La questio de aqua et terra di Dante Alighieri
di Francesco Lamendola - 20/09/2007
L'ultima delle opere latine di Dante, composta circa un anno prima della morte del Poeta, costituisce ancor oggi un piccolo enigma per gli studiosi. A lungo si è disputato intorno alla sua autenticità e, anche oggi che la questione sembra risolta - anche se non unanimemente - in favore della paternità dantesca, rimangono diverse cose da spiegare: prima fra tutte, la divergenza fra la concezione cosmologica sottesa alla "Divina Commedia" e quella sostenuta nella "Questio". A ciò si aggiunga lo strano silenzio dei contemporanei su questa tarda operetta di Dante che, se non brilla per originalità di soluzioni né per aggiornamento del sapere scientifico dell'Autore, rivela però un notevole rigore logico e un caratteristico atteggiamento razionalistico nella preminenza accordata al metodo induttivo nelle scienze naturali, di contro a quello deduttivo proprio della matematica. Al tempo stesso, citando passi delle Sacre Scritture, l'Autore afferma che non tutta la verità può essere compresa dalla mente umana e che, nell'accostarsi ai misteri della natura, è necessario porsi con assoluta umiltà e consapevolezza del limite.
1. UNA TIPICA DISPUTATIO MEDIOEVALE.
Il 20 gennaio 1320 una folla piuttosto numerosa di canonci e di laici, per lo più uomini dotti e funzionari della corte scaligera, si avvia per le strade di Verona, attraverso il quartiere del Duomo. È una fredda giornata d'inverno, un'umida nebbia sale dalla riva dell'Adige e il vento che scende dai monti vicini porta aria di neve. Camminando frettolosi quegli uomini, vestiti negli abiti da cerimonia delle grandi occasioni, giungono in Piazza del Vescovado dove, dietro le alte mura, s'intravvede il Torrione dei Preti, quindi si dirigono verso un angolo di essa, ove sorge la chiesa romanica di San Giovanni in Fonte, al cui interno si trova un'incredibile fonte battesimale ottagonale in marmo rosso larga tre metri. Contiguo ad essa è il tempietto dei Santi Giorgio e Zeno, comunemente detto di Sant'Elena, costruito dall'arcidiacono Pacifico nei primi anni del IX secolo, danneggiato dal terremoto del 1117, restaurato e riconsacrato dal patriarca di Aquileia, Pellegrino, nel 1140, dopo che alcuni sconosciuti avevano profanato l'altar maggiore.
È lì che si sono diretti i canonici veronesi e il gruppo dei laici ad essi mescolato. Il vescovo, molto probabilmente, è presente ed è già arrivato percorrendo un passaggio che dalla Cattedrale giunge alla chiesa di Sant'Elena lungo il perimetro di una loggia romanica su cui si possono ammirare una trifora con capitellini, colonne di spoglio e affreschi di epoca carolingia. L'interno ad aula unica, ricoperto da un soffitto ligneo con travatura a vista, è molto suggestivo e tradisce l'origine estremamente antica, paleocristiana: di fronte al presbiterio si nota il podio presbiteriale della basilica del IV secolo, mentre vicino all'ingresso vi è un tratto del giro absidale della basilica del V secolo. I paramenti murari sono di epoca carolingia; le grandi finestre delle pareti laterali, aperte nel X o XI secolo, sono state poi ristrette e sostituite da più modeste monofore nell'XI, sicché l'ambiente, immerso in penombra, nella grigia giornata invernale appare illuminato in larga misura dai ceri accesi a profusione. Oggi si dibatterà pubblicamente, da parte di un studioso dalla fama possente - anche se più di poeta che di scienziato - un difficile e controverso argomento di filosofia naturale: "Questio de situ et figura, sive forma, duorum elementorum, aque videlicet et terre" ("Questione intorno al luogo e alla figura, o forma, dei due elementi, cioè l'acqua e la terra"). (1)
Quando tutti hanno preso posto nel locale suggestivo, ma senza dubbio freddo e poco luminoso, il brusio si smorza poco a poco e un uomo sui cinquantacinque anni, dall'aria assorta e severa, prende la parola nel silenzio generale. È il poeta fiorentino Dante Alighieri e la sua voce, sotto il soffitto ligneo, risuona chiara e decisa: "Manifestum sit omnibus vobis quod, existente me Mantue, questio quaedam exorta est, que dilatrata multotiens ad apparentiam magis quam ad veritatem, indeterminata restabat." ("A tutti voi sia noto come, trovandomi io in Mantova, sorse una questione già più e più volte dibattuta, ma sempre con argomenti che avevan più l'aria del sofisma che del vero; e che, però, restava ancora indecisa.") (2) E prosegue: "Unde cum in amore veritatis a pueritia mea continue sim nutritus, non sustinui questionem prefatam linquere indiscussam; sed placuit de ipsa verum ostendere, nec non argumenta facta contra dissolvere, tum veritatis amore, tum etiam odio falsitatis." ("Perciò io, che sin dalla fanciullezza sono costantemente cresciuto nell'amore della verità, non ho potuto trattenermi dal prender parte a una tale discussione, e volli anzi - sia per amore della verità che per odio della falsità - mostrare da che parte in essa stava il vero, oltre a confutare gli argomenti addotti in contrario.") (3)
