Il Mito, Eros e Psiche nell'analisi di Neumann
di Umberto Bianchi - 23/07/2007
Con Erich Neumann la psicologia analitica junghiana arriva al proprio grado di massima sintesi teorica. Accogliendo e recependo le primigenie intuizioni junghiane a proposito della funzione del mito e dell’archetipo, Neumann sviluppa in modo sicuramente più organico del proprio grande maestro e mentore, una vera e propria teoria sulla coscienza, le origini della quale trovano nello sviluppo della mitologia e della religiosità ellenico-mediterranea la metafora del proprio percorso ontogenetico. A capo di questo percorso il concetto, più volte ribadito dallo stesso autore nel corso della narrazione, su una diversa idea di quella “libido” che, inizialmente da Freud interpretata come elementare pulsione vitale, investita di una valenza unicamente sessuale, in base agli assunti junghiani, viene qui reinvestita di una più complessa funzione che fa della sessualità uno tra i tanti aspetti di quello spirito vitale, quell’ “elain vital” che di sé tutto permea ed informa. Dello sviluppo della coscienza Neumann fa un percorso che, come precedentemente accennato, essendo strettamente interrelato con la grandiosa vicenda della cosmogonia ellenica ne deve seguire pedissequamente le fasi a partire proprio da quell’iniziale fase di indistinzione che, nel primordiale simbolo dell’Uroboros o serpente avvolto su sé stesso, trova la propria massima espressione mitica. Qui tutto è immerso in uno stadio di amniotica beatitudine; il mare dell’indistinto tutto ricopre e comprende: i principi di opposizione che animano il mondo sono qui contemperati e composti in una realtà che nel Rebis androgino trova una delle proprie massime espressioni. Cielo e terra, uomo e donna, piacere e dolore, ira e calma, qui si assommano e convivono in quella forma ovoidale
da Platone e da tante altre fonti decantata quale forma ideale dell’androgine primordiale. Quello stesso rotondo ritorna nella forma dell’Uroboros o “autogenerante”, l’antico drago cosmico egizio ritratto nell’atto di girare attorno a sé stesso nell’atto di mordersi la coda, ribadendo in tal modo la propria natura di essere che raccoglie in sé tutte le complementarietà. Egli divora sé stesso, feconda sé stesso, quale uomo e quale donna è anche attivo e passivo al contempo, assumendo in contemporaneo la posizione di “sopra” e di “sotto”, di “cielo” e di “terra”. Da Nippur a Babilonia, dalla Fenicia alle più tarde simbologie ellenistiche e gnostiche, dall’alchimia sino ad arrivare alla cultura dei nativi nord americani Navajo, l’Uroboros è lì a rammentarci lo stato di originaria congiunzione ed indistinzione che caratterizza l’intero essere prima dell’atto creativo.
Tale rotonda pefezione ci rammenta lo stato di autosufficenza ed appagamento a cui tale stadio ci rimanda. L’ “Union mistique” si alimenta di sé stessa, autointroiettando ed autogenerando al medesimo tempo la propria sostanza. E’ la fase caratterizzata da una sessualità marcatamente onanistica, nella quale il divino autoemana da sé come ben rappresentato dalla vicenda egizia dei due fratelli divini Shu e Tefnut generati con un atto
di questo tipo da Atum, divinità primordiale del complesso pantheon egizio.
Il graduale e faticoso emergere della coscienza dallo stadio di primaria indistinzione è rappresentato dal rapporto tra un “io” appena abbozzato e la rappresentazione terrena del grande contenitore uroborico primordiale, costituito dall’immagine mitica della Grande Madre. Qui ad esser rappresentato è l’elemento femminino nella propria originaria valenza di simbolo di fecondità che, nel ruolo di inesauribile cornucopia garantisce il continuo rinnovarsi e manifestarsi della vita in tutte le sue molteplici espressioni. La Grande Madre è l’ipostasi di quella Madre Terra o Gea che regola e presiede allo stagionale alternarsi di tutte le primizie vegetali e animali; Dea che presiede alle attività agricole in genere, ha nel matriarcato la sua più coerente rappresentazione dal punto di vista degli ordinamenti umani, di cui rappresenta a detta dell’autore e di Bachofen (vedi “Il matriarcato”) l’ordinamento primigenio. Dispensatrice di protezione e primaria fonte di sostentamento per un io fanciullo appena fuoruscito dall’ovattata dimensione uroborica, essa è anche Madre crudele e terrifica; quale elemento da cui tutto incessantemente promana e ritorna, essa rappresenta la crudele necessità di un ordine naturale che, nel suo continuo rinnovarsi deve ciclicamente sacrificare le proprie primizie al fine di garantire la prosecuzione del ciclo della vita. A detta di Neumann l’area geografica in cui maggiormente si concentra tale fenomenologia spirituale è quella euro-mediterranea. Libia, Egitto, Creta, la Grecia micenea, la penisola anatolica, il Medio Oriente siriaco e fenicio, sono le aree maggiormente esaminate dalla ricerca di Neumann. Nei miti di quelle aree si può riscontrare proprio quanto poc’anzi detto: nell’immagine archetipica della grande Madre inizialmente protettrice tenera e affettuosa, con il graduale affermarsi dell’io, va via via comparendo una polarità di incestuosa sessualità accompagnata da una torva crudeltà. Lo Zeus fanciullo di Creta nasce e muore sacrificato ad ogni rinnovellarsi di stagione. Lo stesso fenomeno va ripetendosi per Orus, figlio di Osiride, per Giacinto, Erictonio, Dioniso, Melicerte, Attis ed Adone. Tutti questi giovani virgulti, da un’iniziale posizione di autocompiacimento dovuto alla scoperta del proprio stadio adolescenziale, o addirittura di quello precedente di infante, sono tutti accomunati dalla medesima sorte: quella di una morte rituale, spesso seguita dallo smembramento, grazie a cui l’intera natura beneficerà, rinascendo la stagione seguente. Molto spesso l’adolescente prima della morte, subisce un destino di evirazione, simboleggiante la mutilazione che alberi, messi e vegetazione in genere, subiscono con il periodico alternarsi di stagione. Alcune antiche figure di sacerdoti dell’area medio orientale ed ellenica rifacendosi a queste figure mitiche, procedevano alla propria castrazione, come nel caso degli adepti al culto di Attis o dei sacerdoti Galli. Molto spesso a tali riti si affiancava la prostituzione sacra esercitata dai “qedeshim” di sesso sia maschile che femminile.
