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Tre guerre

di Enrico Tomaselli - 10/10/2025

Tre guerre

Fonte: Giubbe rosse

La storia dello stato di Israele è una storia di guerra. Come tutti i colonialismi d'insediamento, in cui la popolazione indigena viene rimossa o sostituita da una comunità di coloni che si insedia stabilmente nel territorio, la guerra è innanzitutto un atto fondativo; ma, diversamente da quanto accaduto nel caso degli altri colonialismi di tale natura (Nord America e Australia), che hanno potuto portare a termine la eliminazione/sostituzione della popolazione autoctona anche grazie al fatto che non vi fossero paesi confinanti ove questa fosse presente, Israele si è collocata in un contesto regionale nel quale è invece circondata da paesi con la medesima composizione etnica della popolazione originaria del territorio occupato. Pertanto, la guerra è stata non solo necessaria per l'instaurazione dello stato ebraico, ma è divenuta anche una necessità 'difensiva', nel senso che è lo strumento attraverso il quale Israele impedisce il suo 'rigetto' come corpo estraneo, rispetto al contesto regionale.
Sino agli anni '70, ciò ha significato fondamentalmente due guerre, quella 'dei sei giorni' (nel 1967) e quella 'dello Yom Kippur' (nel 1973), condotte contro alcuni degli stati arabi vicini. Guerre che hanno tra l'altro consentito di occupare ulteriori territori, annettendoli allo stato israeliano. E queste due guerre si sono intrecciate con tutta la prima fase della lotta di liberazione palestinese, quella definibile come del 'nazionalismo laico', che comportarono tra l'altro una invasione del Libano, con l'assedio di Beirut.
Superata quella fase, sostanzialmente lo stato israeliano ha vissuto circa un ventennio di relativa tranquillità, non avendo più particolari esigenze belliche con i vicini arabi. La situazione però aveva cominciato a cambiare con la Rivoluzione Islamica in Iran (nel 1979), che non solo privava Israele e gli USA di un importante alleato regionale, ma gettava le premesse per l'apertura della seconda fase del conflitto israelo-palestinese. L'Iran rivoluzionario, infatti, si poneva sin dal principio come un baluardo anti-imperialista, ed infatti gli Stati Uniti vi scagliarono contro l'Iraq baathista di Saddam Hussein, in una guerra durata ben otto anni, nel tentativo di rovesciarlo.
Israele ha comunque mantenuto un atteggiamento di sostanziale diffidenza, soprattutto verso quei regimi arabi nazionalisti - come l'Egitto di Nasser prima, l'Iraq di Saddam e la Siria di Hafez Assad poi - che riteneva potenzialmente nemici.
A partire dagli anni '90, consolidatasi la rivoluzione in Iran, questa ha cominciato ad esercitare la sua influenza regionale, sia come potenza anti-imperialista ed anti-coloniale, sia come punto di riferimento per le popolazioni sciite della regione. A partire dai primi anni duemila, questi due assi si fondono nel progetto dell'Asse della resistenza, cui poi il generale iraniano Qassem Soleimani darà poi forma è sostanza, creando uno schieramento che comprende, oltre ovviamente l'Iran, la milizia sciita libanese di Hezbollah, quella yemenita di Ansarullah, le Forze di Mobilitazione Popolare irachene, il governo siriano (sia pure in forma più defilata) e tutte le formazioni combattenti palestinesi.
Questa nuova fase strategica ha posto ad Israele nuove sfide, poiché il nuovo attore che entrava in campo, l'Iran, non avendo confini diretti con lo stato ebraico era al riparo da possibili attacchi di terra - come per le precedenti guerre contro gli arabi - ed inoltre, costruendo un network di formazioni politico-militari non-statuali, predisponeva una sorta di cordone di potenziali minacce intorno ai confini israeliani.
A questa minaccia, la risposta israeliana è stata - in non casuale coincidenza con una avanzata delle destre fondamentaliste - la ripresa della vocazione espansionista. La quale trovava nell'idea messianica della Grande Israele la sua chiave motivazionale e ideologica, e nella necessità di acquisire una maggiore profondità strategica la sua ratio pragmatica.
In questo quadro, si colloca la seconda guerra libanese del 2006, o 'guerra di Luglio', che segnerà la prima vera sconfitta militare dell'Israel Defense Forces. Il conflitto, durato solo 34 giorni, nasceva con l'obiettivo di 'rimuovere' la minaccia costituita da Hezbollah, distruggendone il potenziale militare e costringendola ad arretrare oltre il fiume Litani, posto a circa 30 chilometri dal confine. E si concluse con un intervento internazionale, sancito dalla risoluzione ONU 1701, che sostanzialmente servì ad Israele per uscire a testa alta dal conflitto, pur avendolo perso strategicamente. L'IDF, infatti, fallì interamente i suoi obiettivi strategici, restando bloccato entro pochi chilometri e subendo perdite pesanti. E fu proprio in quella occasione che venne inaugurato quello che ormai possiamo definire come un vero e proprio format, che prevede sostanzialmente due passaggi: l'attacco israeliano contro un nemico e, al mancato raggiungimento degli obiettivi, l'intervento internazionale (occidentale) per porre fine al conflitto, traendo Israele dagli impicci.