Nel tono e nello sguardo di Dante traspaiono l'abituale fierezza e la focosa, battagliera passione per la verità, stimolati e - forse - un po' inaspriti dall'assenza inaspettata di molti dei suoi critici ed antagonisti, che hanno preferito non presentarsi ed evitare, così, di riconoscere implicitamente l'autorevolezza dell'oratore. Per loro, infatti, non avrà che parole sprezzanti seppur venate d'ironia (non sappiamo, peraltro, se pronunciate in quella occasione, o aggiunte in seguito nel testo scritto della sua dissertazione): "Determinata est hac phylosophia invicto domino, domino Cane Grandi de Scala pro Imperio sacrosancto Romano, per me Dantem Alagherium, phylosoporum minimum, in inclita urbe Verona, in sacello Helene gloriose, coram universo clero Veronensi, preter quosdam qui, nimia caritate ardentes, aliorum rogamina non admittunt, et per humilitatis virtutem Spiritus Sancti pauperes, ne aliorum excellentiam probare videantur, sermonibus eorum interesse refugiunt." ("Questa controversia filosofica è stata dibattuta sotto la dominazione dell'invitto signore, il signore Cangrande della Scala, delegato del sacrosanto Impero Romano, da me Dante Alighieri, ultimo dei filosofi, nell'inclita città di Verona entro il tempietto della gloriosa Elena, alla presenza di tutto quanto il clero veronese, tranne solo certuni che per troppa carità chiudono gli orecchi alle altrui preghiere, e per la troppa umiltà poveri di Spirito Santo, perché non si creda ch'essi rendono omaggio ai meriti altrui, preferiscono astenersi dall'intervenire ai loro discorsi." (4)
Sì, non cè dubbio: lo sdegno a fatica trattenuto per quell'offesa al protocollo e alla lealtà di una disinteressata disputa scientifica, le espressioni taglienti rivolte alla meschinità di quanti non osano affrontarlo lealmente in una tipica disputatio di stampo scolastico, ma preferiscono criticarlo dietro le spalle, rosi dall'invidia e dalla gelosia di chi vede usurpato il proprio angusto orticello accademico da un uomo di cultura famoso, ma privo di un titolo universitario: questo è proprio lo stile di Dante Alighieri. Così come è dantesco quel definirsi vere phylososophorum minimum, l'ultimo dei veri filosofi (5); che è al tempo stesso un segno di umiltà e uno scatto di orgoglio: come dire che è meglio essere l'ultimo dei filosofi ma di quelli veri, piuttosto che il primo dei pretesi filosofi o sofisti, in realtà boriosi pedanti e calunniatori di professione. E, se il concetto non risultasse sufficientemente chiaro, egli lo sottolinea un'altra volta, nel modo più esplicito e quasi con tono di sfida: "Et ne livor multorum, qui absentibus viris invidiosis mendacia confingere solent, post tergum bene dicta transmutet, placuit insuper in hac cedula meis digitis exarata quod determinatum fuit a me relinquere, et formam totius disputationis calamo designare." ("Ma affinché a nulla valga il livore di quei molti che, dando retta appunto al loro astio, sogliono bugiardamente sfigurare dietro le spalle degli altri ciò che questi hanno sostenuto con buone ragioni, mi piacque inoltre di lasciar scritto di mia mano, in questpo documento, ciò che da me fu determinato: ed esporre, anzi, tutto il contenuto della disputa.") (6)
Non c'è dubbio, è il Dante umorale e pungente, il Dante fustigatore implacabile di mediocri, ignavi e maldicenti; il "maledetto toscano" (parafrasando Cuzio Malaparte) che, nella Commedia, non si perita di scagliare i suoi strali perfino contro papi e imperatori, senza pentimenti o ripensamenti:
"Ma non di men, rimossa ogne menzogna,
tutta tua visïon fa manifesta;
e lascia pur grattar dov'è la rogna",
dirà anzi a se medesimo, per bocca di Cacciaguida (7), quasi inebriato dal suo stesso ardire.
2. TEMPO E LUOGO DELLA COMPOSIZIONE.
La Quaestio o Questio de aqua et terra (8), dunque, è la redazione scritta di una conferenza, o dissertazione, tenuta da Dante a Verona il 20 gennaio 1320, riprendendo il tema di una discussione svoltasi a Mantova qualche tempo prima, non si sa esattamente quando (9), sul problema se in qualche punto la superficie delle acque si trovi posta più in alto della sfera terrestre. Lo studioso Enrico Malato ipotizza che la prima disputatio sull'argomento, svoltasi a Mantova e alla quale - secondo Paolo Garbini - Dante avrebbe partecipato (10), abbia avuto luogo "sulla fine del 1319" (11), ma, come vedremo, si tratta di una congettura puramente ipotetica, perché nulla dimostra che la disputatio di Verona abbia seguìto a stretto giro di tempo quella mantovana. Anche una partecipazione attiva di Dante alla discussione di Mantova è solo ipotetica; infatti potrebbe avervi semplicemente assistito (12), almeno in una sua prima fase.
