Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Sovranità e mandato imperativo

Sovranità e mandato imperativo

di Sergio Terzaghi - 15/12/2005

Fonte: ariannaeditrice.it

 

 

Nei concetti di sovranità e rappresentanza risiede il vacuum delle contemporanee democrazie liberali. Occorre quindi mostrarne la natura, il fondamento giuridico e i requisiti di sussistenza.

La natura del nesso rappresentativo, secondo le teorie novecentesche di Orlando e Siotto-Pintor, si fonda sulla capacità popolare d’individuazione di soggetti idonei a dare forma allo Stato-ordinamento, dando così vita ad assemblee legislative. Invero, questa teoria del tutto che superata, sebbene esposta in modo sintetico, rende bene l’idea sul fatto che libere elezioni non producano un autentico rapporto di rappresentanza.

E' un dato di fatto che "la rappresentanza politica è un concetto classico del costituzionalismo moderno e contemporaneo, che soffre delle contraddizioni derivanti dal sovrapporsi di varie ere delle istituzioni rappresentative. Disposizioni fondate sulla struttura della società liberale oligarchica oggi hanno assunto un significato profondamente diverso nelle moderne società di massa fondate sui partiti. In questa prospettiva lo stesso atto elettivo ha cambiato completamente significato per divenire non soltanto preposizione di individui a cariche potestative, ma scelta di programmi partitici e di leaders[1].

Però, ciò che sta alla base di una qualunque organizzazione costituzionale è il conferimento del diritto di esercizio della Sovranità: la Costituzione della Repubblica Italiana si esprime all’art.1, disponendo che “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti stabiliti dalla Costituzione”.

Il concetto di Sovranità trova la sua esplicazione sinottica in relazione al potere statuale supremo, il quale in virtù del Diritto fa valere la propria capacità autoritaria, oppure in relazione al legittimo ed originario detentore del potere. In queste sue accezioni si delineano il potere derivato da una delega all’apparato statuale da cui la sovranità nazionale e il potere ab origine da cui la sovranità popolare.

Questa dicotomia prende forma passando da Bodin alle mozioni universalistiche dell’abate Sieyès e si trascina sino ai giorni nostri.

Per Emmanuel Sieyès, infatti, la rappresentabilità non può spettare a tutti indistintamente: è noto che l’Assemblea limitò il diritto di voto ai soli cittadini che rientravano nelle previsioni del decreto del marco d’argento, cioè a coloro che erano in grado di pagare un tributo pari al valore di almeno tre giornate lavorative.

Con quest’inversione di tendenza si passò dall’apologia del Suffragio Universale a quella del Suffragio di nicchia, con ciò i dogmi giacobini di libertà e d’uguaglianza restarono, da un punto di vista giuridico, delle mere enunciazioni di principio, mentre continueranno a produrre effetti deleteri sull’autonomia e sull’identitarismo collettivo delle province. Il giurista Saitta, nella sua opera “Costituenti e costituzioni della Francia rivoluzionaria e liberale”, dà notizia che, a dispetto del regolamento del 24 gennaio 1789, il quale disponeva un suffragio pressoché universale per le elezioni degli Stati Generali, la distinzione tra cittadini attivi e passivi fece sì che su 26.000.000 di abitanti appena 4.300.000 (circa il 16%) godessero di diritto di voto.

Questa reductio rende esplicito il passaggio definitivo dalla visione “sussidiaria” degli Stati Generali a quella elitaria dell’Assemblea Nazionale, passaggio con cui i deputati acquisiscono sovranità politica grazie alla spinta “nazionalistica” di Sieyès.

Lo stesso abate, a riguardo, afferma che “la nazione esiste prima di tutto, è l’origine di tutto. La sua volontà è sempre legale, è la legge stessa”[2].

Di conseguenza, nella concezione di Sieyès, il deputato non rappresenta affatto i cittadini che l’hanno eletto, né il collegio nel quale è stato eletto, bensì la nazione in quanto entità unitaria, presa nella sua universalità a cui spetta la sovranità.

Secondo i principi giacobini ciascuna provincia o regione, declassata persino nominalmente a mero dipartimento amministrativo, non possiede alcuna personalità giuridica né alcuna possibilità di eleggere rappresentanti in forza di un diritto proprio.

Il sistema di Sieyès tende a smontare la democrazia diretta e contrattualistica, la quale utilizza il sistema del mandato imperativo nei rapporti tra eletti ed elettori[3], fondando la sua tesi sull’incapacità del popolo francese a gestire direttamente gli affari politici.

L’elitarismo dell’abate giacobino rappresenta, per natura, una paradossale continuazione della concezione giuridica della Sovranità postulata da Jean Bodin materializzatasi, però, con Richelieu.