Qui la Grande Madre presiede e domina a quella natura le cui forze elementari travolgono e distruggono un individuo ancora troppo debole e poco centrato su di sé. La genealogia di Cadmo, il mitico fondatore di Tebe è, a tale scopo, esemplificativa. Le sue quattro figlie e la loro relativa progenie saranno tutte vittime di una natura le cui forze sfrenate fanno capo alla Grande Madre. Così Semele, madre di Dioniso, ucciso e smembrato dai Titani, Ino, madre di Melicerte, assieme a lei precipitato in mare, Agave, madre di Penteo, a sua volta squartato dalla madre in un accesso di follia orgiastica, Autonoe, madre del cacciatore Atteone morto atrocemente per aver visto Artemide (dea della caccia e della natura), condividono tutte uno stesso destino. Arriva però il momento in cui l’io riesce a conseguire una graduale affermazione su quelle forze dell’indistinto rappresentate dalla natura, che cercano in ogni modo di assorbirlo. E’ il momento in cui la coscienza inizia a separare cielo e terra, il mondo non è più solo l’indistinta e confusa rappresentazione di una natura primordiale, madre e paredra, protettrice ed omicida al tempo stesso. Ad affermarsi è ora un ordine che ruota attorno all’individuo, ora indomito protagonista di una vicenda che lo vedrà al centro di un’epica lotta con i propri arcaici e soffocanti genitori, ora assurti al ruolo di soffocanti patrigni.
La lotta di Zeus contro Crono, le lotte di Jahvè, le fatiche di Eracle, le vicende di Teseo, Gilgames, Romolo, i percorsi interiori di Zoroastro, Buddha e Mosè, sono tutte altresì accomunate dalla lotta dell’io per la propria affermazione e liberazione. Inizialmente tale lotta avrà come protagonista un’individualità, la cui duplice valenza umana e divina sarà in grado di sostenere una lotta altrimenti impari. Castore e Polluce, i Dioscuri, di Romolo e Remo, Gilgames ed Enkidu, coppie di gemelli ed amici, sono lì a ricordarci una tendenza tutta inedita all’interno di questo percorso: quella alla graduale sostituzione del femminile predominante con l’elemento maschile che va oramai assurgendo al ruolo di sempre più incontrastato dominatore e creatore del mondo. Le vicende dei fratelli-gemelli, con l’uccisione di uno dei due protagonisti, vedono l’affermazione di quella parte dell’io maggiormente legata ad un divino sempre più maschile, come nel caso di Romolo figlio di Giove.
