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Home / Articoli / Ultime notizie dal mondo 15-31 Marzo 2007

Ultime notizie dal mondo 15-31 Marzo 2007

di redazionale - 05/04/2007


 

a)      L’Italia in Afghanistan. Da Berlusconi a Prodi. Una scarrellata di notiziole (22, 23) per chiarirsi meglio le idee in merito. Importante anche Afghanistan (26) per la Guantanamo italiana da collegare con USA (29). E intanto, sulla base USA “Dal Molin” (24), la partita è ancora aperta.

 

b)     Rimanendo sempre nel «Grande Medio Oriente allargato» di bushista memoria. Ogni paese «ha il suo modo di applicare la democrazia», dice il segretario di Stato USA, Condoleezza Rice. E porta il placet degli States all’accentuazione autoritaria dell’Egitto di Mubarak (27, 31). Non se la passa bene il Pakistan di Musharraf (28). E da Israele fa le valigie un noto storico, Ilan Pappe: «Sono continuamente preso di mira. È impossibile lavorare per chi come me è contrario al sionismo» (23). Alla Knesset passa una controversa legge sulla cittadinanza in relazione ai matrimoni che fa gridare al razzismo (21). Sulla situazione in Palestina ed il varo del governo di unità nazionale vedi 16, 17, 19, 25. Una notiziola sulla Francia che, secondo il quotidiano israeliano Maariv, suggerì ad Israele di attaccare la Siria (19). Rapporti Iran / Siria al 15. Gran Bretagna / Iran al 24. USA / Iran al 25. Iraq al 20, 26, 31 e Arabia Saudita al 29.

 

Tra l’altro:

 

Corsica (26 marzo)

Irlanda del Nord (17, 26 marzo)

Euskal Herria (18, 21 marzo)

Somalia (22, 30 marzo)

Ucraina (30 marzo)

Russia (30 marzo)

Nepal (31 marzo)

Russia / Cina (27 marzo)

India (17 marzo)

USA (24, 27 marzo)

USA / Colombia (21 marzo)

Messico (25 marzo)

Cuba (29 marzo)

Venezuela (15, 26, 27, 28 marzo)

Brasile / Italia (28 marzo)

Ecuador (21, 29 marzo)

 

 

  • Iran / Siria. 15 marzo. Si è chiusa ieri, a Teheran, la nona riunione della Commissione congiunta per la cooperazione economica con la Siria. Tra gli impegni più rilevanti: l’adozione di tariffe preferenziali per favorire gli scambi commerciali; impianti silos per cereali; una centrale elettrica e un cementificio; una decina di insediamenti produttivi in Siria per l’industria automobilistica iraniana Khodro; il progetto di una linea ferroviaria Damasco-Baghdad-Teheran. Dall’elenco dei progetti in cantiere si individuano due variabili fondamentali: l’intensità e la proiezione temporale. L’ambasciatore iraniano a Damasco, Mohammad Hassan Akhtari, ha dichiarato che gli investimenti dell’Iran in Siria sono cresciuti del 50% negli ultimi 12 mesi raggiungendo la quota di un miliardo di dollari tra marzo 2005 e marzo 2006. L’intensa cooperazione bilaterale Iran-Siria si proietta inoltre lungo un ampio arco temporale. Si passa dal coordinamento nel breve periodo alla progettazione di medio-lungo periodo.

 

  • Iran. 15 marzo. Per Teheran, la cooperazione bilaterale –non solo rivolta alla Siria– rappresenta una protezione per garantire gli scambi economici minacciati da nuove sanzioni internazionali. L’Iran sta lavorando ad una solida rete di interessi economici con i paesi limitrofi: con l’Armenia per la costruzione di un gasdotto; con l’Iraq, dove già oggi la penetrazione economica è profonda; con il Kirghizistan per la fornitura di elettricità. Il raggio si estende col progetto di una Opec del gas naturale cui parteciperebbero Russia, Venezuela, Algeria e Qatar. Con i missili statunitensi puntati sui siti delle sue nascenti centrali atomiche, la cooperazione economica è una polizza assicurativa di fronte all’arrivo delle sanzioni, ma anche uno scudo politico per spezzare possibili coalizioni internazionali anti-Iran.

 

  • Iran / Siria. 15 marzo. Cooperazione militare tra Teheran e Damasco. Accordo tra i ministri della difesa dei due paesi. Superando ataviche linee di divisione religiosa, Siria ed Iran convergono sulla necessità di far fronte alle «minacce» di Israele e USA nell’area.

 

  • Australia / Giappone. 15 marzo. Accordo per certi versi storico tra Australia e Giappone in campo militare. È il primo accordo permanente di tipo militare quello siglato l’altroieri dal Giappone con un altro Stato, diverso dagli Stati Uniti, dalla fine della seconda guerra mondiale. Il patto rafforza la collaborazione tra due Stati che già singolarmente cooperano nel settore militare con gli Stati Uniti. Sancisce una forma più solida di alleanza regionale nel Pacifico, regione in cui la Cina è assai attiva. L’accordo istituzionalizza, tra l’altro, la cooperazione nella condivisione di informazioni di intelligence, in esercitazioni militare congiunte, in operazioni di cosiddetto peacekeeping sotto egida ONU, in azioni “contro il terrorismo”.

 

  • Venezuela. 15 marzo. Un fondo di aiuto umanitario per Haiti di venti milioni di dollari. Lo ha annunciato il governo del Venezuela. Servirà a portare a termine progetti di cooperazione in sfere come la salute, l’educazione, l’elettricità, l’acqua potabile, la sicurezza alimentare ed i combustibili. Il presidente del Venezuela, Hugo Chávez, è arrivato lunedì pomeriggio a Porto Principe (Haiti), dov’è stato accolto dalle acclamazioni della folla, che ha scandito slogan contro il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush. Ore prima il capo dello Stato venezuelano aveva visitato il Nicaragua, dove migliaia di persone gli hanno espresso sostegno nella città di León, dove si è recato con il presidente Daniel Ortega. È stato anche in Giamaica, dove ha firmato un accordo di cooperazione sul gas con la prima ministra dell’isola caraibica Portia Simpson.

 

  • Israele / Palestina. 16 marzo. Cerimonie spontanee oggi a Gaza per ricordare la pacifista statunitense Rachel Corrie. La giovane fu travolta e uccisa il 16 marzo del 2003 a Rafah da un bulldozer militare israeliano mentre tentava, con attivisti dell’International Solidarity Movement, di impedire la demolizione di una casa palestinese. L’esercito israeliano liquidò il fatto come «un deprecabile incidente».

 

  • Bolivia. 16 marzo. Morales convoca elezioni anticipate per il 2008. Il presidente della Bolivia, Evo Morales, lo ha annunciato oggi, parlando a Warnes (Santa Cruz), una volta –ha detto– che l’Assemblea Costituente terminerà il suo lavoro, il che si augura che avvenga quest’anno. Morales ha precisato che bisognerà procedere all’elezione di un nuovo presidente. I boliviani saranno comunque chiamati ad esprimersi sul nuovo testo costituzionale con un referendum. Morales ha vinto le elezioni nel dicembre 2005, con il 53,7% dei suffragi.

