Camus, Sartre e i cattivi maestri
di Luca Gallesi - 26/09/2007
Anniversari Nel 1957 l’autore della «Peste» riceveva il Nobel, poi rifiutato dallo scrittore-filosofo Quel periodo vide la rottura fra i due: il primo difendeva i diritti umani al di là delle ideologie, il secondo restò sempre legato al comunismo
Un uomo ricco soltanto di dubbi, abituato alla solitudine del lavoro e al conforto delle amicizie». Con queste semplici parole, pronunciate a Stoccolma il 10 dicembre del 1957, Albert Camus si presentava all’Accademia che gli aveva appena conferito il Premio Nobel per la letteratura. Dopo mezzo secolo, quel suo discorso fa ancora riflettere, in particolare sullo scopo e la funzione della letteratura, che non è fine a se stessa, ma deve unire e affratellare il numero più grande possibile di persone. «L’artista deve essere umile -continua Camus - e accettare di servire tanto la verità, che è misteriosa, quanto la libertà, che è anche pericolosa. Non deve giudicare, bensì capire, senza mai disprezzare nulla». Molto lontano da questa concezione fu un altro intellettuale francese, che, nel 1964, il Premio Nobel invece lo rifiutò: Jean Paul Sartre, che pure era stato legato ad Albert Camus da una militanza politica e da una amicizia durata una decina d’anni, dal 1944 al 1954. Ammaliati dall’utopia comunista, entrambi però in qualche maniera scendono a patti con i tedeschi invasori della Francia, che apprezzano i testi teatrali di Sartre e le opere di Camus. I primi, infatti, vengono regolarmente rappresentati sui palcoscenici della Parigi occupata, mentre nel 1942, presso Gallimard, escono opere importanti di Camus come il romanzo Lo Straniero e il saggio Il mito di Sisifo, da cui era stato però espunto - con il consenso dell’autore - il capitolo dedicato allo scrittore ebreo Kafka. Nel 1951 Camus pubblica L’uomo in rivolta, un saggio considerato da Sartre reazionario perché critica la violenza delle rivoluzioni, a cui viene invece contrapposta la rivolta del singolo a favore di una solidarietà tra gli uomini che è la sola via d’uscita all’angoscia dell’esistenza. La lontananza tra i due intellettuali si trasforma in rottura nel 1954, quando l’impegno politico di Sartre diventa, nel libro I comunisti e la pace, un elogio acritico della dittatura. Camus non tollera la militanza cieca, pronta e assoluta di Sartre che si trasforma in eccesso di zelo quando impedisce la messa in scena della sua pièce teatrale Le mani sporche, perché interpretabile come una critica del bolscevismo. Un’altra cosa che li unisce, oltre all’ambizione e alla passione politica, è l’ateismo, anche se quello di Camus non gli impedisce di apprezzare il Decalogo, di cui elogia soprattutto la condanna dell’omicidio. La vita, in fondo, è per Camus buona persino quando sembra priva di senso. In Sartre, invece, l’assurdità della condizione umana lo porta all’indifferenza nei confronti della vita umana, che può essere calpestata in nome dell’ideologia. E anche quando, dopo i fatti d’Ungheria, Sartre prenderà a sua volta le distanze dal comunismo russo, non esiterà poi ad abbracciare la causa maoista con la sanguinosa Rivoluzione culturale. Albert Camus, invece, non ci sta; per lui, «la politica e il destino dell’umanità vengono forgiati da uomini privi di ideali e di grandezza. Gli uomini che hanno dentro di loro la grandezza non entrano in politica». Gli sarà quindi facile etichettare gli intellettuali militanti come cattivi maestri: «La loro scusa è la spaventosa grandezza di quest’epoca. C’è in loro qualcosa che aspira alla servitù». E aveva buon gioco a deridere coloro che, dopo aver demolito tutti i dogmi religiosi tradizionali, si facevano chierici di un altro dogma, questa volta ideologico e politico: il marxismo-leninismo. Per Camus l’unità di misura del valore e della grandezza è l’uomo, con la sua capacità di calarsi nella realtà concreta. Quella stessa realtà concreta, fatta di radici ed esperienze, che ad esempio non gli permette di schierarsi a fianco dell’indipendenza dell’Algeria, perché quella scelta lo avrebbe messo contro la madre, pied-noir che in Algeria viveva ancora. Ed è sempre quella concretezza ricca di pietas che lo spinge, appena ricevuto il Nobel, a telefonare riconoscente al suo maestro, per ringraziarlo, commovente testimonianza di un altro stile e un altro mondo, dove gli uomini erano uomini e le scuole scuole. Ma già dal 1947 Camus con La peste aveva indicato nell’amore e nella solidarietà tra gli uomini la via per superare l’angoscia e la disperazione esistenziale. Mentre Sartre supera indenne le mode e la contestazione per giungere, riverito maestro, alle soglie degli anni Ottanta, il fato spezza la vita di Camus il 4 gennaio 1960, quando, ad appena 47 anni, si schianta in macchina con il suo editore, Michel Gallimard. In tasca aveva un biglietto del treno, a cui aveva fatidicamente rinunciato all’ultimo momento, ma che restava il suo mezzo di trasporto preferito, consapevole - come aveva spesso pubblicamente affermato - che la morte in automobile è la più assurda di tutte le morti. Sensibile ai temi che oggi verrebbero definiti «ecologisti», aveva intuito già mezzo secolo fa i pericoli di un mondo corrotto, «dove sono mescolate rivoluzioni fallite, una tecnologia impazzita, divinità morte e ideologie consunte».