Secondo Giorgio Petrocchi, esistono almeno due possibilità circa i tempi di composizione della Questio: che sia stata composta in maniera occasionale, dopo la disputa di Mantova, oppure che sia stata scritta o almeno concepita assai prima, per esempio nel 1319 - quindi già a Ravenna, presso Guido Novello Da Polenta - e poi intenzionalmente tirata fuori per la solenne circostanza del 20 gennaio a Verona. Nel primo caso si tratterebbe di un lavoro estemporaneo, una conferenza tradotta poi in un trattato scritto da offrire a Cangrande, l'antico e sempre ammirato ospite del soggiorno veronese; nel secondo, Dante si sarebbe recato appositamente da Ravenna nella città scaligera per trattare un tema da lui già a suo tempo approfondito, suggellando - cioè - una ricerca precedente, intesa a chiarire alcuni aspetti cosmologici della Commedia che non avevano lasciato l'Autore interamente soddisfatto.
Ma lasciamo parlare il Petrocchi: "Assegneremo con sicurezza agli anni di Ravenna, accanto al compimento del Paradiso, le due Egloghe. Quanto alla Quaestio, a stare alle premesse la disputa apparirebbe allestita di ritorno da Mantova, durante un'occasionale sosta alla corte di Cangrande, e la lettura nella domenica del 20 gennaio 1320, nel sacello di Sant'Elena, farebbe presupporre un primo periodo di predisposizione di materiali a Mantova stessa, una stesura della lectio nei giorni antecedenti il 20 gennaio, e forse (ipotesi dopo le altre ipotesi!) una consegna del testo definitivo a Cangrande. È possibile però, anche per chi, come lo scrivente, crede nell'autenticità dell'opera, interpretare la Quaestio un lavoro tutto occasionale e imprevisto, o è tollerabile la congettura che Dante serbasse in sé da vario tempo l'intenzione di ratificare le proprie cognizioni e supposizioni cosmogoniche, a chiarimento e superamento di quanto aveva affermato nel canto XXXIV dell'Inferno, e provocasse in qualche modo il dibattito mantovano e la prolusione veronese? In tal caso la Quaestio potrebbe essere anch'essa lavoro ravennate, nell'inoltrato 1319, tenuto da parte per una cerimonia ufficiale a Verona non predisposta all'ultimo momento, con l'occasione del pasaggio al castello di Cangrande, ma da tempo offerta a questi quale omaggio dell'antico ospite. Infatti la premessa della Quaestio non impone un tempo stretto tra Mantova e Verona, e s'apre uno spiraglio sulla possibilità che la discussione a Mantova sia di qualche tempo avanti (non però del tempo in cui Dante era stabilmente presso Cangrande), e il viaggio per tenere la disputazione nel sacello veronese sia stato ad hoc, direttamente da Ravenna." (13)
Riassumendo le ricerche di uno studioso italiano, Giorgio Padoan, che ha specificamente approfondito la questione: "Il documento originale - che consisteva in un'unica grande pergamena […], forse ampliata con giunte, scritta fittamente, con uso continuo di forti abbreviazioni tachigrafiche - dovette quindi essere consegnato a personalità d'alto grado in Verona, perché rimanesse custodito. Lo stesso autore probabilmente non ne possedette altra copia […]" (14)
Un'ultima osservazione sullo scritto della Questio dantesca. A conclusione del trattato, l'Autore afferma con forza che la disputatio ebbe luogo sotto la signoria dell'invitto Cangrande della Scala, "pro Imperio sacrosancto Romano", ossia delegato del Sacro Romano Impero. (15). La cosa potrebbe anche passare inosservata se noi non sapessimo che, a quell'epoca, il papa francese Giovanni XXII aveva fulminato la scomunica contro Cangrande della Scala, Matteo Visconti e Passerino Bonacolsi, "rei di fregiarsi del titolo di vicari imperiali dichiarato decaduto dal pontefice." (16) Dante, che già si trovava in cattivi rapporti col pontefice, di cui non apprezzava la politica violentemente anti-ghibellina - oltre che la cupidigia scandalosa ("Ma tu che sol per cancellare scrivi", aveva detto di lui nella Commedia) (17) - volle evidentemente compiere un gesto polemico nei suoi confronti, mostrando di considerare nulli i provvedimenti di decadenza del titolo vicariale. Che abbia voluto anche ingraziarsi l'amico Cangrande, in vista di una possibile sistemazione accademica nello Studio scaligero, è una eventualità che tratteremo a suo luogo. È certo, comunque, che i rapporti fra Dante e Cangrande erano rimasti eccellenti, anche dopo il trasferimento del primo a Ravenna, trasferimento che non ebbe nulla a che fare con la loro personale amicizia. (18)
"Alcuni aneddoti vorrebbero - osserva il Padoan - che il poeta fosse trattato nella corte scaligera con scarsa considerazione: ma non è da prestarvi fiducia (e in definitiva anche la storiella narrata dal Petrarca, Rer. Mem., II, 83, attribuisce a Cane solo un motteggio amichevole); altre ragioni, più consistenti, debbono avere influito: forse la possibilità di una sistemazione anche per i figli; o forse la maggior tranquillità della corte ravennate e l'amcizia, più alla buona, di Guido Novello da Polenta, poeta anch'egli, gli parvero preferibili: il moderatismo politico di Guido, guelfo, poteva fors'anche sembrare miglior premessa per un ritorno in Firenze, in cui Dante, in vista della pubblicazione dell'intera Comedia, cominciava nuovamente a sperare. […] comunque il poeta non ruppe con Cangrande, cui anzi, secondo il Boccaccio (Trattatello, 183) inviava gruppi di canti man mano che li veniva componendo…" (19) Ci sia consentito, però, di dubitare delle ragioni politiche addotte dal Padoan: se Dante, a quell'epoca, avesse voluto davvero mandare dei segnali distensivi al Comune di Firenze - la qual cosa passava, di necessità, attraverso una attenuazione dei toni più accesamente antipapali - non avrebbe sfidato così apertamente Giovanni XXII (e davanti al vescoco e al clero tutto di Verona) ribadendo la validità del titolo di vicario imperiale tenuto da Cangrande.