Per Bodin, infatti, la sovranità si fonda sul Potere assoluto del Principe. Lo stesso legista, autore de “Le six livres de la République”, afferma la necessità che “i sovrani non siano, in nessun modo, soggetti al comando altrui” e che “le leggi del principe non dipendono che dalla sua pura e semplice volontà”.

Alain de Benoist afferma che la sovranità, secondo Bodin, “è soprattutto inseparabile dall’idea di una società politica che abolisca le appartenenze e le fedeltà particolari. (…) Il legame sociale è già ricondotto a un contratto governativo che mette in gioco esclusivamente degli individui, che cioè elimina ogni mediazione tra soci e il potere. (…) Inoltre, per il suo implicito egualitarismo, dovuto al fatto che il modello riposa su un legame diretto e incondizionato tra governanti e governati, la concezione bodiniana già annuncia la ridefinizione di popolo come composto unicamente da atomi individuali, posti tutti a uguale distanza dal potere sovrano”[4].

Carl Schmitt, riguardo la sovranità “principesca” alla Bodin, afferma che “se il principe deve preliminarmente interpellare un Senato o il popolo, ciò vuol dire che egli deve farsi autorizzare dai suoi sudditi. Ma ciò appare a Bodin come un’assurdità; infatti egli ritiene che, poiché neppure i ceti sono padroni delle leggi, anch’essi dovrebbero, a loro volta, farsi autorizzare dai principi, ed in tal modo la sovranità verrebbe 'jouée a deux parties' (…) ”[5].

L’art. 3 della Costituzione Francese del 1971, invece, recita: “I rappresentanti nominati dentro i dipartimenti non saranno rappresentanti di un dipartimento particolare, ma della nazione intera, e non potrà essere dato loro alcun mandato”.

In senso conforme la famosa disposizione dell’art. 3 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, premessa alla Costituzione del 3 settembre 1971, disponeva che “il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo, nessun individuo può esercitare un’autorità che da essa emani espressamente”.

Ciò attesta come la concezione della “sovranità onnicomprensiva” di Bodin abbia ispirato la monarchia assoluta e i dogmi giacobini ma, successivamente, anche lo statalismo liberale e i totalitarismi sino alla creazione giuridica del moderno Stato-nazione, basato sull’indivisibilità e sull’assolutismo del suo potere.

Dall’egualitarismo liberal-giacobino trae spunto anche la nostra Costituzione, la quale legittima il principio della sovranità nazionale, in luogo di quella popolare[6], disponendo, all’art.67, che “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”.

Credo che lo zeitgeist postmoderno non dia spazio alla concezione liberale della sovranità onnicomprensiva. Il rappresentante, ad oggi, non rappresenta né il popolo, né la Nazione, come da dettame costituzionale, bensì il proprio ego e le pressioni più o meno partitiche[7].

Auspico, in quest’ottica, una rinascita del mandato imperativo, consapevole del fatto che possa passare solo attraverso un procedimento di revisione costituzionale, conquista derivante dall’operato dei rappresentanti della Nazione[8].

Un ritorno al principio contrattualistico della revocabilità, secondo cui il delegato è libero di agire come meglio crede ma, al tempo stesso, gli elettori sono liberi di revocarlo in qualsiasi momento con strumenti ad hoc costituzionalmente codificati, metterebbe in forma una democrazia di stampo classico.

Secondo Niccolò Zanon, invece, “i rappresentanti debbono agire senza essere vincolati da alcun interesse particolare, affinché le loro scelte abbiano maggiore probabilità di soddisfare tendenzialmente tutti. Un’attività rappresentativa di questo genere cerca di favorire l’unità dei rappresentati svolgendosi senza tener conto dei mandati parziali”[9].

Nel vigente sistema elettorale, stante la modalità uninominale, il passaggio dalla sovranità nazionale ad una sovranità popolare potrebbe rappresentare il passaggio obbligato per un ritorno alla partecipazione.

In subordine al principio “ciò che tocca tutti deve essere affare di tutti”, è necessario tendere, metapoliticamente, verso un uso autentico dello strumento referendario, avente la finalità di revoca del rappresentante con cui il popolo non si identifichi più.

Archetipo, per un neocontrattualismo sociale o neoconsociativismo[10] può essere Altusio[11]. Nella dottrina di Altusio “la sovranità (…) rappresenta soltanto il livello di potere che dispone delle capacità decisionali ed esecutive più larghe”[12].

Secondo Altusio la politica è “ars homines ad vitam socialem inter se constituendam, colendam et conservandam consociandi” ed ha, per presupposto, la natura simbiotica e sociale dell’uomo. Gli uomini dunque sono simbiotici per natura e preordinati a vivere in comunità, la quale se ben organizzata, consente di occupare a ciascuno il posto che merita, in armonia con la “legge divina”.

Concordia e consenso, e non costrizione, caratterizzano il rapporto tra governanti e governati nella concezione di Altusio basata sulla consociatio.

