dell’Arca di Noè è talvolta interpretato come testimonianza della preoccupazione per la conservazione della biodiversità (63). Citiamo anche, e soprattutto, a riguardo della festa di Tu Bishvat (celebrazione del «Capodanno degli alberi»), il passaggio del Deuteronomio che incoraggia a «non distruggere» (bal tashchit) gli alberi da frutto (64). Durante una conferenza organizzata nell’ottobre 1992 dal movimento Pax Christi, alcuni partecipanti, convinti che «il cristiano trova nei testi l’ispirazione sacra per un sano comportamento ecologico», hanno difeso il «biocentrismo» e invocato l’avvento della «cosmoetica»(65). Quanto a Papa Giovanni Paolo II, egli interpreta in modo molto classico il saccheggio della Terra come un eccesso di potere da parte dell’uomo: «l’uomo si sostituisce a Dio e finisce per provocare la rivolta della natura da lui tiranneggiata più che governata» (66).
Questa «conversione» della Chiesa all’ecologia non permette però di risolvere la problematica evocata da Lynn White Jr. Già nel XIX secolo, un filosofo come Feuerbach denunciava nel dogma cristiano della creazione la riduzione del «Tutto ciò che è» al ruolo di un materiale semplice progettato per soddisfare la sola utilità umana. Altri autori, come abbiamo visto, hanno mostrato una certa continuità tra il cristianesimo, che profana il mondo e lo svuota di tutta la dimensione spirituale intrinseca, il pensiero cartesiano, che considera la natura come un meccanismo per il quale l’uomo sarebbe giustificato nell’affermarsi come padrone sovrano, e l’emergere di una modernità caratterizzata dall’ascesa sempre più rapida della tecnoscienza e l’avvento di un individuo isolato tagliato fuori da ogni legame con l’universo. Danièle Hervieu-Léger scrive quanto segue: «La traiettoria storica dell’affermazione del soggetto – che è al principio della relazione di appropriazione valorizzatrice che l’uomo occidentale intrattiene con la natura – è radicato, almeno in parte, in una traiettoria religiosa: è qui, dall’antica profezia ebraica alla predicazione calvinista, che viene posto al centro del rapporto dell’uomo con Dio, la realizzazione razionale di un ideale etico, prima situato al di fuori del mondo, poi attuato proprio in questo mondo» (67). Da parte sua, Jacques Grinewald afferma che «per difendere ostinatamente “la nozione di infinito”, l’eredità dell’Illuminismo, il modello del progresso dell’Occidente, della crescita illimitata del capitalismo e del liberalismo economico, si può solo adottare la religione della salute, il cristianesimo messianico, che ha dato vita al progetto occidentale della tecnoscienza, che allo stato attuale pretende di subentrare nella gestione di pianeta» (68).
L’esistenza di un legame tra ecologia e religione sembra quindi ben dimostrato, ma è percepito in modi molto diversi. Mentre alcuni ambientalisti sottolineano la responsabilità del Cristianesimo nello sviluppo di un atteggiamento di padronanza e dominio eccessivo sulla natura da parte dell’uomo, altri desiderano, al contrario, vedere un nuovo sentimento religioso verso la natura, la difesa dell’ambiente che diventa poi un «sacro dovere» che va di pari passo con la riscoperta di una dimensione di trascendenza che si impone all’azione umana. La religione può quindi essere vista sia come causa del degrado del rapporto tra uomo e natura sia come la possibile fonte di una restaurazione di questa stessa relazione. In altre parole, vediamo scontrarsi due diverse proteste, descritte da Danièle Hervieu-Léger come «da un lato, una protesta ecologica contro una tradizione religiosa antropocentrica; e dall’altro, una protesta spirituale e/o religiosa contro la secolarizzazione contro-natura del mondo moderno» (69). La contraddizione è ovviamente evidente, perché semplicemente non si tratta della stessa religione, tuttavia ciò mostra quanto il fatto religioso o spirituale permei oggi la problematica ecologica, come dimostra il lavoro di un alto numero di studiosi.
Più di un quarto di secolo fa, E.F. Schumacher parlava già della necessità di una «ricostruzione metafisica», e anche René Dubos afferma che «la nostra salute dipende dalla nostra attitudine a creare una religione della natura», perché «un’attitudine etica nello studio scientifico della natura conduce logicamente a una teologia della Terra» (70).
Edgar Morin evoca per parte sua l’eventualità di una «religione che assuma l’incertezza». In Rupert Sheldrake, la protesta contro il «disincanto» del mondo si traduce in desiderio di nuova sacralità: «Qual è la differenza nel vedere la natura come vivente piuttosto che inanimata? Prima di tutto, questa visione mina i presupposti umanisti su cui si fonda la civiltà moderna. Quindi, promuove un nuovo approccio alla nostra relazione con il mondo naturale e una nuova visione della natura umana. Infine, incoraggia una risacralizzazione della natura» (71).