 

  • Irlanda del Nord. 17 marzo. L’UDA esprime il suo appoggio al governo multipartito. La più consistente organizzazione paramilitare lealista, l’UDA (Associazione per la Difesa dell’Ulster), si è aggiunta all’appello per la costituzione di un Esecutivo multipartitico. L’esponente dell’UDA, Jackie McDonald, ha dichiarato che acconsentono a che Paisley formi un governo con i repubblicani del Sinn Féin, con i quali condivide la sfiducia sul nuovo corpo di polizia nordirlandese. McDonald ha aggiunto di dichiararsi più ottimista che mai sulla possibilità di una pace duratura, nonostante la preoccupazione sull’isolamento che soffre la comunità unionista a Derry e Antrim Nord. La dichiarazione dell’UDA si unisce a quella della seconda formazione lealista per numero di membri nel nord Irlanda, l’UVF, che alcuni mesi assicurò di preferire un governo autonomo con la partecipazione del Sinn Féin alla possibile «ingerenza» di Dublino nella politica nordirlandese che si materializzerebbe in caso di inadempimento della data limite del 26 marzo per la formazione del governo. Downing Street ha infatti già avvertito che, in caso di mancato accordo tra i partiti nordirlandesi, Londra e Dublino governeranno in forma associata il nord Irlanda.

 

  • Palestina. 17 marzo. «Se Israele boicotta il governo di unità palestinese, dimostrerà che è interessato a continuare l’occupazione e non vuole la pace». Lo ha detto ieri il nuovo ministro dell’Informazione, Mustafa Barghuti (indipendente), che prenderà possesso oggi della sua carica, insieme al resto del gabinetto. Ieri il viceministro israeliano della Difesa, Efraim Sneh, ha precisato che le relazioni saranno mantenute unicamente con il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), Mahmud Abbas. David Baker, portavoce del primo ministro Ehud Olmert, ha precisato che i rapporti con Abbas sono motivati dal fatto che «assume le condizioni del Quartetto (riconoscimento di Israele, assunzione degli accordi tra israeliani e palestinesi, «rinuncia alla violenza», ndr)». Barghuti, replicando, ha sottolineato che «l’atteggiamento israeliano è equivoco. Il nuovo governo palestinese non è solo un governo di Hamas, è il governo di tutto il popolo palestinese. Rappresenta la volontà del 90% degli elettori», ha detto al quotidiano israeliano Yediot Ajronot, mostrando perplessità per i pregiudizi dell’esecutivo israeliano che respinge relazioni con un governo legittimo prima ancora di sapere quali siano i suoi intendimenti. «Il problema di Israele è che è uno Stato colonialista e noi rifiutiamo di essere un popolo che accetta di vivere sotto occupazione e sotto un regime coloniale»; «se Israele vuole la pace», ha proseguito Barghuti, «deve riconoscere il nuovo governo e ritirare il boicottaggio imposto all’Autorità Palestinese». Oltre a ciò ha precisato che l’obiettivo del nascente governo palestinese è porre fine alla divisione interna, farla finita con il boicottaggio diplomatico ed economico, migliorare le condizioni di vita dei palestinesi, porre termine all’occupazione.

 

  • Palestina. 17 marzo. Nasce il nuovo governo palestinese di unità nazionale. Ieri il Consiglio legislativo ha dato la fiducia: 83 i voti favorevoli e 3 contrari –quelli del Fronte Popolare (sinistra), che contesta ciò che definisce il «compromesso storico» finalizzato al controllo del potere raggiunto da Hamas e Fatah. Alla votazione non erano presenti 41 deputati in carcere in Israele. Se Israele ha già fatto sapere, prima ancora della nascita del nuovo governo, che continuerà a boicottare l’esecutivo, la Norvegia ha detto che riconoscerà il governo Hamas-Fatah. L’amministrazione Bush è allineata sulle posizioni di Israele ma ha fatto sapere che avrà contatti con il ministro delle finanze Salam Fayyad, un ex funzionario del Fondo Monetario Internazionale, che considera un «amico».

 

  • Palestina. 17 marzo. In casa palestinese è opinione diffusa che l’accordo di unità nazionale, figlio delle intese raggiunte all’inizio di febbraio alla Mecca, sia fortemente vincolato alla revoca delle sanzioni e al riconoscimento internazionale. In caso di insuccesso su quei punti centrali, una o più componenti del governo potrebbero puntare l’indice proprio contro Abbas (Abu Mazen), incapace di ottenere il consenso di Stati Uniti ed Europa nonostante gli sforzi fatti dai palestinesi. Non bisogna sottovalutare la complessità del programma del nuovo esecutivo. Ieri, prima del voto di fiducia, Abbas si è schierato «contro ogni forma di violenza», mentre Haniyeh ha riaffermato «il diritto dei palestinesi a resistere in ogni forma», anche armata all’occupazione israeliana. Hamas ha rinunciato al controllo della politica estera, che lascia ad Abbas e all’OLP. Ha scelto però i ministeri sociali che permettono un lavoro in profondità nella società palestinese.

 

  • Kurdistan / Turchia. 17 marzo. Disponiamo di «sufficienti uomini per difenderci da noi stessi» e far fronte alla Turchia. Lo afferma il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) riferendosi ai possibili attacchi militari che Ankara sta minacciando. Il portavoce del PKK, Rustam Jawdat, ha dichiarato che i militanti «stanno allenandosi molto duramente». Ciononostante Jawdat ha espresso il desiderio del PKK di «risolvere il problema in maniera pacifica» e ha ribadito che se ci sono «garanzie che si riconosca l’identità nazionale kurda», non sarà necessario utilizzare armi.

 

  • India. 17 marzo. Contro il «Budda rosso» proseguono scioperi e scontri. I manifestanti contestano a Buddadheb Battacharjia, il più alto esponente del Partito comunista bengalese che da anni governa lo stato orientale indiano del West Bengala, di aver ceduto alle pressioni di grosse imprese a scapito dei contadini. Il governo locale sta infatti espropriando terreni agricoli per impiantare fabbriche e per giunta senza indennizzo. Si è cominciato a Siligur dove la Tata (fiammante socio della Fiat) sta per costruire una fabbrica, per finire a Nandigram dove sono in cantiere impianti chimici. 1600, finora, le persone arrestate, 14 i contadini uccisi dalla polizia. Solo nella capitale dello stato, Calcutta, il coprifuoco è stato rispettato; nelle altre zone dello stato si susseguono incidenti.