3. TRADIZIONE MANOSCRITTA E QUESTIONE DELL'AUTENTICITÀ.
La Questio de aqua et terra è una delle opere del corpus dantesco di cui si è dibattuta più a lungo, e più accesamente, l'autenticità. Vari fattori hanno concorso a questo destino, primo fra tutti l'esilità della tradizione manoscritta. Nessun manoscritto, infatti, è rimasto dell'opera, neppure quello preziosissimo - perché quasi certamente autografo - che è servito per la prima edizione, quella del 1508. Non solo: i contemporanei di Dante e gli studisoi a lui più vicini nel tempo tacciono sulla Questio, come se la ignorassero completamente. Una decisiva testimonianza di Pietro Alighieri, figlio e commentatore dell'opera paterna (20), è stata rinvenuta solamente nella seconda metà del Novecento; e tutto questo, insieme ai non lievi problemi di coerenza contenutistica fra la Commedia e la Questio, spiega più che a sufficienza la lunga diffidenza degli studiosi moderni ad ammettere agevolmente la paternità dantesca dell'opera. Ma andiamo con ordine.
Nel 1508 un frate agostiniano, Giovanni Benedetto Moncetti de Castilione Aretino, eccellentissimo dottore in Sacra Teologia, trova il manoscritto in scrinis, cioè in non meglio precisabili antichi scrigni, dove si trovava riposta - ed evidentemente dimenticata - in mezzo ad altre carte. Egli la dà alle stampe in Venezia, per Manfredum de Monteferrato, ossia per i tipi dell'editore Manfredo da Monferrato. E questo è tutto quanto sappiamo della editio princeps, oltre al fatto che, poco tempo dopo, il manoscritto che l'aveva originata scomparve a sua volta. Ma cediamo la parola ad Enrico Malato, che ben riassume i termini dell'intera questione, collocandola opportunamente nel contesto storico e culturale in cui ebbero luogo sia la composizione, sia la pubblicazione dell'opera.
"Scomparso poi, senza lasciar traccia di sé, anche il manoscritto su cui era stata esemplata, la stampa ha finito per essere non solo l'unico testimone, ma l'unico garante dell'opera, che risulta ignota a tutti i biografi e i commentatori antichi, nessuno dei quali mostra anche solo di averne notizia - né se ne è trovata memoria in documenti d'archivio o in biblioteche - perfino nella discussione pubblica da cui essa avrebbe tratto origine.
"Si spiega così la lunga diffidenza degli studiosi verso la Questio, di cui si ebbe una rara ristampa napoletana nel 1576 (per Francesco Storella) e rimasta poi di fatto clandestina - ignota per esempio a Tiraboschi e a Foscolo - fino all'edizionea cura di Alessandro Torri del 1843 (Livorno, Tipografia Vannini), che ne segnò l'ingresso ufficiale nel corpus dell'opera dantesca. Ingresso però tutt'altro che pacifico, dubitandosi da molti o che si trattasse di una falsificazione del primo editore, o quanto meno, avendo egli dichiarato di offrire un'edizione "castigatam, limatam, elucubratam", che si trattasse di un testo da lui manomesso o comunque alterato. Un attacco deciso alla tesi dell'autenticità fu portato nel 1901 dal padre Giuseppe Boffito, che con grande sfoggio di dottrina espose i risultati di una vasta esplorazione della letteratura sulla materia oggetto dell'opera, dal Medioevo al Quattrocento, alla quale avevano contribuito nomi più e meno noti, da Campano da Novara a Egidio Colonna, coerenti con la Questio, ad Antonio Pelacani, di orientamento diverso, avanzando in conclusione l'ipotesi che si sia trattato di un falso quattrocentesco dell'agostiniano Paolo Veneto. In favore dell'autenticità intervennero altri, fra i quali Vincenzo Biagi, i quali osservarono come diversi errori del testo potevano spiegarsi solo come errori di lettura di un manoscritto antico, escludendo così almeno il falso perpetrato dal Moncetti, riconosciuto per altro editore abbastanza attento anche di un'opera di Egidio Colonna; e poco più tardi Ernesto Giacomo Parodi, seguito da Paget Toynbee, che credettero di riconoscere in alcune parti della Questio cadenze del cursus che risutano abbandonate dopo i primi decenni del Trecento, così che la possibile datazione dell'opera veniva a collocarsi in età vicina a quella dell'autore dichiarato. E sul fondamento di questi rilievi essa venne inclusa da Barbi nella più volte ricordata edizione del 1921 de Le Opere di Dante." (21)