Questa consociatio è una struttura cooperativa di gruppi organizzati comunitariamente in cui si sviluppa la vita politica e sociale.

Ogni associazione esercita il proprio potere eleggendo consensualmente un “primus inter pares” che la rappresenta, la cui autorità, per quanto superiore a quella dei singoli soci, è inferiore all’autorità dell’associazione, le cui deliberazioni sono prese a maggioranza. Questa massima autorità politica rappresentativa del popolo è in ogni modo subordinata alla volontà dei membri della consociatio, poiché mandatario di una comunità che partecipa attivamente alla politica. La figura del summus magister è intesa come maior singulis e minor universis.

In quest’ottica la sovranità non appartiene al principe di bodiniana memoria, bensì alla comunità: i sovrani sono sottoposti alle leggi da questa poste in essere.

Il popolo non può rinunciare al potere sovrano, né trasmetterlo ad altri neppure volendo, ma soltanto delegare l’esercizio dei diritti sovrani o distribuirli tra vari soggetti. Come ogni comunità, anche il popolo può conferire pieni poteri ai suoi procuratori, ma questi rimangono solo dei rappresentanti investiti di un diritto altrui e non proprio. Infatti, se il summus magister viola il contratto tramite cui i consociati gli hanno conferito il mandato, alla condizione che egli governi giustamente ed equamente, viene liberato dal vincolo contrattuale ed i cittadini possono darsi ex novo un rappresentante o una nuova costituzione.

La sussidiarietà di Altusio, afferma de Benoist, “rappresenta dunque una divisione di competenze secondo il criterio della sufficienza o dell’insufficienza: ogni livello di autorità conserva le competenze per le quali è sufficiente. (…) Mentre il punto di vista giacobino fa della sovranità la garante dell’unità nazionale, il principio di sussidiarietà fa della preservazione della pluralità una garanzia della sovranità. Un’Europa ben concepita, ossia un’Europa federale, non sarebbe dunque il solvente delle sovranità ancora esistenti, ma lo strumento della loro rinascita mediante una sovranità europea pensata e realizzata diversamente”[13].

Partendo da quest’idea della sovranità, nascerebbe una democrazia partecipativa, intesa nella sua accezione più classica, non da esportare, bensì da difendere dalle “azioni preventive” d’ogni falsus procurator, il quale agirebbe in nome e per conto dell’umanità e della democrazia globale, sebbene in assenza di mandato.



[1] Fulco Lanchester, Rappresentanza, responsabilità e tecniche di espressione del suffragio. Nuovi saggi sulle votazioni, Roma, 1990, 97

[2] E. Sieyès, Qu’est-ce que le tiers-état ?, Roma, 1972.

[3] c.f.r. Rousseau e Altusio.

[4] Alain de Benoist, Le sfide della postmodernità, Bologna, 2003, 14.

[5] Carl Schmitt, Le categorie del 'politico', Bologna, 1972, 36.

[6] In raffronto all’art.1 della Costituzione si noti, prima facie, come uno dei limiti alla sovranità popolare sia espresso dall’art.67.

[7] “Molte decisioni passano sulle nostre teste e questo non è giusto. Per cui spesso noi parlamentari ci sentiamo come quegli ebrei che andavano verso i campi di sterminio, senza che una sola voce si alzasse per protestare” da Corriere della Sera, 20 febbraio 1987 oppure “Cosa resta da fare al parlamentare comune? O tentare di entrare nell’oligarchia (…) o specializzarsi in una 'mucillagine' e collegarsi alla lobby relativa; o ribellarsi, rischiando la candidatura, salvo essere tollerato (ed emarginato) come il 'Pierino' della situazione” così l’on. Savino in una lettera al Corriere della Sera, 29 luglio 1991.

[8] “Mancando quello che è stato giustamente chiamato lo spirito costituente, appunto un progetto politico alto e condiviso, le grandi riforme possono diventare addirittura un rischio al di là dell’ispirazione e dei propositi democratici condivisi da tutti. Che cosa possono produrre in termini di riforme costituzionali, forze politiche così eterogenee che sono tenute insieme solo dalla paura?” così G. Vattimo in “La riforma della paura” La Stampa del 03.02.1996.

[9] N. Zanon, Il libero mandato parlamentare, Milano, 1991, 328.

[10] Va ovviamente evidenziato, come il consociativismo 'altusiano', non legittima il divieto di mandato imperativo, come vorrebbero le odierne democrazie liberali tenute in forma dal “consociativismo d’affari”, anzi, in virtù della sussidiarietà, si fonda sul vigore del mandato stesso.

[11] C.f.r. Alain de Benoist, “Johannes Althusius 1557-1638”, in Krisis, marzo 1999, 2-34.

[12] Alain de Benoist, op.cit., 23.

[13] Alain de Benoist, op.cit., 29.