 

  • Euskal Herria. 18 marzo. Stallo negoziale, elezioni, violenza. Ne parla Joseba Alvarez, responsabile delle relazioni internazionali del movimento basco Batasuna, in Italia per partecipare a assemblee pubbliche e incontri con rappresentanti dei partiti della sinistra italiana, intervistato da Marco Santopadre su il Manifesto. Alla domanda se l’attentato dell’ETA a Madrid il 30 dicembre scorso abbia segnato la fine del processo di pace, Alvarez sostiene che «l’attentato, che disgraziatamente ha ucciso due lavoratori ecuadoriani, ha prodotto un terremoto politico e uno stallo nei negoziati che era già evidente. Dopo nove mesi dalla proclamazione della tregua permanente da parte dell’ETA, il governo non ha fatto nessun passo concreto, né per l’alleggerimento della repressione, né per il rimpatrio dei prigionieri politici le cui condizioni sono ulteriormente peggiorate. La dottrina Parot applicata ad esempio ad Inaki de Juana segna il ritorno nella legislazione spagnola del carcere a vita. Proprio mentre Zapatero ripete che dobbiamo fare “solo politica”. Nonostante l’attentato i colloqui tra le forze politiche basche e quelle spagnole continuano. Certo, il Partito socialista è in difficoltà, sottoposto com’è ad un tentativo di linciaggio da parte del Partido Popular, che agita la piazza e mobilita le gerarchie ecclesiastiche. Poi ci sono le associazioni delle vittime del terrorismo, contrarie a ogni forma di dialogo. Il processo negoziale non solo non è interrotto, ma crediamo che sia più necessario che mai accelerare i tempi».

 

  • Euskal Herria. 18 marzo. A maggio ci saranno le elezioni municipali e poi le legislative nel 2008. «Alla sinistra indipendentista deve essere permesso di parteciparvi, altrimenti le istituzioni che ne usciranno non rappresenteranno tutte le opinioni politiche presenti nella società e quindi non potranno gestire l’applicazione di un eventuale accordo politico. Zapatero ha ripetuto che se Batasuna vuole partecipare alle prossime elezioni deve “cessare di appoggiare la violenza”. Quando tre anni fa abbiamo presentato la nostra proposta di pace ci siamo assunti l’impegno di operare all’interno di uno scenario di pace. L’assenza di violenza ci permetterebbe di accumulare forze attorno al nostro progetto indipendentista e di sinistra. È già successo alla fine degli anni ‘90 quando, durante i 20 mesi di tregua dell’ETA, siamo diventati la seconda forza politica basca sfiorando il 20% dei consensi. Ma la destra sembra preferire gli attentati e la violenza politica al negoziato, perché in questo modo può continuare a strumentalizzare la situazione di tensione e mettere in difficoltà i socialisti in vista delle elezioni del 2008. Finora è mancato ai socialisti il coraggio politico di riformare la “Legge sui partiti” che sancisce la nostra esclusione dalla legalità. Zapatero ha ottenuto un ampio mandato parlamentare a trattare direttamente con l’ETA. Ma è anche vero che i principali organi giudiziari del paese sono controllati da esponenti indicati dalla destra che usano la loro posizione per boicottare i negoziati».

  • Euskal Herria. 18 marzo. Alvarez si sofferma quindi sul perché Zapatero dovrebbe negoziare con la sinistra indipendentista basca. «Intanto perché se il conflitto si avviasse a soluzione, il Partito Popolare perderebbe uno degli argomenti centrali del suo discorso politico. Poche settimane fa abbiamo presentato una proposta di riforma delle istituzioni basche creando un’unica comunità autonoma composta da tutte e quattro le province basche all’interno dello Stato spagnolo, con annesso riconoscimento del diritto di autodecisione e di collaborazione transfrontaliera con le istituzioni basche in terra francese. Ciò porterebbe ad un abbandono definitivo delle armi da parte dell’ETA e l’avvio di un solido scenario di pace all’interno del quale tutte le opzioni politiche, compresa la nostra che rivendica l’indipendenza e un’alternativa economica al neoliberismo, dovranno avere pari cittadinanza. Questa riforma rimuoverebbe la divisione territoriale forzosamente imposta ai baschi durante gli anni della “transizione” ma andrebbe anche incontro al progetto di una parte del PSOE – quella guidata da Zapatero– di riformare in senso federalista l’assetto statale spagnolo. Il modello di Stato sancito dalla Costituzione del 1978 è ormai obsoleto, e non lo affermiamo solo noi, ma anche i socialisti catalani e quelli baschi».

 

  • Kosovo / Russia. 18 marzo. Cambiare il mediatore dell’ONU. Mosca è per la prosecuzione dei negoziati sullo status del Kosovo, eventualmente sostituendo l’attuale mediatore ONU, Martti Ahtisaari, che lo scorso sabato ha dichiarato la fine di oltre un anno di infruttuosi colloqui serbo-albanesi aggiungendo che ora tocca al Consiglio di Sicurezza decidere se concedere l’indipendenza alla provincia serba. «Sono convinto che, tenuto conto del modo in cui sono state formulate le posizioni, è necessario continuare i negoziati», ha detto il ministro degli esteri russo Serghei Lavrov intervenendo al consiglio di politica internazionale di difesa. «E se Ahtisaari pensa di aver fatto tutto quello che poteva, allora quasi certamente si può trovare un’altra persona per lavorare su questo dossier», ha aggiunto. Insomma, non si impone niente a Belgrado e se si arriva subito al Consiglio di Sicurezza ci sarà il veto russo, quindi meglio trattare ancora, con un nuovo mediatore, visto che Ahtisaari è stato capace solo di proporre l’indipendenza del Kosovo.

 

  • Francia / Israele / Siria. 19 marzo. Chirac incoraggiò Israele ad attaccare la Siria. Il quotidiano israeliano Maariv ha scritto ieri che, durante l’aggressione israeliana al Libano la scorsa estate, il presidente francese, Jacques Chirac, incoraggiò Israele a rovesciare il governo siriano di Bacher Al Assad.

 

  • Palestina / Israele. 19 marzo. Come previsto. Il premier israeliano Ehud Olmert ha chiesto ai suoi ministri «di boicottare» il nuovo governo di unità nazionale palestinese, varato sabato da Hamas e Fatah. Con 19 voti a favore e due astensioni –i laburisti Yuli Tamir (istruzione) e Ghaleb Majadleh (cultura e sport)– i ministri hanno approvato la proposta del capo del governo. «È un governo di Hamas in maschera» ha esclamato uno dei ministri. Olmert ha precisato che Israele continuerà a mantenere contatti con il presidente dell’ANP, Abbas (il quale appoggia il nuovo esecutivo palestinese), con il quale parlerà solo di «questioni umanitarie». Poi si è rivolto a USA, UE e Russia affinché appoggino la linea «di boicottaggio» adottata da Israele. L’appello è stato accolto dall’Amministrazione Bush. «Rifiutiamo di discutere con questo governo», ha detto ieri il portavoce della Casa Bianca, Stephen Hadley in una dichiarazione alla CNN, «fino a quando non rispetti i principi» fissati dal cosiddetto Quartetto (Stati Uniti, ONU, UE e Russia). In primis il riconoscimento di Israele, al quale sabato il premier Ismail Hanieh non aveva fatto riferimento, mentre aveva evocato il diritto dei palestinesi alla resistenza. Affermazione quest’ultima giudicata «piuttosto sconcertante» da Hadley.

