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Eur, la fondazione della "Terza Roma"

di Filippo Ceccarelli - 28/11/2007

    
Grazie al ritrovamento da parte di Mauro Miccio di numerose foto che ritraggono la costruzione del quartiere romano dell’EUR, Filippo Ceccarelli ripercorre la storia e le ragioni che indussero Mussolini alla fondazione della “Terza Roma” negli anni trenta. L’intenzione, sembra suggerita da Bottai nel 1935, era quella di festeggiare il ventennale della marcia su Roma e con esso la gloria del fascismo. Mussolini chiamò a lavorare all’EUR i migliori architetti italiani dell’epoca e scelse la doppia via del moderno e del grandioso per celebrare la maturità «della civiltà italiana, romana e fascista». La costruzione del quartiere venne bloccata dalla Seconda guerra mondiale e dagli anni ‘50 l’EUR è diventato una zona residenziale e di uffici pubblici.

[...] Negli scantinati del Palazzo della civiltà italiana, il cosiddetto “Colosseo quadrato”, e in quelli del Palazzo degli uffici, dove ha sede Eur Spa, sono stati ritrovati diversi rimarchevoli materiali tra cui delle foto stupende. O meglio: per iniziativa del professor Mauro Miccio, che nella sua pur varia carriera di teorico e manager della comunicazione mai avrebbe sospettato di trasformarsi in una specie di archeologo della sua azienda oltre che della zona in cui lavora, sono state restaurate delle lastre fotografiche, invero piuttosto malridotte, che adesso offrono allo sguardo visioni degne di un Cartier-Bresson. Mentre invece sono istantanee anonime, trovatelle, probabilmente prodotte nel corso di sopralluoghi per esigenze di lavoro.
Ebbene: queste immagini non solo cantano, ma in qualche modo riscattano le stesse ragioni che le avevano precipitate sotto terra, nell’abbandono e nella vergogna. Rappresentano infatti i lavori di costruzione dell’E42, il vasto insediamento che l’architettura del regime mussoliniano aveva in programma per degnamente celebrare, con un’esposizione internazionale che poi mai si fece, i vent’anni della marcia su Roma; e la gloria pregiudiziale del fascismo; e il genio italico ritornato sui «colli fatali» dell’Urbe; e l’attitudine bellica di un popolo che il Duce qualificava «di poeti di artisti di eroi di santi di pensatori di scienziati di navigatori di trasmigratori» come ancora si legge sul frontone di quel gigantesco cubo razionalista che perfino nel numero dei piani (sei) e delle arcate (nove) sembra dovesse riflettere, conteggiandole, le lettere di Benito e di Mussolini.
Ebbene, in cima a quel monumento inconcluso, nel vuoto della campagna assolata si staglia oggi la sagoma di un operaio che ha la grazia raccolta di un acrobata. In un’altra foto si vede una fila di lavoratori che a forza di braccia tirano un cavo con le stesse facce, gli stessi sguardi e la stessa concentrazione di certe icone del New Deal. Potenza. Equilibrio. Geometria. Poesia. Operai a cavalcioni sull’arco che Adalberto Libera non ha ancora appoggiato al vertice del Palazzo dei congressi: ma in bilico su una struttura appoggiata a dei tubi Innocenti c’è anche l’ingegnere con il suo cappello Borsalino, ed è come se danzasse tra fili e carrucole, sotto un cielo bianchissimo, come una specie di figura di Chagall. Sono figurazioni astratte e insieme umanissime presenze che a settant’anni di distanza finiscono per purificare quella pazza avventura architettonica che fu l’E42. Il pasto dei manovali, il silenzio che si coglie su quella scena, le scarpe impolverate in primo piano, il grappolo d’uva, le pietre spezzate, tutto sembra anticipare le inquadrature del neorealismo. [...]
Memorie pesanti che recuperano di colpo la loro leggerezza. Viene da pensare che forse è stato davvero un bene che quelle lastre fotografiche, quei pezzi di vetro alla gelatina ai sali d’argento siano rimaste sepolte così a lungo, pure sfidando umidità, crinature, fratture, graffi, impronte, abrasioni; ma anche fastidio, vergogna, mancanza di senso.