Michel Serres, il quale insiste sull’ambito religioso, si oppone opportunamente al suo contrario etimologico, la negligenza (neg-ligere): «La modernità trascura, parlando in assoluto» (72). Inoltre, mentre si rallegra che, finalmente, «Dio accoglie gli dei», non esita a scrivere: «Mosso dalla tradizione, ho creduto a lungo che il monoteismo avesse ucciso gli dei locali e piansi la perdita delle amadriadi, essendo pagano come tutti i contadini miei padri. La solitudine dove c’erano gli alberi, i fiumi, i mari e gli oceani mi hanno lacerato, ho sognato di ripopolare lo spazio vuoto, avrei pregato volentieri gli dei distrutti. Odiavo il monoteismo di questo olocausto delle divinità, mi sembrava una violenza integrale, senza perdono ne eccezione» (73). E, più avanti: «Sì, sono veramente un pagano, lo ammetto, un politeista, contadino figlio di contadino, marinaio figlio di marinaio […] Credo, credo soprattutto, credo essenzialmente che il mondo sia Dio, che la natura sia Dio, cascata bianca e risate dei mari, che il cielo mutevole sia Dio stesso …» (74).
 Partendo della stessa critica alla devastazione e all’inquinamento dell’ambiente naturale (75), gli ecologisti stanno infatti esplorando, da un punto di vista «spirituale» le più svariate vie. Molti di loro si rivolgono alle religioni orientali. In Germania, dopo Erich Fromm, Rudolf Bahroi oppone gli insegnamenti del Buddismo Zen al «disprezzo monoteistico per la natura» (76). Altri, come Peter Sloterdijk o Hans Blumenberg, si sforzano di riabilitare la nozione di mito, troppo a lungo ridotto a caricatura dal nazismo, e di esplorare le possibilità di una «neo-mitologia non regressiva» (77). Hans Peter Duerr chiede un rinnovamento della vitalità culturale tenendo conto degli elementi «selvaggi», la cui repressione è avvenuta ad opera dei totalitarismi moderni (78). Manon Maren-Grisebach lavora a una elaborazione di un «pensiero cosmico» che elevi l’individuo «dall’amore tra gli uomini all’ amore per gli animali e le piante» (79). Allo stesso tempo, con Michael Ende o Sten Nadolny, viene messo in discussione il culto della velocità e l’idea di una temporalità lineare, fonte della fiducia nell’accelerazione del progresso, e ci si sforza di creare una nuova coscienza temporale, dove passato e futuro saranno dimensioni permanenti di qualsiasi momento presente (80). Ai confini dell’ecologismo e del neofemminismo – che spesso sostiene che esiste un chiaro legame tra l’oppressione delle donne e il dominio sulla natura – il rinnovato interesse per un ipotetico matriarcato primitivo, ovvero per streghe e per le persecuzioni di cui furono vittime, non è meno rivelatore.
Tutti questi passaggi ovviamente non hanno lo stesso valore o lo stesso interesse. Molti non sfuggono alla confusione e al grossolano sincretismo caratteristici dell’epoca della «New Age», costituendo così una manifestazione tipica di questa «religiosità secondaria» denunciata a suo tempo da Spengler.
Quanto al «paganesimo» di cui alcuni ecologisti si vedono accusati dai loro avversari, esso stesso non è privo di equivoci. Non diremo mai abbastanza volte, per esempio, che l’antico paganesimo indoeuropeo non è mai riducibile a una semplice «religione della natura» (non può essere pensato al di fuori della natura, ma non può essere ridotto a semplice naturalismo) e che, per di più, il culto della Madre Terra appartiene a un’altra tradizione diversa dalla sua (tradizione tellurica, ctonia, che l’ha in larga misura soppiantato). In questo senso, la risacralizzazione della natura sostenuto da alcuni ambientalisti radicali si riferisce meno al sacro «classico» pagano che a una tradizione ermetica che sottolinea soprattutto il legame tra uomo e natura, microcosmo e macrocosmo, «la parte divina presente nell’uomo e il fondamento divino del cosmo» (Giovanni Filoramo). Non è certo un’esagerazione vedere la rinascita, in forme rinnovate, di certi modi precristiani di vedere il mondo, ma limitarsi a interpretare l’ecologismo contemporaneo come un semplice “neopaganesimo” equivarrebbe a commettere un doppio malinteso: cosa sia il paganesimo europeo e cosa l’ecologia contemporanea. Tra uno e l’altra, c’è una certa parentela, non un’identità completa.
Ciò che dovrebbe essere notato, tuttavia, è che secolarizzandolo, il «disincanto» del mondo si è rivoltato contro la tradizione religiosa che lo aveva inizialmente reso possibile. L’ateismo moderno è il frutto paradossale della religione che ha proclamato l’onnipotenza della ragione, che ha portato Marcel Gauchet a descrivere il cristianesimo come «la religione dell’uscita dalla religione». Questo è ciò che nota anche Danièle Hervieu-Léger quando scrive che «l’ebraismo e il cristianesimo hanno certamente sostenuto con forza il processo di «disincanto» del mondo, cosa che ha aperto la strada sia alla commercializzazione della natura e al suo sfruttamento illimitato. Ma il progresso della razionalizzazione che corrisponde a questo processo di «disincanto» ha prodotto anche la scomparsa della presa della religione sulle coscienze e sulla società» (81).