 

  • Palestina. 19 marzo. Abu Abbas ha deciso di riattivare il Consiglio di Sicurezza Nazionale e ha nominato consigliere in materia l’ex ministro Mohamed Dahlan, uomo forte di al-Fatah a Gaza e fortemente gradito da USA e Israele.

 

  • Iraq. 20 marzo. Il flusso degli iracheni (quattro milioni) in fuga è un «disastro umanitario» che viene «vilmente negato» dalla “comunità internazionale”. La denuncia è stata lanciata oggi da Peter Kessler, portavoce dell’Unhcr, l’Agenzia ONU per i rifugiati che si trova a fronteggiare praticamente da sola la disperazione di una valanga di persone, due milioni all’estero, altrettante all’interno dell’Iraq, sradicate e bisognose di tutto. Ad essere travolti dal flusso verso l’esterno, in quanto paesi confinanti, sono soprattutto la Siria, dove attualmente si trovano 1,2 milioni di iracheni, e la Giordania, che ne ospita 800mila. Un bel contrasto con l’amministrazione USA, responsabile della catastrofe, che nel 2006 ha accettato di accogliere negi Stati Uniti ben 200 iracheni e solo di recente ha annunciato che ne farà entrare altri 7000.

 

  • Euskal Herria. 21 marzo. Non si presenta alla Corte; arrestato. Otegi, portavoce dell’organizzazione basca illegalizzata Batasuna, è stato arrestato oggi dalla Guardia Civil nella sua casa di Elgoibar, nei Paesi Baschi, per non essersi presentato a Madrid al processo che lo vede imputato per «apologia del terrorismo». Otegi ha addotto a ragione della sua assenza la neve, che lo avrebbe bloccato. Il giudice dell’Audiencia Nacional, Fernando Bermudez, ha inviato la Guardia Civil ad arrestarlo. Otegi viene giudicato per aver partecipato il 30 luglio 2001 al funerale della militante dell’ETA, Olaia Castresana, morta cinque giorni prima mentre maneggiava 3 chili di esplosivo ad Alicante. Rischia una pena di 15 mesi, ma non ancora il carcere. Otegi è infatti in attesa della sentenza del Tribunale Supremo sugli altri 15 mesi di condanna per la partecipazione al 25° anniversario della morte di un altro etarra, José Miguel Beñarán. Oltre a ciò, altre tre cause per «apologia del terrorismo» ed una quarta per appartenenza a «gruppo terrorista», in relazione all’inchiesta sui legami tra Batasuna ed ETA. Neve o non neve, l’arresto rischia di portare ad un clima incandescente in vista del voto, radicalizzando ancor più la situazione. Il 27 maggio ci sono le elezioni locali a cui Batasuna sta cercando di partecipare. È quasi impossibile che la formazione possa essere legalizzata in tempo per il voto (per farlo dovrebbe condannare ETA); più probabile il ricorso a liste civiche.

 

  • Israele. 21 marzo. Israele vieta agli arabi i ricongiungimenti familiari. Dopo i palestinesi, anche per iraniani, siriani, libanesi e iracheni sarà impossibile ottenere la cittadinanza sposando un arabo-israeliano. Con 35 voti favorevoli e 11 contrari la Knesset (parlamento) ha stasera esteso fino al luglio 2008 la controversa legge sulla cittadinanza (la «Nationality and entry into Israel law, temporary order») e, soprattutto, approvato un paio d’emendamenti che ne allargano gli effetti –finora limitati ai palestinesi dei Territori occupati– ai cittadini iraniani, siriani, libanesi e iracheni. Secondo Amnon Vidan, direttore della sezione israeliana di Amnesty International, «la norma mira ad allargare la maggioranza ebraica dello Stato e mettere in difficoltà la popolazione araba: se degli arabi non possono stabilirsi in Israele, ci saranno meno arabi nello Stato». Per Sawsan Zaher, avvocato di Adalah, l’organizzazione che difende la minoranza araba in Israele, che ha seguito l’iter della legge alla Knesset, quella prorogata e modificata è «una legge razzista, perché discrimina gli arabo-israeliani sulla base della loro etnia». «Siamo cittadini di seconda classe», denuncia il legale. «Non possiamo scegliere a chi legarci, mentre i cittadini ebrei sono liberi di farlo». È molto improbabile che la norma –a meno che non intervenga una decisione in tal senso dettata dalla politica– possa essere cancellata. La legge infatti, il 14 maggio scorso, ottenne il via libera definitivo grazie a una sentenza dell’Alta Corte (sei voti a favore, cinque contro) che respinse il ricorso di Adalah, di famiglie colpite dal provvedimento e parlamentari che ne chiedevano la cancellazione. Secondo Human Rights Watch il giudizio della Corte suprema «colpisce il diritto di migliaia d’israeliani a vivere con le proprie famiglie ed è stata approvata una legge che colpisce ingiustamente i cittadini israeliani di origine palestinese». La minoranza araba d’Israele, un milione e 300mila persone, costituisce circa il 20% della popolazione del paese.

 

  • USA / Colombia. 21 marzo. La Chiquita ammette di aver pagato paramilitari per i suoi affari nel paese. L’impresa Chiquita Brands International, produttrice delle famose banane, ha ammesso di aver versato quasi due milioni di dollari tra il 1997 e il 2004 (anno in cui vendette la sua filiale colombiana) in cambio della protezione dei paramilitari. Secondo le associazioni per i diritti umani, che da tempo accusano le banane Chiquita di essere «macchiate di sangue», la compagnia non avrebbe pagato i paramilitari solo per proteggere i suoi impianti, ma per minacciare e assassinare i dirigenti sindacali che reclamavano i diritti dei lavoratori. I porti controllati dalla Chiquita sarebbero stati usati per contrabbandare nel paese armi destinate ai paramilitari delle AUC (Autodefensas Unidas de Colombia).

