Una pedagogia in pillole per i "filosofi" d'azienda
di Bruno Accarino - 24/07/2007
L'odierno, ossessivo invito a migliorare la propria formazione - di cui le fortune della consulenza filosofica sono un segnale - rivela un'ansia manipolativa legata a un percorso di «modellamento» della persona. «Il business del pensiero» di Alessandro Dal Lago per manifestolibri
A chi voglia dare avvio a una nuova impresa o a un filone di sperimentazioni teoriche o pratiche, «smarcarsi» da qualcosa - o entrare in una dinamica di controversie con un avversario classificato come immobile e tradizionalista - serve per raggranellare un minimo profilo identitario, per farsi coraggio e per occupare (più spesso: per annunciare solennemente di essere sul punto di occupare) uno spazio lasciato vuoto. Nel caso della consulenza filosofica, per darsi slancio si fa carambola con la presunta e inveterata propensione della filosofia a soggiornare in torri d'avorio improduttive e inaccessibili.
Diciamo la verità: è un biglietto da visita disgraziato. Vogliamo chiedere ragguagli a Kant, che litigava un giorno sì e l'altro pure con il conservatorismo prussiano? O a Hegel, che monitorava ossessivamente il destino della Germania? O a Marx, che aveva una padronanza maniacale dei movimenti del capitale internazionale e trovava pure il tempo e il gusto di leggere la Scienza della logica di Hegel? E siamo sicuri che le pur leziose (per un laico) dispute teologiche non avessero come posta in gioco equilibri ecclesiastici di potere e progetti di egemonia assai materiali? Raramente bisogna concedere credito alle modalità di autointerpretazione di un'impresa intellettuale e organizzativa, ma in questo caso, come suggerisce Alessandro Dal Lago (Il business del pensiero. La consulenza filosofica tra cura di sé e terapia degli altri, manifestolibri, pp. 136, euro 14), l'autointerpretazione è dotata di potenza performativa.
La consulenza filosofica offre risposte a persone che hanno problemi esistenziali ma si intende come un'alternativa alla psicoterapia, di cui non vuole invadere il territorio né ereditare lo statuto; non ha la pretesa di insegnare la filosofia, ma quella di disporsi su un terreno dialogico-maieutico-socratico, costellato di meditazioni a due (consulente e consultante) ma immune dalla trasmissione dall'alto di un sapere preconfezionato; non ha un assetto autoritario ma paritario, e si sforza di recepire il consultante come ospite e non come paziente; non è esosa ma neanche gratuita, anche se somiglia talvolta alla chiacchierata con l'amico del cuore, più equilibrato e più attrezzato a prestare ascolto alle nostre paturnie esistenziali.
Ora, siamo tutti alla ricerca di un orizzonte di senso, benvenuto chi offre un farmaco anche solo lenitivo. Non è in questione la buona fede di chi vuole valorizzare un approccio anomalo a questioni filosofiche. Tuttavia, di fronte a una domanda di orientamento filosofico che, si dice, non può essere soddisfatta nelle sedi canoniche, è lecito chiedersi: se questa domanda è tanto forte, perché le briciole di un così grande interesse non ricadono a beneficio delle istituzioni preposte all'insegnamento di discipline filosofiche e non producono un significativo aumento di iscritti universitari? Perché molti dipartimenti di filosofia registrano un calo di popolarità e di iscrizioni e si logorano in campagne pubblicitarie condite da pratiche di adescamento degne dei viali di periferia?
Curatore di opere di Hannah Arendt, Dal Lago non ha difficoltà a sospettare la presenza di un invito alla fuga nell'introspezione, massicce dosi di «rinuncia al mondo» e una sostanziale propensione ad adattarsi allo stesso, secondo i termini della sociologia weberiana della religione. Il sospetto, anzi, è che nella consulenza filosofica si riaffacci quel filone carsico della cultura occidentale che è l'eresia gnostica.
Ma i guai seri, più terreni, cominciano quando si decide di varcare la soglia del mondo e si entra nel suo reparto più aggressivo, quello dell'azienda. A quel punto non basta più un'aura irenico-conciliativa e nemmeno il piglio sportivo e manageriale del problem solving: occorre che il consultante sia profondamente imbevuto di ideologia aziendalistica perché riversi nel settore della gestione delle cosiddette risorse umane (un'espressione da mercato degli schiavi o da videogioco truculento, a scelta) e nella soluzione di conflitti professionali quanto ha appreso e tesaurizzato «consultandosi» con un filosofo. Annullate le ragioni di attrito con il mondo, che cosa osta alla rappacificazione con il mondo del lavoro?
La verità è che Dal Lago coglie nel segno sin dalle prime pagine: ci si può ingegnare a neutralizzare la spocchia specialistica semplificando qua e là, si possono demarcare accuratamente i confini rispetto alla psicoanalisi, ci si può affannare magari a smussare le asperità del lessico filosofico e ad ammorbidire l'ovvia e naturale gerarchia tra chi offre consulenza e chi la accetta, ma è difficile eliminare il tratto pedagogico di tutta l'operazione. Ora, se c'è una vicenda umana e intellettuale sulla quale, per pudore, bisognerebbe preventivamente tacere (e comminare sanzioni pecuniarie a chi non lo fa), è l'educazione: una parola quasi impraticabile, e la cui complessità è pari al tasso di disinvolta circolazione che la vede comparire ai più svariati propositi.
Basti pensare ai cipigliosi carcerieri travestiti da pedagogisti che si aggirano nei territori della pubblica istruzione italiana parlando a ogni pié sospinto di «meritocrazia»: sarebbero traumatizzati se sapessero che la più sgarrupata delle enciclopedie teologiche dedica al lemma merito decine di pagine, e senza offrire scorciatoie di giustizia distributiva.
L'odierno, ossessivo invito a migliorare la propria formazione non solo è totalmente estraneo al pur ammuffito ideale classico di Bildung, ma rivela un'ansia manipolativa, correttiva e paternalistica che è imparentata con un percorso di modellamento della persona: a fronte del quale, onestamente, una pur burocratica e poco partecipe indicazione bibliografica sarà pure professorale, ma è totalmente innocua e priva di pretese. Il fatto grave è che in questo modo siamo ormai usciti dalla sfera privata e interiore, perché da tempo il counseling indirizzato a clientes e consumers viene caricandosi, anzitutto nella scuola, di valenze normative e di vincoli istituzionali, quando non legislativi.
Scritto in modo ironico e brillante, il libro tradisce in realtà un fondo di preoccupata tristezza. Con un pizzico di civetteria, Dal Lago si dichiara non filosofo e condannato a più umili bassure intellettuali, ma ci sarà bisogno anche di lui per venire a capo dei fenomeni - tra i quali è da annoverare, nella veste di sintomo e non di causa, la consulenza filosofica - che denunciano l'attuale impotenza non dico politica, ma più modestamente civile del sapere filosofico.
Le guerre scoppiano perché l'attenzione polemologica dei filosofi è affetta da erudizione libresca? Magari: basterebbe correggere il tiro e fare un po' di tara sull'acribia filologica. Il peggio, per ora, lo si può solo intravvedere. Come sosteneva Niklas Luhmann, il welfare eredita su scala ingigantita e organizzata le pratiche tribali dell'«aiuto». Ebbene, il suo ritrarsi e il discredito che accumula ogni giorno di più alimentano surrogati assistenziali e variegate forme di supplenza e di imprenditorialità psico-relazionale che hanno appena cominciato ad invaderci e hanno un denominatore comune: l'emarginazione della cultura dei diritti, questa zavorra difesa ormai solo dai fissati e dai poco elastici.