L'inclusione della Questio nell'opera dantesca da parte di Michele Barbi significò una chiara e definitiva presa di posizione da parte della Società Dantesca Italiana, di cui l'opera omnia dell'editore Bemporad di Firenze era l'espressione. Un dantista del calibro di Bruno Nardi, tuttavia, continuava a negare l'autenticità della Questio, dando voce anche alla diffidenza di molti altri studiosi. Le cose stavano a questo punto, con l'ambiente accademico ormai prevalentemente - ma non interamente, né senza distinguo e perplessità - orientato ad accogliere l'autenticità dell'opera, quando, nel 1957, Francesco Mazzoni scoprì nel Codice Vaticano Ottoboniano Latino 2.867 una decisiva testimonianza nella terza redazione del Commento alla Divina Commedia di Pietro Alighieri, risalente al 1350 circa.(22) Che Pietro di Dante abbia atteso la terza edizione della sua opera per fare un esplicito riferimento alla Questio, può essere una testimonianza indiretta di quanto poco nota fosse la Questio anche nell'ambiente degli studiosi più vicini al poeta; oppure può essere dovuto a un semplice capriccio del caso, ossia alle nostre imperfette conoscenze in proposito. Ad ogni modo, oltre al clamoroso ritrovamento del Codice Vaticano, il Mazzoni ha poi condotto uno studio serrato e puntiglioso per dimostrare l'esistenza di strette corrispondenze fra il testo della Questio e le altre opere di Dante (23), studio che ha persuaso anche la maggior parte degli scettici. Non ha persuaso, però - come dicemmo - il Nardi (24) alle cui argomentazioni, pronto, rispose il Mazzoni con due altri saggi. (25) Diamo ancora la parola a Enrico Malato.
"Un ulteriore contributo importante in favore della possibile paternità dantesca è stato portato nel 1957 da Francesco Mazzoni, il quale nella terza redazione del commento alla Commedia del figlio di Dante, Pietro, databile al 1358 circa e conservata, tuttora inedita, nel codice Vaticano Ottoboniano lat. 2.867, ha trovato un accenno esplicito a una disputatio dantesca sul tema "an terra esset alcior aqua vel econtra" ("se la terra sia più alta dell'acqua o il contrario): che, pur non essendo una testimonianza sicura sulla conferenza veronese e sull'operetta di Dante, sembra garantire almeno un intervento del poeta sulla questione; contrastato tuttavia da Bruno Nardi, che, tra altre obiezioni e penetranti osservazioni, ha eccepito la difficoltà di conciliare la visione cosmologica proposta dalla Questio con quella illustrata da Virgilio in Inf., XXXIV, 121-26, concludendo con la ferma negazione della paternità dantesca. Obiezione non banale, che se non basta, da sola, ad annullare gli indizi a favore di quell'attribuzione che nel corso degli anni l'acribìa degli studiosi è riuscita a mettere in evidenza, non consente neanche di acquisire con certezza quella paternità: è da chiedersi, per esempio, perché Pietro abbia aspettato la terza e tarda redazione del suo commento per quell'accenno (le prime due sono databili al 1337-'40 e al 1350-'55 circa), e se non possa egli stesso essere stato ingannato da un falsario, attivo, come ipotizza Nardi, fra il 1330 e il 1350; se sia possibile - e non sembra del tutto pacifico - conciliare l'anomalia denunciata da Nardi, e già avvertita da Pietro, nei termini suggeriti da quest'ultimo, cioè che nella Commedia sia rappresentata una 'finzione poetica' ("ficte et transumptive loquendo") e nella uestioQuestQ
Questio una ricostruzione conforme alla verità e alla ragione naturale ("ad veritatem et naturalem rationem"); e ancora, se possibili toni e stilemi danteschi della Questio siano effettivamente così cogenti per quell'attribuzione, anche contro la scarsa presenza di un altro "stilema" tipico di Dante, quale il frequente appello alle auctoritates; ecc. Questioni complesse e delicate che ancora una volta richiedono, per un'opera di Dante, un supplemento di istruttoria e preliminarmente una sicura e ben documentata edizione critica, che si attende da Francesco Mazzoni. Mentre l'opera, letta comunemente nel testo allestito da Pistelli per l'edizione del '21, è accessibile da vari anni in una nuova edizione curata, con criteri più conservativi di quelli seguiti dai precedenti editori, da Giorgio Padoan, nella serie delle Opere di Dante in edizione commentata." (26)
4. IL GENERE LETTERARIO DELLA QUESTIO.
Innanzitutto domandiamoci che cos'era una questio nella cultura italiana dei primi anni del XIV secolo. Si trattava di un genere letterario ben definito da quasi due secoli, ossia circa dalla metà del XII secolo. Consisteva di una trattazione vertente su diversi problemi dottrinali, che potevano spaziare dalla teologia (la regina di tutti i saperi medioevali), alla filosofia, a quelle che noi oggi chiameremmo scienze e che allora andavano sotto il nome di "filosofia naturale". La questio non aveva carattere meramente espositivo, ma di viva ricerca e di rigoroso dibattito: non qualsiasi argomento poteva essere da essa sviscerato, ma quelli che presentavano particolari difficoltà e dubbi interpretativi. Questo è pertanto un primo punto significativo di tale genere letterario e, per riflesso, della cultura ad essa sottesa: si trattava di un approccio problematico al sapere (altro che monolitica rigidità della Scolastica!) che non escludeva, anzi presupponeva, un atteggiamento mentale basato, nei ricercatori, sul senso del limite e sul senso del mistero. Lo stesso Dante, nella Questio de aqua et terra, polemizza duramente - com'è nel suo focoso temperamento toscano - con quanti pensano di poter penetrare, con la sola ragione naturale, i recessi della mente divina.