 

  • Ecuador. 21 marzo. Giurano i deputati supplenti. Oggi 28 deputati supplenti, che sostituiscono una parte dei parlamentari destituiti dal Tribunale Supremo Elettorale, hanno giurato tra severe misure di sicurezza. Viene così garantito il quorum per l’attività parlamentare e l’esecutivo esce rafforzato dalla crisi: i deputati supplenti hanno infatti dato vita a un nuovo gruppo, Dignidad Nacional, che gli osservatori ritengono potrebbe avvicinarsi alle posizioni del governo. La crisi era iniziata quando il Tribunale Supremo Elettorale aveva deciso di appoggiare la consulta popolare per la Costituente. Attraverso questo referendum Correa intende avere il via libera dagli elettori per promuovere l’Assemblea Costituente, come promesso nella sua campagna elettorale. I deputati dell’opposizione avevano però respinto la sentenza, votando la destituzione del presidente del Tribunale, Jorge Acosta. Come contromossa, il Tribunale aveva destituito 57 parlamentari (quasi tutti i rappresentanti del Partido Renovador Institucional Nacional del miliardario Alvaro Noboa e di Sociedad Patriótica dell’ex presidente Gutiérrez). Il conflitto si era inasprito con il tentativo dei 57 deputati di rientrare in Parlamento (tentativo fallito per la presenza delle polizia e di numerosi manifestanti filogovernativi), e la decisione dell’esecutivo di ricorrere ai supplenti. Correa non può contare su una rappresentanza parlamentare (non ha presentato proprie liste), ma ha l’appoggio della maggioranza della popolazione, il cui rifiuto della corrotta classe politica si è espresso in questi anni in continue insurrezioni.

 

  • Italia. 22 marzo. Nel ddl di Prodi tre milioni e 498 mila euro per i “contractors”. Ben sette miliardi del vecchio conio verranno spesi dal governo italiano per stipulare, in Iraq, accordi con i contractors, guardie del corpo facenti capo a società private. È uno dei dettagli del decreto di rifinanziamento delle missioni militari all’estero (pagina 33) che dovrà essere approvato dal Senato nei prossimi giorni. Uomini armati di una polizia privata avranno il compito di difendere il personale italiano composto da tecnici ed esperti, presenti a Nassiriya. «Considerato che il contingente militare italiano, che garantiva la sicurezza e l’incolumità del personale civile presente presso la USR (Unità di Sostegno alla Ricostruzione, istituita nel primo semestre 2006 nella regione irachena di Nassiriya, ndr), non sarà più presente in Iraq nel corso del 2007, il governo italiano ha la necessità di stipulare un contratto con una società di sicurezza che già sia operante in Iraq con personale locale. Ciò al fine di garantire l’incolumità dei civili presenti a Nassiriya e di consentire loro di uscire dal perimetro della base militare internazionale per monitorare i progetti ed incontrare le personalità locali in un contesto di massima sicurezza». Così il testo. Aegis Defence Services è l’agenzia britannica privata scelta dal governo Prodi, anche se il contratto con la Farnesina è ancora in via di definizione. Si tratta di un colosso presente in Iraq dal 2004, dopo aver stipulato con il ministero della Difesa statunitense un contratto da 293 milioni di dollari. Il suo fondatore, Tim Spider, è stato coinvolto in abusi contro i diritti umani e in violazioni internazionali.

  • Italia. 22 marzo. «Quali sono le regole d’ingaggio di questi eserciti privati? Chi li controlla? E quale bisogno c’è di avere fisicamente dei tecnici italiani sul posto?». Se lo chiede Fabio Alberti, presidente dell’Organizzazione Non Governativa “Un Ponte per”, presente in Iraq da molti anni. Alberti si dice meravigliato che in Iraq «ci sia ancora una presenza armata italiana a difesa dei Provincial Reconstruction Team che sono la parte civile dell’occupazione: se noi ne facessimo parte saremmo sotto il comando USA. Peraltro», spiega Alberti, «a dicembre il nostro personale civile a Nassiriya girava scortato dai marines». «Per assistere gli iracheni alla ricostruzione», conclude Alberti, «basta assisterli economicamente, nella progettazione e in tanti altri modi: l’Iraq è pieno di tecnici bravi».

 

  • Somalia. 22 marzo. «La Somalia è stata invasa e le truppe etiopi sono in Somalia con la forza. Le persone che stanno combattendo a Mogadiscio si stanno difendendo e nessuno può privarli di questo diritto». Così dice, in un’intervista ieri sera al servizio in lingua somala della BBC, Sheikh Hassan Dahir Aweys, il capo delle Corti Islamiche che da giugno a dicembre scorso hanno governato Mogadiscio e gran parte del sud del paese e che alla fine del 2006 sono stati cacciati dal paese dalle forze fedeli al governo di transizione somalo (Tfg) e dai loro alleati etiopi e statunitensi. «Se tutte le truppe straniere lasceranno la Somalia, potremo risolvere le differenze esistenti. E questo lo sanno tutti», ha aggiunto Aweys, che ha detto di parlare da una località sconosciuta della Somalia. L’intervista è stata diffusa al termine di una delle più sanguinose giornate della recente storia somala, con Mogadiscio che è stata per l’intera giornata di ieri teatro dei più violenti combattimenti da quando il governo di transizione si è installato in città. «I principali ospedali di Mogadiscio ieri hanno contato circa 300 feriti, alcuni sono stati curati e dimessi, altri ricoverati. Questo è un indice abbastanza chiaro dell’intensità degli scontri», ha detto a Misna una fonte del Comitato internazionale della Croce Rossa. Su una sua eventuale partecipazione alla Conferenza di riconciliazione somala che dovrebbe tenersi a metà aprile a Mogadiscio, Aweys ha detto di non avere alcuna intenzione di parteciparvi. «Yusuf è parte dell’Etiopia» ha detto riferendosi al presidente del governo di transizione «e gli etiopi stanno combattendo per lui. Prima volevamo avere un dialogo con lui, ma ormai si è schierato con gli etiopi», ha aggiunto Aweys, veterano della guerra del 1977 tra Somalia ed Etiopia.

 

  • Somalia. 22 marzo. Al Jazeera cessa ogni trasmissione dalla Somalia. A disporlo le autorità di Mogadiscio, il governo messo su da USA ed Etiopia. Una lettera ordina alla redazione di Al Jazeera a Mogadiscio di cessare ogni attività, senza spiegare le ragioni della misura. Wadah Khanfar, direttore generale di Al Jazeera, ha espresso il suo rammarico e ribadito il diritto all’informazione.

 

  • Italia. 23 marzo. Sì a Predator e Mangusta. Il decreto di rifinanziamento della missione in Afghanistan prevede già che per Kabul nei prossimi mesi parta un aereo da trasporto Hercules C130, tre elicotteri Ab 129 Mangusta e due Predator, gli aerei da ricognizione senza pilota. Nell’ultimo rinnovo di sei mesi fa questi mezzi non c’erano. Per la prima volta il testo, che è annuale e non più semestrale, non riporta l’elenco dei mezzi impiegati lasciando intendere che questi verranno «modulati» volta per volta. In tutto l’Italia impegna, allo stato, nella missione ISAF, circa 1.900 uomini. «Si sente dire che il ministro D’Alema sarebbe pronto ad inviare più armi in Afghanistan», dice Fosco Giannini, capogruppo di Rifondazione in commissione Difesa a palazzo Madama, «se fosse vero sarebbe particolarmente grave perché significherebbe andare dietro alle richieste della NATO e della destra italiana». Scontato immaginare come andrà a finire...

