Dialettica di un Periodo di Transizione dal Nulla al Niente (recensione)
di Claudio Ughetto - 16/07/2007
Victor Pelevin, Dialettica di un Periodo di Transizione dal Nulla al Niente, Mondadori, Milano 2007, euro 15,50.
Non avendo letto nient'altro di Pelevin, da molti considerato il miglior scrittore russo contemporaneo, mi sento un po' a disagio nell'affermare che quest'ultimo suo romanzo mi ha riconciliato con la narrativa non statunitense. Perché si può pensare quello che si vuole degli States, ed io non ne amo la politica imperialista, né molta della robaccia che ci inducono a consumare e neppure gli stili di vita che ci passano attraverso l'americanizzazione, tuttavia è proprio lì che la letteratura osa ancora sfidare se stessa, confrontandosi con il nuovo millennio, senza autocompiacimenti midcult, in continua tensione tra realtà e immaginario. Nelle loro abissali differenze, scrittori come Jonathan Lethem, David Foster Wallace, Steve Erickson, Matt Ruff, William T. Vollmann, Jonathan Safran Foer si sono succeduti a Pynchon e DeLillo continuando a ritenere il romanzo un atto creativo che coniuga forma e contenuti in modo autonomo. Testimoni e segugi del loro tempo, per dirla con Canetti. Nello stesso modo è impossibile non ammirare gli affreschi di Rick Moody, gli abissi di Donna Tartt o il talento epico di Cormac McCarthy.
In Italia è quasi impossibile ritrovare queste caratteristiche, gli scrittori che piacciono sembrano troppo preoccupati a “fare costume” come piace a D'Orrico, sfiorando spesso il provincialismo. In Europa l'unico autore che mi ha colpito per capacità di cogliere il proprio tempo è stato Michael Houllebecq, sebbene si tratti soprattutto di un romanziere di idee, senza particolari doti stilistiche. Difficile intuire se Pelevin abbia o no uno stile, e forse non è neppure importante saperlo: come un Bouvard et Pécuchet postmoderno, Dialettica di un Periodo di Transizione dal Nulla al Niente catalizza l'intero immaginario e i suoi modi narrativi, centrifuga la betise contemporanea, pura insensatezza funzionale al consumo, e ce la restituisce in forma romanzesca – dandole senso attraverso di essa. O forse egli ha più stile di quanto sembri, e il titolo stesso del romanzo è un chiaro rimando alle filosofie orientali che tanto predilige senza (Dio ci scampi!) proporsi come un Guru, mentre un occidentale come me rimane colpito dalle soluzioni prettamente romanzesche, non solo kafkiano/gogoliane come è stato detto, ma anche dalle digressioni filosofiche semiserie che ricordano il miglior Kundera, la continua fuga narrativa (croce e delizia che Javier Marias chiama “vagare nei testi”1) che rimanda ai romanzieri del 1700, .
Pelevin è tutto questo e se stesso, oppure semplicemente l'autore di un “thriller economico” ambientato in una Russia tanto reale quanto assurda. È la stessa Russia descritta da Anna Politkovskaja negli articoli per i quali è stata uccisa: nazione ingovernabile che si oppone alla disgregazione con la violenza, sopprimendo ogni richiesta d'autonomia e massacrando i dissidenti, terreno di scontro tra nazionalismi mortiferi e deliri euroasiatici, paradiso per multinazionali del gas, affaristi senza scrupoli, mafie che prosperano non si sa quanto grazie allo Stato (apparente) o alla sua assenza, una sorta di Far West in cui l'economia e il sopruso determinano la supremazia insieme alla Glock e al Kalashnikov, mentre il popolo ceceno rischia l'estinzione per mano di Putin e dei suoi sedicenti alfieri.
Impossibile raccontare la storia di Stepan Michajlov, banchiere ossessionato fin dall'adolescenza dal numero 34 che determinerà ogni suo successo, in barba alle presunte leggi dell'economia, e dal 43 che gli si oppone specularmente. Sarebbe come cercare di riassumere un romanzo di Milan Kundera, che ne L'immortalità ci invita a gustare la pagina scritta come si gusta una coscia di pollo durante un comodo pranzo. Grazie al talento di Pelevin quella che sembra la storia di un'ossessione diventa un percorso tragicomico (o umoristico) tra superstizioni, piccole e grandi perversioni sessuali, meschinità politiche, spettacoli teatrali di pessimo gusto e dubbie pratiche zen. Tutto è narrato com'è di un romanzo: nel completo relativismo, eppure la dimensione umoristica non ci sottrae la percezione di una nazione, e di un mondo (il nostro) in cui la follia va di pari passo con l'ossessione economica.
1 Javier Marias, Vagare con la bussola – ora in Un cuore così bianco, Einaudi 1999.