"Desinant ergo, desinant ergo querere - dichiara a un certo punto, abbandonando per un momento lo stile sorvegliatissimo della disputa accademica per vestire i panni dell'ardente apostolo della verità cristiana - que supra eos sun, et querant usque quo possunt, ut trahant se ad immortalia et divina pro posse, ac maiora se relinquant. Audiam amicum Iob dicentem: "Nunquid vestigia Dei comprehendes, et Omnipotentem usque ad perfectionem reperies?". Audiam Psalmistam dicentem: "Mirabilis facta est scientia tua ex me: confortata est, et non potero ad eam." Audiant Ysaiam dicentem: "Quam distant celi a terra, tantum distant vie mee a ivis vestris"; loquebatur equidem in persona Dei ad hominem. Audiant vocem Apostoli ad Romanos: "O Altitudo divitiarum scientie et sapientie Dei, quam incomprehensibilia iudicia eius et investogabiles vie eius!". Et denique audiant propriam Creatoris vocem dicenties: "Quo ego vado, vos non potestis venire": Et hec sufficiant ad inquisitionem intente veritatis." (27)
Traduciamo: " Smettano pertanto gli uomini, smettano una buona volta d'indagare le cose che son fuori della lor portata: stiano paghi ad aspirar le cose immortali e divine, tralasciando d'investigare cose che eccedono la loro intelligenza. Diano retta all'amico di Giobbe che proclama: "Potrai forse tu seguire le vestige di Dio e abbracciare l'Onnipotente in ciò che ha di più perfetto?". Diamo ascolto al Salmista che esclama: "La tua conoscenza è tanto più della mia meravigliosa ed eccelsa che io non potrò nulla ad essa". Porgiamo orecchio ad Isaia che dice: "Quanto distano i cieli dalla terra, tanto distano le mie vie dalle vostre", parlando all'uomo nella persona di Dio. Ascoltino la voce dell'Apostolo ai Romani: "O profondità di dovizia di scienza e di sapienza in Dio! Quanto sono incomprensibili i suoi giudizi e inscrutabili le sue vie!". E ascoltiamo da ultimo la voce stessa del Creatore che dice: "Dove vado io, voi non potete venire". E questo basti all'indagine del proposto vero." (28)
Sembra di sentir echeggiare, in queste forti espressioni di Dante, il tono severamente ammonitore che ispira più di un passo della Commedia:
"Siate, Cristiani, a muovervi più gravi:
non siate come penna ad ogne vento,
e non crediate ch'ogne acqua vi lavi.
Avete il Novo e il Vecchio Testamento,
e 'l pastor de la Chiesa che vi guida:
questo vi basti a vostro salvamento.
Se mala cupidigia altro vi grida,
uomini siate, e non pecore matte,
sí che 'l Giudeo di voi tra voi non rida!" (29)
E ancora:
"Or tu chi se' che vuo' sedere a scranna,
per giudicar di lungi mille miglia
con la veduta corta d'una spanna? (30)
Ma, tornando al genere letterario della questio, cediamo la parola a un dantista insigne, Manlio Pastore Stocchi, che con esemplare chiarezza ne inquadra le caratteristiche formali: "Nella quaestio, come osserva lo Chenu (cfr. Introduzione allo studio di S. Tommaso, trad. ital. Firenze 1953, 71ss.), le risorse dell'antica dialettica e quelle della logica dimostrativa concorrono a determinare un impianto saldo e rigoroso - sia pure insidiato al pericolo del mero formalismo dialettico - nel dibattito dottrinale, in cui le materie più incandescenti si sottopongono così alla disciplina della ragione e alle leggi di un ordinato confronto di opinioni. Proprio per questa esigenza di rigore formale e sostanziale la quaestio, come genere letterario (l'espressione, anche se nella fattispecie largamente approsimativa, ci sia consentita per semplicità) tende ad assumere una struttura costante tanto nella disposizione generale della materia quanto negli strumenti logici, nelle formule e nel lessico. Ma la stesura letteraria è solo un aspetto del complesso realizzarsi del dibattito, che si distende in più momenti secondo un preciso rituale elaborato e fissato soprattutto nel costume dell'Università e che occorre riassumere brevissimamente qui per una migliore comprensione della Quaestio dantesca.