 

  • Israele. 23 marzo. Ilan Pappe lascia Israele. «Sono trattato come un appestato. Non riesco più a lavorare con serenità, sono continuamente preso di mira. È impossibile lavorare per chi come me è contrario al sionismo». Così lo storico ebreo israeliano Ilan Pappe, professore dell’Università di Haifa, uno dei più celebri tra i «Nuovi Storici» israeliani, denuncia il clima di ostilità insostenibile che lo ha indotto a decidere di fuggire da Israele e trasferirsi in Gran Bretagna. E aggiunge: «dall’estero continuerò la mia battaglia affinché il conflitto israelo-palestinese venga riportato nel suo vero contesto storico, lontano dal mito e dalle false verità che lo hanno segnato in tutti questi decenni». Docente presso il Dipartimento di scienze politiche dell’Università di Haifa e rappresentante dell’Istituto Emil Touma per gli studi palestinesi, Ilan Pappe ha scritto numerosi libri e collabora con riviste locali e internazionali.

  • Israele. 23 marzo. «Sono attaccato di continuo perché le conclusioni dei miei studi non sono coerenti con la versione ufficiale sul contesto che portò alla nascita di Israele e pongono interrogativi sulle politiche (dello Stato ebraico, ndr) nei riguardi di palestinesi e arabi. È la mia critica del sionismo, che fa saltare i nervi a coloro che mi attaccano». Così, a il Manifesto di oggi, Ilan Pappe spiega il perché degli attacchi che subisce in Israele. «Il quadro interno israeliano è molto peggiorato in questi ultimi anni: un antisionista o un non-sionista deve fare i conti con spazi di espressione sempre più ristretti. Allo stesso tempo il paese va indietro, le discriminazioni e gli abusi contro la minoranza araba si intensificano, certe forze politiche parlano apertamente di espulsione degli arabi israeliani, la politica di occupazione (di Cisgiordania e Gaza, ndr) continua, così come la colonizzazione ebraica delle terre palestinesi. In tutti questi anni penso di aver svolto, accanto al mio lavoro accademico, tante attività finalizzate a realizzare una democrazia vera, uno Stato diverso, per ebrei e arabi su di un piano di piena parità ed uguaglianza. Purtroppo non sono servite a molto e allora credo il mio impegno debba ora continuare all’estero».

  • Israele. 23 marzo. Sul boicottaggio accademico di Haifa, Bar Ilan (Tel Aviv) e le altre università israeliane che svolgono corsi nelle colonie ebraiche nei Territori occupati, boicottaggio che sostiene, Pappe spiega: «Il boicottaggio è una misura che funzionò con il Sudafrica dell’apartheid e quindi può avere effetti importanti anche con altri paesi, tra cui Israele. Per questo motivo lo sostengo. Due anni fa però non fui io a proporlo, come è stato riferito, perché già dal 2002 il mondo accademico britannico intendeva attuarlo contro Israele in risposta alla distruzione di metà del campo profughi di Jenin e alle discriminazioni alle quali sono soggetti gli studenti dell’Università di Haifa».

  • Israele. 23 marzo. Sulla pulizia etnica in Palestina, tema del suo ultimo libro ritornato di attualità in queste settimane dopo il secco «no» ribadito dal governo Olmert al ritorno alle loro case e villaggi dei profughi palestinesi della guerra arabo-israeliana del 1948 nel quadro di un accordo di pace, Pappe traccia una conclusione inequivocabile. «Questo libro è il risultato di ciò che avevo gradualmente tracciato in quelli precedenti, ovvero che in Palestina, prima, durante e dopo il 1948, è stato attuato un piano ben preciso volto a pulire etnicamente il territorio dove è sorto lo Stato di Israele. Documenti e testimonianze, a quasi sessanta anni di distanza da quei giorni, lo dicono con estrema chiarezza. Israele in ogni caso non ammetterà mai le sue responsabilità nella questione dei profughi, il governo attuale e quelli futuri faranno il possibile per lasciare nei campi per rifugiati tutte quelle persone (800mila nel 1948, oggi sono circa 4 milioni, ndr) che reclamano i loro diritti. Non credo però che i Paesi arabi saranno disposti ad accogliere la richiesta di Israele di dimenticare l’esistenza dei profughi e di modificare l’iniziativa di pace araba del 2002». Questa pulizia etnica prosegue ancora oggi, prosegue. «Ci sono alcune aree dove procede una politica di pulizia etnica ad avanzamento lento. Nell’area della “grande Gerusalemme”, ad esempio. La costruzione del muro, l’espansione delle colonie, la confisca dei terreni, recinzioni e restrizioni ai movimenti delle persone, stanno costringendo migliaia di palestinesi ad andare via, ad abbandonare le loro case. Lo stesso accade tra Gerusalemme e Ramallah e tra Gerusalemme e Betlemme, e lungo la strada che porta fino a Gerico. Almeno 40mila palestinesi hanno dovuto fare i bagagli e trasferirsi più all’interno in Cisgiordania. Senza parlare della città vecchia di Hebron, dove l’aggressività dei coloni ebrei e dei soldati ha trasformato in un quartiere fantasma la parte più caratteristica di quella città. Vedete, la pulizia etnica si attua in varie forme. Sessanta anni fa si usavano le armi per costringere le persone a scappare, ora, a causa del controllo dei media e delle istituzioni internazionali, si usano altri metodi. Rendere la vita impossibile, restringere le possibilità economiche, ridurre le capacità di sviluppo. Queste nuove strategie stanno funzionando bene in Palestina, anche perché si uniscono alla linea del rifiuto di un negoziato vero con i palestinesi».

 

  • Israele / Libano. 23 marzo. La guerra contro il Libano è stato un errore da parte di Israele. Per il viceprimo ministro israeliano, Shimon Peres, la decisione di invadere il Libano l’estate scorsa è stata gestita male da Israele («l’esercito era impreparato») ed Hezbollah ha sviluppato un lavoro migliore in termini di copertura mediatica. Queste dichiarazioni Peres le ha rese a novembre alla Commissione Winograd che conduce l’inchiesta sul conflitto, e sono state rese pubbliche ieri. La trascrizione, di 15 pagine, è stata però diffusa con frammenti censurati per «ragioni di sicurezza». Peretz dichiara in un passaggio che «l’errore più grande è stata la guerra in se stessa». Israele ora è «considerato più debole» e ha perso «potere di dissuasione verso gli arabi». Peres, che respinge la tesi che si possa parlare di «guerra fallita», ha riconosciuto davanti alla stessa commissione che la decisione di avviare la guerra non era stata presa in risposta al sequestro dei due soldati israeliani sconfinati in territorio libanese. Lo stesso capo del governo isareliano, Ehud Olmert, ha ammesso che un piano d’invasione del Libano era stato predisposto quattro mesi prima; il sequestro fu solo il pretesto per agire. 

