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Il ruolo geopolitico dell'Iran nello scacchiere mondiale

di Stefano Vernole - 20/12/2005

Fonte: Rinascita



Il recente documento dell’American Enterprise, opportunamente riportato dal giornalista Maurizio Blondet (1) in un articolo dove si mette peraltro in dubbio l’appoggio israelo-americano alla Turchia negli stessi termini previsti più di un anno fa dalla rivista “Eurasia” (2), mette la parola fine alle stucchevoli polemiche sul ruolo dell’Iran nello scacchiere geopolitico mondiale.
Come confermato dallo “speciale” di ben due pagine dedicato all’uscita del documento statunitense anche dalla stampa ufficiale(3), Stati Uniti e Israele si preparano ad attaccare l’Iran; l’unico dubbio riguarda le modalità dell’aggressione e la prevedibile reazione negativa di Russia e Cina, preoccupate per le ovvie implicazioni strategiche ed economiche di un’ eventuale guerra (Mosca sta infatti proponendo di sviluppare il nucleare iraniano all’interno dei propri confini e Pechino ha da poco stipulato con Teheran un contratto quindicinale per forniture petrolifere).
Le parole utilizzate dai neocons, attualmente tra i principali consiglieri di Bush, non lasciano dubbi: “gli Stati Uniti devo scatenare la guerra politica totale contro gli islamo-fascisti di Teheran, sia all’interno sia all’esterno dell’Iran …”.
Malgrado le accuse di essere una nuova Unione Sovietica e di spartirsi con gli Stati Uniti la zona del Golfo Persico, a quanto pare l’Iran è decisamente nel mirino del Pentagono e l’unica incertezza riguarda i tempi del conflitto.
Ma era veramente così difficile capirlo? Se nelle analisi si seguisse un po’ di logica geopolitica, certamente no.
Già all’inizio del 2005 avevo segnalato in un articolo dedicato alla resistenza irachena(4) le varie modalità della strategia nordamericana e soprattutto i suoi scopi bellici.
L’Iran era chiaramente uno degli obiettivi principali della “guerra al terrorismo” intrapresa da Washington per due motivi fondamentali: la guerra euro-dollaro e la conquista dell’Eurasia.
Nel 2001 il regime degli Ayatollah aveva manifestato la volontà di vendere in euro le proprie riserve di petrolio e ora secondo le ricerche dell’esperto giornalista statunitense William Clark, Teheran ha annunciato l’apertura entro il marzo del 2006 di una nuova borsa petrolifera, alternativa alle uniche due ufficialmente riconosciute, il Nymex di New York e l’International Petroleum Exchange di Londra.
Ha aggiunto Clark: “Se la borsa iraniana prendesse piede, l’euro potrebbe irrompere definitivamente negli scambi petroliferi. Considerando il livello del debito statunitense e il progetto di dominio globale portato avanti dai neocons, la mossa di Teheran costituisce una minaccia molto seria alla supremazia del dollaro nel mercato petrolifero internazionale”(4).
Anche in questa logica vanno allora interpretati gli ottimi rapporti tra Venezuela ed Iran, due Stati che apparentemente avrebbero poco da spartire ma che rappresentano attualmente i principali protagonisti della lotta antiamericana all’interno dell’OPEC(5).
Gli interventi militari statunitensi in Afghanistan e in Iraq trovano poi giustificazione in un altro desiderio strategico della geopolitica nordamericana: l’occupazione del Rimland (l’anello marginale eurasiatico) quale mossa decisiva per il controllo dell’Heartland (la Siberia) passa attraverso la formazione di un cuneo tra i due colossi terrestri, Russia e Cina, che devono essere tenuti separati; in questa logica la sconfitta dell’Iran rappresenta il naturale proseguimento dell’avventurismo militare dell’Amministrazione Bush.
Spazzati i dubbi geopolitici analizziamo ora le critiche inopinatamente poste al regime di Teheran, il cui unico effetto è quello di confondere le acque e allentare la naturale solidarietà a una nazione che sta per essere colpita dall’imperialismo a stelle e strisce.
a)L’Iran è un paese esotico?