Pareri a confronto
Quanti cadaveri nell’armadio, ma almeno senza stupidità
Solo lo scrittore algerino fu paladino di umiliati e offesi
Albert Camus, che ho sempre amato, è un modello eterno, il testimone di un mondo migliore, dove si ha stima per la conoscenza, e si crede che essa sia trasmissibile. Egli è uno scrittore che ama più il singolo che l’umanità, e quindi è capace di descrivere un mondo vivido e concreto, che irrompe dalla pagina. Oggi, invece, rivedrei il giudizio molto severo che ho espresso in passato nei confronti di Sartre. Ritengo che, in fondo, una figura come quella di Sartre sia ben più necessaria di quella dell’«intellettuale che si dimette», per ritirarsi in quella equivoca resistenzialità che, secondo me, è solo una nuova difesa di vecchie rendite di posizione. Le persone come Sartre - e, da noi, come Moravia - sono intellettuali tipici dei Paesi socialisti, dove però godevano di una protezione da parte del Partito. Bisogna capire, senza ipocrisie, che c’è un grande teatro del mondo e che, quindi, certi ruoli vanno ricoperti senza moralismi. Dove lo Stato è assoluto, queste figure diventano anche dei porti franchi, sotto la cui ala protettrice si può persino coltivare il dissenso. Certo, Sartre ha molti aspetti di disonestà intellettuale, ma non arriva mai, come invece succede oggi, a credere nelle menzogne che dice. Sartre fa politica, e quindi ha dei cadaveri nell’armadio; ma i suoi cadaveri mi sembrano meno morti di molti cretini vivi che circolano oggi. Al di là delle sue opere, ne rivaluterei insomma la competenza: Sartre sapeva benissimo cos’è una poesia o un romanzo, e non si farebbe schiacciare dall’attuale dittatura del mercato.
Luca Doninelli
Personalmente, ho sempre apprezzato Camus molto più di Sartre; tra l’altro, il suo discorso in occasione della consegna del Nobel è un testo che ha influito molto sulla mia formazione personale e professionale. Ad un certo punto, per esempio, c’è un’osservazione molto precisa, quando dice che il compito dello scrittore è quello di parlare a nome di chi non può farlo: un’affermazione che quando la lessi - ero ancora un ragazzo - mi colpì come un fulmine. C’è in Albert Camus una responsabilità della parola che egli ribadisce in tutta la sua opera, una responsabilità che mi sento di condividere e che faccio mia. Al contrario, mi sento davvero distante dall’esempio sartriano, che giudico algido, cerebrale, in una parola: troppo intellettuale. Naturalmente devo riconoscere a Sartre una statura importante, anzi, monumentale nel Novecento, ma gli preferisco Camus perché costui è stato davvero il paladino degli umiliati e degli offesi. Camus non ha mai dimenticato di avere origini modeste e di avere vissuto, dopo la morte del padre nella Grande guerra, nel quartiere più povero di Algeri. Nel suo lavoro si riflettono anche queste esperienze, dal ginocchio sbucciato durante i giochi nei cortili delle case popolari alla perenne fatica di tirare avanti.
Eraldo Affinati