 

  • Italia / USA. 24 marzo. A Vicenza, corteo “No Dal Molin” scoperchia tombini fibre ottiche e avverte: la nuova base militare USA non s’ha da fare. Il Presidio Permanente “No Dal Molin” informa che «i manifestanti sono partiti dal Presidio Permanente contro la nuova base ed hanno percorso tutta via Sant’Antonino, parallela alle recinzioni dell’aeroporto che gli statunitensi vorrebbero trasformare in base di guerra. Giunti nella zona in cui sono stati posati –senza alcuna autorizzazione– i cavidotti i manifestanti si sono fermati ed alcuni operai dell’“altro comune” hanno eseguito i lavori di ripristino di Via Sant’Antonino, aprendo il tombino, tagliando le tubature e colando cemento a presa rapida nella cavità. Intorno agli operai famiglie, bambini e anziani, studenti e lavoratori cantavano e inscenavano i lavori in corso». Questo atto di ripristino della situazione preesistente al cantiere non sarà occasionale. Infatti, prosegue il comunicato: «Chi credeva che dopo il 17 febbraio la vicenda Dal Molin fosse chiusa deve ricredersi. L’iniziativa di oggi lancia un segnale chiaro: i cittadini di Vicenza sono pronti a bloccare pacificamente ma con determinazione i cantieri dell’opera militare. La chiusura dei cavidotti per fibre ottiche, posati alcune settimane fa per garantire le comunicazioni tra installazioni militari, ne è la miglior dimostrazione: la nuova base al Dal Molin non si farà mai».

 

  • Gran Bretagna / Iran. 24 marzo. Quindici marines britannici catturati dalle forze iraniane alla foce dello Shatt-el Arab, il corso d’acqua che segna il confine meridionale tra Iraq e Iran. In acque territoriali, dicono da Teheran, in servizio di pattuglia nel Golfo replica il Ministero della Difesa britannico. C’è chi ritiene che Teheran intenda giocare il rilascio dei quindici marinai di Sua Maestà per forzare quello del gruppo di funzionari iraniani arrestati in Iraq nel corso degli ultimi mesi. Mancano all’appello delle autorità iraniane addetti diplomatici come il secondo segretario dell’ambasciata di Bagdad, funzionari di raccordo tra Teheran e i partiti sciiti alleati, e cinque presunti membri delle Brigate al-Qods, il corpo d’elite dei Pasdaran. Sinora sono rimaste inefficaci le generiche promesse del governo iracheno per il rilascio in tempi brevi dei detenuti. L’Iran, poi, accusa da tempo la Gran Bretagna di fomentare disordini etnici in Khuzestan, la provincia meridionale che confina con Bassora (dove vive una minoranza iraniana di lingua araba).

 

  • Afghanistan. 24 marzo. Truppe afghane e della NATO hanno attaccato gli studenti coranici con due operazioni, entrambe nei pressi di Babaji, lungo il fiume Helmand, a nord di Lashkar Gah, capoluogo della provincia di Helmand (sud del Paese). Dopo l’espansione della “missione” alle province meridionali, stanno provando a sottrarle al controllo dei taliban. Secondo un comunicato del contingente multinazionale ISAF (a guida NATO), le truppe NATO si sarebbero limitate in quest’ultima occasione a fornire supporto dalle retrovie e assistenza sanitaria ai militari afghani feriti. Se la notizia verrà confermata, potrebbe trattarsi di un’ammissione di difficoltà: mandare avanti l’esercito locale (come i tagiki dell’alleanza del nord, usati da battistrada per l’invasione del paese nell’ottobre 2001) per limitare le perdite contro un nemico che si fa sempre più aggressivo e letale.

 

  • USA. 24 marzo. Addio alle armi. Disertori a centinaia. Cambiano le cifre ufficiali sulla diserzione dei militari negli Stati Uniti, secondo quanto scrive il New York Times. Il Pentagono ha ricalcolato il numero complessivo dei soldati «awol» (absent without leave) per il 2006 portandolo a quota 3.196, pari a 853 soldati in più rispetto a quello che il ministero della difesa aveva fino ad ora comunicato. Gli errori di calcolo, ha sostenuto una portavoce del ministero della difesa, deriva da alcune diversità di valutazione tra diversi uffici della difesa su quando un militare sia da considerare effettivamente un disertore. La revisione riguarda gli anni dal 2000 ad oggi. Per il 2005, ad esempio, il numero dei disertori è salito da 2.011 a 2.543. L’organico complessivo delle forze armate USA alla fine del 2006 si aggirava intorno ai 500mila militari in servizio attivo.

 

  • Palestina. 25 marzo. Polemiche in Hamas sul primo governo palestinese di unità nazionale varato la settimana scorsa. Una parte della dirigenza attacca il premier Ismail Haniyeh e Khaled Mashaal (capo dell’ufficio politico in esilio a Damasco) per l’intesa con Abbas (Abu Mazen): «Il movimento sta abbandonando i suoi principi come fece Fatah quando firmò gli accordi di Oslo con Israele e pagherà cara la scelta di governare con Fatah». Tra i principali oppositori, l’ex ministro degli interni Said Siam e il ministro degli esteri Mahmud Zahar che hanno messo in chiaro che si opporranno allo smantellamento della “Forza Esecutiva”, la milizia costituita lo scorso anno a Gaza per contrastare le forze di sicurezza fedeli ad Abbas.

 

  • Palestina. 25 marzo. Mashaal e Haniyeh respingono le accuse. La decisione di accettare le intese della Mecca –dicono–è il risultato della democrazia che regola le decisioni di Hamas, dalla base fino al vertice. Per quanto a Gaza siano in molti a confermare questa versione, ben poco si sa del sistema decisionale di Hamas. Gli islamisti palestinesi si limitano a dire che le decisioni strategiche vengono prese all’unanimità dalla leadership in esilio e quella in Cisgiordania e Gaza. Tutto il resto è tenuto segreto, spiega l’ex ministro Atef Odwan, solo per ragioni di sicurezza, perché Israele potrebbe decapitare il movimento come avvenuto nel 2004, con l’uccisione del leader spirituale Ahmed Yassin e il suo braccio destro Abdel Aziz Rantisi. Odwan aggiunge che i militanti di Hamas eleggono periodicamente i loro dirigenti locali, in quattro «settori»: Gaza, Cisgiordania, carceri ed esilio. Gli eletti scelgono, sempre con un voto, i membri del Consiglio della Shura (paragonabile ad un Comitato centrale) che è chiamato ad avallare le decisioni prese dai leader nei Territori occupati, dal capo dell’Ufficio politico Mashaal e dal suo vice Musa Abu Marzuq.