Sicuramente no, visto che già dal punto di vista etimologico “Iran” significa “Terra degli Arii” e gli Iraniani sono un popolo indoeuropeo(6).
Si può certamente discutere sulla bontà o meno del sistema teocratico guidato dagli Ayatollah, ma riteniamo strano che le critiche provengano dai teorici antiliberali che si rifanno ai regimi fascisti e comunisti, sistemi di governo ideologicamente antidemocratici e in cui la separazione tra politica e religione è tutt’altro che scontata(7).
Evidentemente non piace allora la religione musulmana, sulla cui visione del mondo il dibattito è certamente auspicabile, senza dimenticare però che l’Islam nella sua versione sciita assume forme molto radicali ed è particolarmente idoneo a raccogliere il consenso delle masse diseredate, cioè proprio i ceti sociali ai quali qualsiasi movimento rivoluzionario dovrebbe naturalmente indirizzarsi.
Più che criticare il culto del martirio o la radicalità del sistema iraniano, bisognerebbe chiedersi perché invece qualsiasi messaggio centrato sulla logica del sacrificio trovi oggi rispondenza in Italia al massimo nelle curve degli stadi … Peraltro la religione musulmana non è assolutamente estranea alla storia dell’Europa(8), perciò anche la solita solfa sulla storia della battaglia di Lepanto rischia al massimo di portare acqua al mulino della guerra di civiltà huntingtoniana senza favorire la riscoperta di un’identità europea ormai annichilita dal modello consumistico “made in USA”.
b) L’integralismo islamico fa il gioco degli Stati Uniti e ha procurato più danni che vantaggi alla causa palestinese, al contrario il sostegno degli Stati “laici” (termine che in realtà nel mondo arabo anche analizzando lo statuto del Baa’th vuol dire poco) è stato foriero di successi.
Sicuramente l’Islam nella sua versione wahabita è sempre stato funzionale agli interessi di Washington e non è necessario riepilogare qui questa connivenza.
Cosa c’entri però l’Iran sciita con il wahabismo propagandato dall’Arabia Saudita rimane un mistero, considerando i rapporti di assoluta ostilità anche storica oltrechè strategica tra le due varianti islamiche.
Teheran non ha ad esempio mai riconosciuto l’indipendenza della Cecenia e ha sempre combattuto il regime talebano in Afghanistan, incappando in unico errore geopolitico, il sostegno ai musulmani di Bosnia in guerra contro i Serbi nel tentativo d’inserirsi sullo scacchiere regionale balcanico.
Una mossa avventata subito stoppata dagli Stati Uniti che hanno invece dato via libera agli amici sauditi(9); chi si fosse recato subito dopo il conflitto a Sarajevo, avrebbe notato come siano i marines e non certo i pasdaran ad aver acquisito il controllo della capitale bosniaca.
Sulla Palestina il discorso è ancora più semplice.
Certo in passato fu la stessa entità sionista a favorire la crescita di Hamas, alfine d’indebolire al Fatah, ma dopo il riconoscimento di Israele da parte della componente laica dell’OLP, è spettato alla resistenza islamica il compito di tenere alta la speranza.
A meno che non si voglia considerare possibile la famosa soluzione dei “due Stati per due popoli”, il più evidente inganno sionista dagli anni Quaranta del XX secolo ad oggi, tanto strombazzata nei mass media da godere di un sostegno fragoroso che parte da Ciampi e Berlusconi per finire al “Forum Palestina” dei centri sociali.
Riguardo ai grandi successi conseguiti dall’ex amico dell’Asse, il presidente egiziano Sadat, ricordiamo che innanzitutto non fu in grado a Camp David di collegare il ritiro israeliano dal Sinai alla questione palestinese e fu protagonista di un tradimento clamoroso ai danni dell’alleato siriano durante la guerra del 1973(10), al punto da poter essere definito più un Badoglio che un Pavolini …
Il suo cinismo nazionalista fu tanto clamoroso che al confronto la logica dell’interesse nazionale perseguita da Teheran appare veramente poca cosa.