Allo stesso modo Zeus detronizzando Crono, combattendo i Titani, afferma un nuovo ordine del divino mirante a guardare verso il cielo e non più verso la dimensione ctonia, oramai relegata ad un ruolo subordinato. Gea, Poseidone, le Erinni, Artemide, Ecate, Plutone, debbono riconoscere il primato del cielo. Rama ed Oreste uccidono le rispettive madri per affermare un nuovo ordine ed una nuova giustizia; qualunque tentativio dell’arcaico ordine divino matriarcale volto a far giustizia di tali delitti, viene immediatamente frustrato. Oreste inseguito dalle Erinni, trova in suo soccorso Atena figlia di Zeus, divinità femminile, direttamente nata dalla testa di quest’ultimo e quindi perfetta compartecipe del nuovo ordine. Le lotte contro i vecchi dei al pari di quelle effettuate per liberare un territorio o una fanciulla da un drago, rappresentano le tappe dell’affermazione dell’io contro le forze di una “natura naturans” che, in tutti i modi, cerca di frenare tale processo di emancipazione. Ora invece l’eroe afferma la propria completa individualità unendosi con una figura femminile che, liberata dal drago dell’inconscio, esercita un ruolo di paredra e compartecipe della vita del proprio compagno all’insegna di una sessualità feconda, poiché finalmente intesa come scambio tra le opposte polarità maschio-femmina, in cui il mascjhile inizia ad assumere un ruolo protagonista. Inizialmente, la vita sociale degli umani vedeva l’elemento matriarcale relegare l’elemento maschile ad una funzione di supporto, attraverso la pratica della caccia, mentre all’elemento femminile spettava coordinare l’organizzazione e la redistribuzione di quel cibo che, frutto del lavoro dei campi, costituiva la primaria fonte di sostentamento di una comunità. Pian piano l’elemento maschile va prendendo coscienza della propria peculiarità. Attraverso la nascita di sette, gruppi e congreghe a carattere strettamente esoterico ed iniziatico, l’uomo va spostando la propria attenzione verso una dimensione divina siderea, con cui cercherà sempre più di intrattenere un rapporto di osmosi, sino a cercare una completa identificazione. Sempre più vanno allora prendendo piede le figure di sciamani o stregoni maschi, strettamente interconnessi al divino tramite il totem. Ponte tra il comune antenato divino di una comunità, il totem si erge diritto come il “ded” di Osiride, simbolo della sacralità della colonna vertebrale che erige la coscienza umana dalla dimensione puramente sensitiva della introiezione del cibo e di una genitalità puramente riproduttiva, alla dimensione privilegiata della vista che può spaziare nell’etere infinito ed iniziare quel graduale cammino verso una visione più alta, più completa, più razionale, più luminosa della realtà. Osiride muore ucciso e smembrato da Seth, il malvagio, ma la sua sorella e sposa Iside ne ricostruisce con amorevole pazienza le “disiecta membra”. Osiride rinasce attorno a quel “ded”, quella sacra colonna che al pari dell’albero cosmico delle tradizioni germanica ed Indù, sta lì a ricordarci un ordine del mondo impostato su una virilità frutto di un percorso di nascita morte e risurrezione.
Osiride e suo figlio Orus ben presto si identificheranno l’un nell’altro. Padre e figlio uniti in un legame simbiotico e divino sino ad identificarsi l’uno nell’altro, conosceranno fortune postume in molteplici vicende mitologiche ed in altrettante importanti narrazioni teologiche, tra le quali la vicenda della risurrezione di Cristo, e del rapporto con il suo Dio-Padre, celeste creatore del mondo. E così la vicenda di una tra le più antiche tradizioni religiose dell’umanità, quella egizia, si fa archetipo fondante, nel ruolo di vero e proprio battistrada per il percorso dell’anima umana. Qui, in tempi immemorabili, e con anticipo rispetto all’intera storia della nostra civiltà, attraverso la vicenda divina di Osiride si realizza quell’ “individuazione” dallo Jung tanto auspicata. Le incontrollate energie istintuali dell’inconscio, simboleggiate dalle figure archetipiche vengono a creare un perfetto equilibrio con la coscienza, con quell’elemento che in noi guarda alla dimensione del cielo. Osiride è lì ritto nella sua immemorabile verticalità a ricordarci, quale “axis mundi” la via ad una sintesi perfetta. Nascita, morte e risurrezione, sofferenza e gioia, istinto e ragione, qui si amalgamano, si compenetrano per dare vita alla più bella ed alla più grandiosa di tutte le creazioni: quella rappresentata da un individuo in grado di costituire con il proprio perfetto equilibrio, un ponte proteso tra finito ed infinito. Lo sforzo di Neumann è coraggioso e degno di attenzione, ma ahimè, pecca di una certa utopistica confusione quando alla fine della propria narrazione auspica la fine delle differenze tra gli esseri umani, nelle proprie espressioni etniche, culturali, razziali. Altrettanto limitata l’affermazione secondo la quale oggidì l’unica tradizione in grado di realizzare quell’individuazione a Jung tanto cara (e di cui gli Egizi furono i primi iniziatori) sarebbe rappresentata unicamente dal sapere alchimistico, dalla Qabbalah e dallo hassidismo ebraico. Dalla splendida disamina di cui il Neumann ci ha appena fatto partecipi possiamo invece trarre ben altra e più profonda conclusione. Il genere umano nelle sue molteplici varianti etniche e culturali, è caratterizzato da una comunanza di immagini che sgorgano direttamente dall’istintuale dimensione dell’inconscio. Tali immagini confuse tendono a consolidarsi in veri e propri criteri-guida immaginativi: gli archetipi. Ogni cultura nella propria peculiarità, tende a dare maggiore o minor risalto a questo o quell’archetipo che a sua volta subendo un vero e proprio processo di astrazione dall’immagine primordiale si fa “idea”, “concetto”, razionalizzando, giustificando, motivando, quanto dall’archetipo rappresentato. La cultura umana si sviluppa quindi all’insegna della più totale differenza, pur partendo da comuni basi istintuali. E’ la differenza, dunque il sale del mondo che rende l’umanità, pur se caratterizzata da una comune eredità genetica, un meraviglioso e colorito caleidoscopio.