"Il maestro che si sottoponeva al cimento della questione ne fissava in anticipo l'argomento: questo era di regola espresso nella forma di un dilemma o di un'alternativa introdotta da utrum. […] Seguiva nel giorno stabilito la disputa vera e propria, durante la quale gli uditori ponevano le obiezioni cui rispondeva il maestro stesso o più di frequente il suo baccelliere che in questa fase gli faceva da portavoce. La discussione, che poteva farsi assai animata, non seguiva un ordine determinato ma evidentemente si sviluppava secondo la casuale successione degli interventi e degli argomenti degli obiettori: in questa prima fase incomposita e, per così dire, allo stato nativo, la materia era ancora indeterminata e richiedeva la determinatio, cioè la formulazione definitiva e ufficiale della dottrina da seguire, che il maestro avrebbe esposto in una seduta successiva. In questa egli raccoglieva, ordinava ed esprimeva in termini rigorosi le obiezioni che gli erano state mosse; ad esse faceva seguire gli argomenti a favore della dottrina che avrebbe sostenuto. Passava poi all'esposizione dottrinale della questione dibattuta, diffondendosi nell'esposizione e nella dimostrazione della propria tesi; infine riprendeva le obiezioni raccolte all'inizio e ordinatamente le controbatteva. La determinatio, posta per iscritto, costituiva il testo della 'questione disputata' e testimoniava ufficialmente la posizione dottrinale dell'autore (un maestro o comunque un responsabile di orientamenti culturali e ideologici), mentre della disputa vera e propria avvenuta nella prima tornata non restava documentazione scritta se non qualora vi alludesse la determinatio o, per esempio, la ricordasse in una sua opera qualcuno degl'intervenuti."
Riassumendo: "1) ogni questione si articola in due fasi, quella del dibattito aperto, per dir così puramente orale, e quella della determinatio in forma di conferenza di cui restava la stesura per iscritto; 2) nella determinatio l'autore non era affatto obbligato a tener conto di tutte le tesi che si opponevano alla propria, ma solo di quelle effettivamente sollevate e sostenute nel corso della discussione; 3) la struttura-tipo della determinatio comporta che la dimostrazione della dottrina tenuta per vera preceda la confutazione delle tesi ritenute erronee: quest'ordine, che Dante sintetizza nella formula provando e riprovando (Par., III, 3) a torto invertita dai commentatori, era dunque familiare al poeta (e naturalmente è rispettata nella Questio)." (31)
Giungiamo così alla conclusione che, essendo interamente rispettato lo schema formale delle questiones nell'opera attibuita a Dante sull'acqua e sulla terra, viene confermato che essa difficilmente può considerarsi un falso posteriore. Il falsario, infatti, avrebbe dovuto conoscere perfettamente tutte le regole sottese a quel tipo di letteratura (anzi, di oratoria) così com'era praticato fra Due e Trecento. L'unica consuetudine che, nella Questio de aqua et terra, non viene rispettata, è infatti quella che voleva si tenesse la determinatio nel primo giorno non festivo susseguente alla disputa, mentre in quel caso fu scelta una domenica; ma tale consuetudine era propria degli ambienti universitari, mentre la conferenza veronese si svolse fuori dello Studio scaligero e, casomai - come vedremo - ebbe precisamente lo scopo di propiziarvi l'ingresso al suo Autore. (32)
5. L'ARGOMENTO DELLA QUESTIO.
Cardine del pensiero teologico, filosofico e scientifico del Medioevo era che il centro della Terra coincidesse con il centro dell'Universo, e che le quattro sostanze di cui esso è costituito - terra, acqua, aria e fuoco - fossero collocate in sfere concentriche, a partire da esso, dalla più pesante alla più leggera. (33) L'acqua, di conseguenza, dovrebbe trovarsi in una circonferenza esterna alla terra, ovvero ricoprire uniformemente la supericie terrestre: cosa palesemente in contrasto con l'esperienza. "Il problema - scrive Giorgio Padoan - nasceva dalla convinzione scolastica, che prendeva le mosse da affermazioni aristoteliche, che gli elementi fossero disposti in sfere concentriche, pertanto la terra, che è la sfera più interna, dovrebbe essere in ogni suo punto avvolta dall'acqua: ed invece, innegabilmente, essa emerge." (34) Dunque o la premessa era errata o i dati dell'esperienza non erano ben interpretati.
Si tenga tuttavia presente che, nella cultura medioevale, le premesse dottrinali non venivano mai poste radicalemte in discussione (è ben questa la ragione principale del conflitto scatenato dall'ipotesi eliocentrica copernicana); piuttosto si cercava di armonizzare con esse i dati dell'esperienza, mediante un'opera di aggiustamento che si rivolgeva a questi ultimi, non alle prime. Insomma la concezione del sapere era tendenzialmente statica e dogmatica; le eccezioni alla regola si potevano e si dovevano spiegare volta per volta, ciascuna nel proprio ambito, ma senza mai arrivare a mettere realmente in discussione le premesse dottrinali. Adoperando un linguaggio moderno introdotto dal filosofo della scienza americano Thomas Kuhn (35), potremmo dire che il paradigma teologico-scientifico medioevale deve la sua notevole longevità proprio al fatto che come un padadigma veniva accettato, sostanzialmente chiuso verso altre forme e possibilità speculative ed epistemologiche; sarebbe infatti bastato metterne in discussione una sola delle premesse dottrinali (come appunto faranno Copernico, Bruno e Galilei) per provocarne la crisi totale e irreparabile.