Al contrario, l’intervento militare di Assad in Libano dopo l’invasione sionista del 1982 e l’appoggio della stessa Damasco (alleata non a caso dell’Iran) alla resistenza armata di Hizbullah successivamente, hanno segnato la prima vera sconfitta sul campo di Tel Aviv, che è stata costretta a rivedere completamente la propria strategia espansionistica modellata sul progetto del “Grande Israele” dal Nilo all’Eufrate.
Ridimensioniamo poi una volta per tutte la supposta onnipotenza del Mossad e dell’entità sionista: lo Stato di Israele non sarebbe in grado di sopravvivere un solo giorno senza il sostegno economico e militare degli Stati Uniti; i ripiegamenti passati dipendono perciò solo dalla volontà trilateralista e non certo dal moderatismo del cd. “fronte arabo laico”.
c) L’Iran non appoggia la resistenza irachena e si è addirittura augurato la morte di Saddam Hussein.
Sicuramente il regime degli Ayatollah ha finora tenuto una posizione estremamente moderata nelle vicende irachene, che in alcuni casi possono avere coinciso con gli interessi di Washington, ma non si devono dimenticare alcune considerazioni fondamentali.
Dopo l’11 settembre 2001 la furia vendicatrice statunitense si è abbattuta in maniera devastante sul mondo, facendo temere possibili conseguenze distruttive su tutti coloro che non si allineavano prontamente alla logica del Pentagono.
In questa ottica si spiegano i temporanei “ripiegamenti” di Mosca e Pechino e il clamoroso voltafaccia operato dalla Libia di Gheddafi nella “strategia antiterroristica”; la moderazione iraniana appare allora molto più simile, anche dal punto di vista stilistico, a quella effettuata da Russia e Cina, il desiderio di guadagnare tempo e non essere coinvolta immediatamente nella “guerra infinita” di Bush jr.
Ricordiamo che la Casa Bianca ha d’altronde sempre mantenuto l’Iran nella lista dei cd. “Stati canaglia” e ancora oggi accusa Teheran di fornire ospitalità a membri di Al Qaeda.
Consideriamo inoltre tutti i seguenti fattori:
l’Iran non controlla tutte le comunità sciite dell’Iraq, come erroneamente si vorrebbe far intendere, ma solo una parte di esse;
gli sciiti iracheni non sono comunque estranei alla resistenza armata contro l’occupazione degli angloamericani (e dei loro vassalli) e tutti gli sciiti chiedono il ritiro delle truppe atlantiste dal paese;
Iraq e Iran vengono da una guerra costata quasi un milione di morti e dovuta innanzitutto da un errato calcolo di Saddam Hussein, ovvio che il Rais non goda di particolari simpatie a Teheran.
Le tradizionali baruffe su quale tra le due nazioni fosse maggiormente sostenuta da Washington appaiono ridicole di fronte alle ammissioni di Kissinger sulla volontà statunitense di far dissanguare i due rivali e calibrare i rifornimenti per riequilibrare sempre la situazione sul campo ;
contrariamente a quanto fatto dall’altro regime baa’thista, quello di Damasco, o dal governo laico del Cairo, (l’Egitto di Mubarak gode della maggiore quota di aiuti militari statunitensi nel mondo dopo Israele), l’Iran non ha però partecipato all’aggressione del 1991 contro l’Iraq, facendo così naufragare tutte le strampalate teorie sui fronti laici o sui fronti islamici dell’area mediorientale.
Anzi, poco prima dell’invasione del 2003, Teheran e Baghdad avevano mostrato concreti segnali di riavvicinamento, che influirono non poco sulla decisione del Pentagono di attaccare(11).
Riepiloghiamo perciò la situazione generale per giungere alle conclusioni.