Un umile scalpellino è alle prese con un marmoreo bassorilievo, apoteosi del lavoro e della santità, pare di capire, al piano di sopra; mentre al piano terra, a grandezza naturale, si santifica la potenza militare, legionari con casco e fucile a tracolla, bandiere, labari, insegne, gagliardetti, donne supplicanti un condottiero a cavallo, anche se in piedi, e pure con elmetto, un braccio proteso nel saluto romano, l’altro con il pugno appoggiato minacciosamente sui fianchi. E l’omino vero che nell’umile foto di lavoro se ne sta lì sotto, a rifinire quella bizzarra creazione che presto verrà tragicamente contraddetta dagli eventi - e ciò che resta di quel tempo è la sua camicia, il suo berretto, la pacifica sua fatica. Postuma, per giunta, eppure o forse proprio per questo tale da ristabilire una ragionevole gerarchia di ricordi, di valori e di segni, e proprio nel cuore del sogno mattoide dell’E42.
Fu il più illuminato dei gerarchi, Giuseppe Bottai, a spingere Mussolini su quella strada già nel 1935, in vista del ventennale del regime. Il Duce scelse l’area delle Tre Fontane, e subito fu entusiasta del progetto, che interessò i migliori architetti su piazza. [...] Ancora oggi si fatica a capire cosa veramente significasse quel progetto per Mussolini, se non il tentativo, forse, di regolare personalmente i suoi conti con Roma, quale essa era e ancor più quale lui la sentiva: scettica, pittoresca, disordinata, opportunista, irridente. Così si proclamò demiurgo della fantomatica “Terza Roma”, dopo quella dei Cesari e dei Papi, convincendosi della necessità di allestire una bianca scenografia per i riti totalitari.
Sul piano estetico puntò sull’imperium, sul grandioso e sul moderno, proponendo l’E42 come «l’ostentazione consapevole e matura della civiltà italiana, romana e fascista in tutti i suoi aspetti», come ha sintetizzato Vittorio Vidotto (Roma contemporanea, Laterza, 2006). Non era previsto che qualcuno potesse opporsi a quest’idea.
«La Terza Roma - venne inciso sull’edificio nei cui scantinati finirono le foto - si dilaterà sopra altri colli lungo le rive del fiume sacro sino alle spiagge del Tirreno». Ma in questa pur legittima indicazione urbanistica, almeno sulla carta, entrò di tutto: teatri, palazzi, musei, padiglioni (uno da dedicare al fratello defunto di Mussolini), archi di trionfo in metallo, elementi di classicismo onirico e cimiteriale, statue di uomini nudi che tenevano a freno cavalli o si strusciavano addosso a leoni con la lingua penzolante. Ma soprattutto guerrieri, armi, eroismo.
Si è poi capito, purtroppo, dove buttava questa impostazione. Ora si comprende bene come quelle frenesie, quelle forme, quei materiali, tutto insomma era coerente con un potere che stava andando a rotta di collo verso la sua autodistruzione. La guerra prima rallentò i cantieri, poi tra mille vicissitudini abbandonò l’Eur al suo destino, che per la verità ebbe poi a rivelarsi meno drammatico del previsto, dal momento che il quartiere resuscitò dalla sua desolazione di sterpi e travertino divenendo ricca zona residenziale, sede di ministeri, impianti sportivi, set cinematografici e luna park; e al giorno d’oggi anche così lodevolmente interessata alla sua storia, l’ex Ente Eur ora Eur Spa, da affrontare onerosi lavori di restauro figurativo.
Ma nel frattempo, e quindi nell’immediato dopoguerra, il Palazzo degli uffici, da cui oggi il professor Miccio governa agevolmente seduto su una preziosa scrivania anni trenta pure scovata in cantina e risanata, si trovò a ospitare centinaia di esuli giuliano-dalmati. Per cui sottoterra, chissà come, finirono anche delle foto di quella stagione, e ce n’è una di bimbe che giocano e saltano e ballano con i loro grembiulini nei viali deserti. In quella Roma, in quell’Italia così povera e insieme così ricca di speranza.