La "spiegazione" di una tale disposizione mentale, da parte degli intellettuali medioevali, è assai semplice: le proposizioni dogmatiche generali sono in accordo, o discendono direttamente, dalle Sacre Scritture, dunque non possono contenere errori e sacrilego sarebbe volerle contestare o riformulare. Con ciò ben si accorda quell'atteggiamento psicologico di umiltà e di senso del limite, di cui già abbiamo detto, e che è così caratteristico di tutta la cultura del Medioevo, anche nelle sue figure più vigorose e originali, come appunto Dante Alighieri. Non si tratta di cieco ossequio al principio di autorità né, tanto meno, di pigrizia intellettuale, ma piuttosto della convinzione profondamente radicata che l'Universo è un tutto vivente ed armonioso, mosso dall'Amore divino che è, anche, infinita Sapienza. Scopo dell'umana ricerca non è dunque un sapere fine a sé stesso o che, peggio, possa procedere indipendentemente dalle leggi divine, bensì quello di adeguare la conoscenza con l'ammirato rispetto di quelle leggi e di quella perfetta armonia di cui, comunque, ci sfuggono le ragioni ultime. Insomma la filosofia naturale, per quasi tutti gli intellettuali medioevali - Dante compreso - non è un ramo autonomo del sapere, ma è intimamente collegato col "paradigma", se così vogliam chiamarlo, teologico. Quindi non esiste, né in Dante né in altri seguaci della Scolastica prima di Occam (36), un qualcosa che assomigli alla moderna epistemologia, perché la ricerca scientifica non è veramente distinta da quella teologica. Dante, come si è visto, insiste particolarmente sul necessario atteggiamento di umiltà speculativa da parte degli esseri umani, tanto da far dire a Virgilio, nella Divina Commedia, circa il mistero della Trintità divina:
"Matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.
State contenti, umana gente, al quia;
ché se possuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria;
e disiar vedeste sanza frutto
tai che sarebbe lor disio quetato,
ch'etternalmente è dato lor per lutto:
io dico d'Aristotile e di Plato
e di molt'altri" […] (37)
Tornando alla questione dei quattro elementi, era vivo - al tempo di Dante - il dibattito se la sfera dell'acqua potesse sovrastare, in qualche parte, la sfera della terra. Ne avevano trattato Campano da Novara ed Egidio Colonna; ne aveva trattato, proprio in quegli anni e, forse, nella stessa Verona, Antonio Pelacani, lettore di medicina a Bologna. Dante, come vedremo, elabora uno schema scientifico compatibile con gli insegnamenti dei primi due, che erano stati accolti ufficialmente dall'ordine agostiniano nel 1287, mentre tace addirittura della teoria del secondo che, postulando l'unicità del globo terracqueo ed il riflusso delle acque nelle cavità e negli spazi vuoti sotto la superificie terrestre, si poneva nel solco di un naturalismo totalmente svincolato dalla dottrina delle influenze celesti sul mondo sub-lunare, allora quasi universalmente accettata. (38)
"Dante rappresenta - scrive Claudio Redi - uno dei punti centrali, o forse l'espressione più sintetica, della cultura medievale. La caratteristica di tale culturale è l'unitarietà del sapere; vale a dire, che i vari aspetti della conoscenza umana (dall'arte alla scienza) sono ricondotti ad un comune 'giudizio'. Questo giudizio può essere definito come la tensione a un fine ultimo: tutte le cose tendono a un fine comune, e tale fine è il bene. Unum, verum, bonum convertuntur, dice San Tommaso nella Summa Theologica, esprimendo bene questa concezione unitaria che definisce bene il piano del reale e il piano gnoseologico." (39) E ancora: "Il sapere filosofico di Dante e del suo tempo è la Scolastica, che è utilizzata, come terminologia e come struttura, costantemente nel paradiso. Eppure, la Scolastica sarà messa in crisi - proprio nel Trecento - dall'occamismo, che ridurrà in termini relativistici l'unità di concezione propria del tomismo. Dante è ben lontano da questo: ma, nel Convivio e nel De Monarchia, si trovano accenni abbastanza chiari di averroismo; cioè, di una dottrina diversa e distinta dalla costruzione grandiosa di San Tommaso; di una dottrina che, ben nota nel cuore del Medioevo, rappresenta una forte negazione di una delle categorie fondamentali di quell'epoca (l'immortalità personale dell'anima). Per quanto riguarda la concezione del reale (la metafisica), Dante è però ancora profondamente legato alla struttura aristotelico-tomistica classica: e anche il suo secolo lo rimarrà lungamente. La riscoperta di Platone (posteriore al neoplatonismo francescano) è ancora lontana. Lo stesso discorso vale per la fisica e per le scienze empirico-fenomeniche." (40)
Il silenzio sulle contemporanee teorie del Pelacani, in ogni modo, non può essere addotto come indizio della paternità non dantesca della Questio (41), casomai come scelta intenzionale dell'Autore che può - forse - venir messa in relazione con le particolari circostanze in cui maturò la disputatio veronese, come tra poco diremo. Dobbiamo quindi domandarci, giunti a questo punto, perché Dante dedicò tempo ed energie preziosi, quando forse non aveva neanche terminato la terza cantica, per andare da Ravenna a Verona e tenervi una astrusa disputa di carattere scientifico davanti a un pubblico che, in parte non trascurabile, aveva deciso di umiliarlo con la propria fragorosa assenza.
6. RAGIONI ESTRINSECHE DELLA QUESTIO.