Dopo l’11 settembre 2001 la strategia degli Stati Uniti ha subito un netto cambiamento rispetto al passato, anche se il fine ultimo (cioè la conquista del mondo attraverso il controllo dell’Eurasia) rimane lo stesso; chi si ostina ancora a giudicare le possibili evoluzioni di Washington prendendo a modello il passato non ha capito una cosa essenziale: il Medio Oriente sta per essere rivoltato e perfino i tradizionali alleati della Casa Bianca, l’Egitto, la Turchia e l’Arabia Saudita rischiano da un momento all’altro di essere travolti e traditi.
Ragionare ancora in termini di “guerra fredda” o di “terze posizioni” significa voler stare in mezzo tra i due fuochi: quello dell’aggressore a stelle e strisce e del suo alleato sionista e quello dei popoli (tutti) che da tale uragano sono investiti. Dubitare della necessità di portare sostegno all’Iran, adducendo che esso non costituisce un baluardo rivoluzionario della “Tradizione” (tesi sostenuta in Italia dalla sola rivista “Avanguardia” e non certo da tutti coloro che solidarizzano con Teheran) genera solo confusione nelle eventuali frange antagoniste e devia dall’obiettivo principale: la resistenza all’imperialismo nordamericano.
Sarebbe poi molto semplice divagare, sottolineando la novità del cambio di guida alla presidenza iraniana, che vede in Mahmoud Ahmadinejead un prodotto di quel “cameratismo delle trincee” che teoricamente dovrebbe costituire la base per la costruzione di una nuova aristocrazia.
A meno che gli “esempi” non si debbano cercare tra i “buttafuori” da discoteca che si riciclano come sbirri al servizio delle multinazionali e della CIA in Iraq.
Si potrebbe anche constatare come nemmeno la stampa borghese abbia osato mettere in dubbio la pulizia morale e lo stile di vita spartano di Ahmadinejead, che ha spazzato via ogni possibilità di ritorno alle logiche dei venditori di pistacchi o dei tiepidi riformisti.
Piaccia o non piaccia, l’Iran nello scacchiere geopolitico mondiale rappresenta un soggetto politico sovrano, situazione che non è concessa alla colonia chiamata Italia, prima perciò di qualsiasi eventuale critica nei confronti di Teheran sarebbe opportuno chiedersi cosa poter fare per mutare lo stato di sudditanza totale della nostra “nazione”.
La sconfitta militare degli Stati Uniti, combattessero pure contro il conte Dracula o gli zingari del Montenegro, ne costituisce la premessa indispensabile.
Suggestionare qualche credulone auspicando invece un’ Europa immaginaria che dovrà essere difesa dai Turchi, dai musulmani e in prospettiva dai Cinesi, invece, non serve a nessuno se non proprio a Washington.
Constato con piacere che a distanza di mesi dal suo scetticismo nei confronti del presidente russo Vladimir Putin, il serio analista Giulietto Chiesa ne abbia riconosciuto i meriti e soprattutto la prospettiva geopolitica che non è ormai più europea ma asiatica(12).
Così come condivido pienamente i distinguo fatti dal quotidiano “Rinascita” a proposito della battaglia sull’evidente innocenza di Luigi Ciavardini riguardo alla strage di Bologna.
Essa purtroppo s’inserisce nella logica della “guerra di civiltà” per la quale oggi è necessario che la strage del 2 agosto 1980 non sia più fascista ma palestinese e perciò islamica.
Capisco adesso perché Furio Colombo (autore nel 1991 del libro “Per Israele”, in tempi in cui perfino Gad Lerner criticava l’entità sionista …) fu uno dei primi sostenitori del comitato “E se fossero innocenti” che si battè per la revisione del processo che condannò Mambro e Fioravanti.
Non possiedo la sfera di cristallo e quindi rimane difficile fare una previsione su quanto accadrà nel futuro, ma su una sola cosa si possono avere delle certezze: un cambiamento reale può avvenire solo attraverso un processo rivoluzionario che ponga fine al sistema liberalcapitalista sostenuto dall’apparato militare statunitense, chi si considera un vero socialista europeo non deve temere quello che accadrà dopo.