A partire dall'attacco palestinese di due anni fa, infine, si determinata una ulteriore accelerazione del processo di indebolimento dello stato ebraico. In questo arco di tempo, benché Tel Aviv abbia più volte colpito numerosi paesi della regione, ingaggiando a volte veri e propri semi-conflitti, si è sostanzialmente impegnata in tre vere e proprie guerre. Contro la Resistenza palestinese nella Striscia di Gaza, nuovamente contro Hezbollah in Libano, e contro l'Iran.
La terza guerra libanese, cominciata nel settembre 2024 e terminata a novembre, vedrà dapprima una fase preliminare, durante la quale Israele dapprima ha lanciato la famigerata campagna terroristica dei cerca-persone (decine di morti e migliaia di feriti), poi una serie di assassinii mirati, tra cui quello del leader politico-militare di Hezbollah Hassan Nasrallah e del suo successore Hashem Safieddine, ed infine una violenta campagna di bombardamenti aerei su Beirut e sull'intero su del Libano. Ancora una volta, però, nonostante il tentativo di agevolare il successo attraverso la decapitazione della struttura nemica, l'IDF mancherà poi i suoi obiettivi strategici: distruzione del potenziale militare di Hezbollah, sua cacciata oltre il Litani. Al contrario, le forze israeliane riusciranno a penetrare in territorio libanese ancor meno che nel 2006, subendo anche stavolta pesanti perdite. E qui seconda applicazione del format già visto precedentemente.
A giugno dell'anno successivo, tentativo israeliano di rovesciare il regime iraniano (Tel Aviv aveva sviluppato anche contatti con l'erede della ex-casa regnate prerivoluzionaria, i Pahlevi). La 'guerra dei dodici giorni', anche stavolta accompagnata da una catena di omicidi mirati, e dalla mobilitazione di una massiccia rete di infiltrati, non solo mancherà i suoi obiettivi strategici, ma si rivelerà un semi-disastro, con Tel Aviv costretta a chiedere - tramite gli USA - un cessate il fuoco. Stavolta la drammaticità della situazione ha imposto però una differente declinazione del noto format: al posto della mediazione pacifica, c'è stata la messa in scena degli attacchi reciproci (siti nucleari iraniani e base USA in Qatar). I danni subiti da Israele, ancorché occultati dalla censura militare, saranno assai significativi.
Infine, è cosa di queste ore, una tregua sembra giunta a porre fine alla terza guerra, quella di Gaza - la più lunga mai combattuta da Israele. Anche se il memorandum d'intesa firmato al Cairo dagli inviati israeliani e palestinesi, oltre che dai mediatori, titola "Fine completa della guerra di Gaza", nessuno al momento crede più di tanto a questa promessa; ma sarebbe già tanto se fosse una tregua duratura. Del resto, ovviamente non può esserci pace, sinché non vengono risolti i nodi che stanno alla base del conflitto. Nodi che poi fondamentalmente si riconducono ad uno, la presenza dell'insediamento coloniale dello stato ebraico, fondato sull'apartheid, il messianesimo religioso ed il suprematismo pseudo-razziale. Anche in questo caso, comunque, siamo in presenza dell'applicazione del noto format di salvataggio. Certamente in questa occasione a spingere gli Stati Uniti ad intervenire, forzando la mano al governo israeliano, è stato il fatto che l'azione di Tel Aviv - oltre ad essere inefficace - stava minacciando direttamente gli interessi statunitensi nella regione, e quelli presidenziali negli Stati Uniti. Ma è abbastanza chiaro che, comunque, questa 'pace travestita da tregua' risponde anche all'esigenza di cavare le castagne dal fuoco ad Israele. Sul piano politico-diplomatico (come dice Trump, "Israele non può combattere contro il mondo"), ma anche su quello militare, poiché è evidente che il prosieguo della campagna, con l'ennesima rioccupazione di Gaza City, non avrebbe spostato i rapporti di forza sul terreno, ed avrebbe confermato l'ennesima sconfitta strategica di Israele. E ricordiamo, sconfitta strategica significa che lo sforzo bellico non ha prodotto i risultati voluti perseguiti dalla leadership politica e militare, indipendentemente dai singoli successi ottenuti sul campo di battaglia.
Possiamo pertanto tranquillamente affermare che, in un biennio, Israele ha intrapreso e perso tre guerre. Le ha perse militarmente, e le ha perse politicamente, poiché la sua condizione, regionale ed internazionale, ne esce decisamente peggiorata. È più debole, e sempre più dipendente dall'aiuto statunitense - il che significa minore autonomia, come si è visto. È più isolato, e questo si riflette sia sulla tenuta sociale interna, sia sull'economia, sia sulle relazioni internazionali. Ed è militarmente indebolito, avendo oltretutto perduto definitivamente la sua capacità di deterrenza.
Non sappiamo quindi se e come si svilupperà nel prossimo futuro la situazione della regione; tra l'altro, restano ancora aperti numerosi focolai di crisi e di tensione, dal Libano alla Siria, dallo Yemen all'Iraq, e ovviamente all'Iran - un boccone che né Israele né gli USA riescono a mandar giù.
Ma una cosa sembra evidente, e queste tre sconfitte lo certificano: come dice David Hearst, direttore di Middle East Eye, Israele “come tutti i progetti coloniali della storia, non riesce a vedere il proprio declino — ma è già iniziato.”