  • Palestina. 25 marzo. Qualche spiegazione ulteriore sulla democrazia interna di Hamas viene da Yahya Musa, vice capogruppo di Hamas al Consiglio legislativo palestinese. «Ogni questione viene dibattuta dalla base e nelle discussioni è tenuta in considerazione l’opinione di ogni corrente. In ogni caso Hamas, pur essendo parte di un movimento islamico internazionale, ha la sua ideologia e la sua linea politica e deve tenere conto delle circostanze in cui agisce», ha detto Musa, evitando di fornire particolari sul processo elettorale interno, sulle località e le sedi dove i militanti e i dirigenti si riuniscono. «L’unanimità è l’obiettivo del dibattito interno ma se, per esempio, dalle carceri arriva una decisione contraria a quella degli altri tre settori, allora prevale la maggioranza». L’ex ministro Odwan, replicando indirettamente a Siyam e Zahar, afferma che l’accordo della Mecca è un classico esempio del processo decisionale interno: il Consiglio della Shura ha deciso i limiti minimi e massimi delle richieste di Hamas e i leader si sono tenuti dentro quella misura. L’esperto palestinese di islamismo, Ibrahim Abu Hija, sostiene però che le divisioni geografiche e le difficoltà causate dall’occupazione israeliana, ostacolano il dibattito in Hamas e spingono i leader ad essere più autonomi e, quindi, a prendere decisioni che, in qualche caso, non sono condivise pienamente dalla base.

 

  • Russia. 25 marzo. «Non si può tollerare che l’Europa venga suddivisa in blocchi contrapposti, che facciano la loro comparsa nuove linee di demarcazione e che vengano realizzati progetti unilaterali a scapito degli interessi e della sicurezza dei vicini». Queste le parole di Vladimir Putin in un articolo pubblicato oggi da una serie di mass-media europei e riportate dal sito Pravda.ru. Il presidente russo ha esortato l’Unione Europea a risolvere la questione dei sistemi missilistici USA in Europa oltre che a contrapporsi al “terrorismo” internazionale, alla non diffusione degli armamenti di distruzione di massa e al narcotraffico. «Solamente su una vera base collettiva e di fiducia sarà possibile trovare la soluzione a ogni questione, che si tratti della decisione della questione della difesa missilistica in Europa, della stabilizzazione dell’Afghanistan o la contrapposizione a un intero spettro di nuove minacce quali il terrorismo internazionale, la non diffusione degli armamenti di distruzione di massa, il narcotraffico, l’immigrazione clandestina e la povertà globale», ha aggiunto Putin.

 

  • USA / Iran. 25 marzo. L’ONU vota nuove sanzioni contro l’Iran, che non ha sospeso il suo programma di arricchimento dell’uranio (come chiedeva una precedente risoluzione del Consiglio). Il testo della risoluzione era stato messo a punto venerdì sera, dopo giorni di negoziati ed emendamenti dell’ultimo minuto: così la notizia non sta tanto nell’approvazione, ormai scontata, quanto nei numeri. Bastavano 9 voti favorevoli su 15, e ovviamente nessun veto; i 5 membri permanenti e in particolare Stati Uniti e Gran Bretagna hanno però lavorato per ottenere l’unanimità. Il Sudafrica aveva fatto notare che l’Iran non ha violato il Trattato di non proliferazione e ha il diritto di arricchire uranio per produrre combustibile nucleare. Poi aveva proposto vari emendamenti alla bozza di risoluzione già scritta dai 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia) più la Germania. Altri paesi membri non permanenti, come Indonesia e Qatar, chiedevano una dichiarazione per un «Medio oriente denuclearizzato»: cosa inaccettabile per Washington, visto il chiaro riferimento a Israele, potenza nucleare non dichiarata (la soluzione è stata un vago riferimento a «realizzare l’obiettivo di un Medio oriente libero da armi di distruzione di massa»).

  • USA / Iran. 25 marzo. La risoluzione approvata ieri sera estende le sanzioni già approvate il 23 dicembre scorso, che colpiscono il commercio di materiali relativi all’arricchimento dell’uranio o al programma di missili balistici. In particolare, estende il blocco dei beni ad altri 28 gruppi, aziende o persone considerate coinvolte in attività nucleari «delicate» o missilistiche (il Sudafrica ha solo ottenuto che ogni nome incluso fosse motivato). I più notevoli sono la Bank Sepah, banca iraniana che gli USA già da tempo boicottano, e alcune aziende e singoli comandanti delle Guardie della Rivoluzione (Sepah-e Pasdaran), il corpo militare parallelo che rappresenta una delle istituzioni più potenti nella geografia del potere in Iran. La risoluzione inoltre impone l’embargo sull’export di armi convenzionali iraniane, e chiede alle nazioni e istituzioni finanziarie internazionali di non aprire nuovi prestiti o programmi di assistenza finanziaria all’Iran (salvo quelli umanitari). Tutto questo nell’ambito del Capitolo 7, art. 41 della carta dell’ONU, che impone sanzioni ma esclude azioni militari. È presto per un bilancio preciso, ma è facile prevedere che queste sanzioni disincentiveranno nuovi investimenti e relazioni commerciali con l’Iran ben al di là delle attività strettamente legate al programma nucleare.

 

  • USA / Iran. 25 marzo. Il governo iraniano ha deciso di ridurre la cooperazione con l’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (AIEA), dopo l’approvazione, da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, di nuove sanzioni contro Teheran per il suo rifiuto di sospendere il processo di arricchimento dell’uranio. Lo ha annunciato stasera il portavoce governativo Gholamhossein Elham. Elham ha aggiunto che l’Iran potrà riconsiderare questa sua decisione solo se il dossier del suo programma nucleare ritornerà dal Consiglio di Sicurezza all’AIEA. Egli ha precisato che la riduzione della cooperazione con l’Agenzia dell’ONU per l’energia atomica riguarderà le cosiddette «intese accessorie» con essa. Un alto responsabile iraniano del settore nucleare ha precisato all’agenzia Reuters che tali intese, accettate da Teheran nel 2002, impongono di dichiarare in anticipo qualsiasi progetto relativo alla costruzione di impianti atomici

 

  • Messico. 25 marzo. EZLN inizia oggi un nuovo giro nel paese per incontrare le comunità indigene. Dopo diversi mesi di silenzio, come annunciato tre giorni fa dal subcomandante Marcos con un comunicato diffuso a San Cristóbal de las Casas, l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) ha avviato «la campagna internazionale di solidarietà con le comunità indigene zapatiste e in difesa dell’autonomia indigena». A differenza della precedente otra campaña, che si era posta l’obiettivo di costruire alleanze allargate ai settori progressisti, alle organizzazioni popolari e ai movimenti sociali, lo zapatismo sembra voler tornare alle sue radici storiche.

 

  • Messico. 25 marzo. Un’immediata mobilitazione «nel momento in cui la destra presenti al Congresso qualsiasi iniziativa per privatizzare Pemex», la compagnia petrolifera di Stato. L’ha proposta il leader del Prd ed ex candidato presidenziale Andrés Manuel López Obrador parlando oggi allo Zócalo di Città del Messico, durante la seconda Convención Nacional Democrática. Nel suo discorso alla folla che riempiva l’enorme piazza, López Obrador ha anche condannato la politic