Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Pc cinese, il congresso del partito-azienda

Pc cinese, il congresso del partito-azienda

di Siegmund Ginzberg - 15/10/2007



OGGI A PECHINO si apre il diciassettesimo congresso del Pcc. È un assise di dinosauri. Ma sono dinosauri dinamici. La Cina corre come un treno, ha bisogno di petrolio e materie prime ma non fa guerre. E come scrive il Financial Times «ha trasformato il Partito comunista in una grande holding»

Non ci sono mai state, né è previsto che ci siano un giorno primarie nel Partito comunista cinese. Non c’è molta suspense sul fatto che il 17mo Congresso del Pcc, che si apre oggi a Pechino, confermerà Hu Jintao, per altri cinque anni, a capo del partito. E non ci sarà bisogno che si presentino poi di fronte all’elettorato per essere confermati lui presidente e Wen Jibao capo del governo: la Cina non vota a suffragio universale per eleggere i propri dirigenti nazionali.
La suspense, concordano tutti gli esperti, riguarda semmai la successione, chi gli subentrerà dopo il 2012. Non è questione da poco. Sui successori erano scivolati anche leader del calibro di Mao Tse-tung e Deng Xiaoping. Anzi avevano addirittura portato il paese sull’orlo della catastrofe, l’uno con la rivoluzione culturale, l’altro con piazza Tiananmen. La successione in Cina si misura sull’ordine di arrivo dei nuovi entranti nei massimi organismi del partito, l’ufficio politico e il suo comitato permanente.
Si dice che la grande novità sul piano della «democrazia interna di partito» potrebbe essere che stavolta ci sarà un numero di candidati maggiore di quelli che risulteranno eletti. Pare che abbiano studiato con molta attenzione il precedente dell’ultimo congresso del Partito comunista vietnamita, tenutosi lo scorso anno, in cui c’erano addirittura due candidati al posto di segretario generale. E forse applicheranno il metodo ai successori in pectore. Non si tratta di outsider o nuovi arrivati: i nomi che circolano tra i candidati in lizza sono quelli di personalità testate, già al vertice della nomenclatura di partito. C’è, tra i politologi, chi prova a classificarli e distinguerli tra «populisti», che insistono sulla «società armoniosa», cioè preoccupati di non allargare la frattura tra la Cina che corre e si arricchisce e quella che invece è rimasta povera (tra questi Li Keqiang, segretario del Liaoning, nel nord est industriale, una regione di fabbriche che hanno dovuto chiudere ed operai licenziati, che sarebbe anche il favorito di Hu) ed «elitisti», attenti soprattutto a non danneggiare la crescita economica a rotta di collo, il boom delle regioni costiere (tra questi il segretario di Shanghai, Xi Jianping).
Il Pcc non è un partito a vocazione maggioritaria. È un partito a vocazione totalitaria. Non fanno neanche finta di imitare la democrazia occidentale. Non pretendono trasparenza nelle decisioni e nella scelta dei propri gruppi dirigenti. I 73 milioni di membri del Pcc sono agli occhi del restante miliardo di cinesi una «casta» da far impallidire quella di cui si parla da noi. In un paese dove si stima che ci siano 162 milioni di persone che hanno accesso a internet e 450 milioni di telefonini, tutti i mezzi di informazione, sono controllati dal partito, tutte le decisioni vengono prese a porte chiuse. Il partito ha l’emplein dei poteri forti e deboli insieme. Il partito controlla non solo le forze armate, in omaggio al principio maoista per cui «il potere nasce dalla canna del fucile», ma anche la magistratura, l’opinione pubblica, la Banca centrale, l’economia di Stato, e a quanto pare ora persino quella privata. Ho trovato diabolicamente affascinante la descrizione, letta l’altro giorno sul Financial Times, la descrizione di come un partito che continua a chiamarsi «comunista», sia riuscito a «colonizzare» persino i centri nevralgici del proprio «capitalismo» privato. «Sono riusciti a fare del Partito comunista cinese la più grande holding al mondo», è il modo in cui la mette, con una battuta, ma forse neanche tanto, Ding Xueliang, testa d’uovo della americana Carnegie Endowment a Pechino. Sono insomma riusciti a realizzare un «partito azienda», verrebbe da dire.
Certo, il partito non è affatto monolitico, né in economia, né sulle scelte politiche, né sul resto. Si scontrano mille fazioni fondate su gruppi di interesse, differenze tra città e regioni, giochi di potere locali, interessi personali, come in qualsiasi altro sistema politico. C’è una corruzione diffusa e dilagante, ci sono risse a non finire, capricci c’è arroganza da parte dei potenti, ci sono scontri feroci. Eppure, pare che alla fine il sistema funzioni perché tutti alla fine dipendono dalle decisioni di «un solo padrone».
Qualcosa di familiare con le vicende politiche di casa nostra? Forse. Ma con una differenza: che loro se lo sono potuti permettere perché vanno a gonfie vele. Noi no. Tutto questo è roba da età della pietra, preistoria della democrazia. Senza neanche troppi sforzi per presentarsi con un volto più moderno. In un certo senso il Congresso di Pechino si presenta come un’assise di dinosauri, destinati all’estinzione se non sapranno adeguarsi. Ma la cosa da cui non si può prescindere è che questi dinosauri sono i più dinamici, vispi che ci siano al mondo di questi tempi. La Cina corre come un treno, cambia con un ritmo mozzafiato. L’economia cinese ha un bisogno disperato di petrolio e materie prime, molto più dell’America, ma non hanno fatto guerre. Anzi, sono diventati pacificatori, gli «aggiustatutto» delle grandi crisi internazionali. «Mr. Fixit» delle crisi nucleari, li ha definiti il New York Times dopo che hanno convinto Kim Jong Il a rinunciare all’atomica, a Washington si guarda a Pechino per l’Iran. C’è da rammaricarsi che non li abbiano coinvolti in Iraq.
È alla Cina che si guarda perché fermino la mano ai generali in Birmania. Da quando è diventato lui il capo del partito, cinque anni fa, Hu Jintao pare insomma non averne sbagliata una. Ha consolidato senza scosse il suo potere, ha mediato tra le mille anime del partito unico, ha promosso i suoi alleati nelle regioni, è riuscito ad evitare che si scannassero l’un l’altro. Ha saputo dosare rassicurazioni alla casta, a coloro che temono di perdere i privilegi, con rassicurazioni a coloro che stanno male, ai contadini, agli sfruttati, ai più deboli.