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"Amico" e "nemico" nel pensiero politico di Carl Schmitt

di Francesco Lamendola - 15/12/2007

 

 

 

Se vi è un pensatore politico la cui opera sia più che mai viva nel mondo contemporaneo, quegli è il tedesco Carl Schmitt (1988-1986), le cui dottrine si possono vedere in controluce, ad esempio, nella praxis inaugurata dall'Amministrazione repubblicana statunitense dopo l'11 settembre del 2001 (ma in effetti, per chi sapeva vedere, anche assai prima di quella data e anche da parte di precedenti Amministrazioni, democratiche, di quella nazione).

Carl Schmitt, già membro del Consiglio di Stato prussiano e presidente dell'Associazione dei giuristi nazionalsocialisti durante il nazismo, proveniva da una famiglia del ceto operaio e di religione cattolica. In realtà, del cristianesimo (come dell'hegelismo) condivideva il pessimismo antropologico in quanto era convinto di una "caduta" dell'uomo da una condizione originaria di felicità, che lo aveva reso "cattivo"; ma, a differenza del cristianesimo, non credeva in un suo possibile riscatto e pensava, con Machiavelli e con Hobbes, che l'unico mezzo per impedirgli di scatenare una guerra di tutti contro ciascuno fosse riposta in un potere statale forte, tanto più necessario e tanto più problematico ora che, con l'avvento della modernità, erano venute meno le forme tradizionali della legittimità (ad esempio, il potere monarchico di diritto divino).

Pertanto, in opere come Romanticismo politico (1919), la dittatura (1921), Teologia politica (1922), Dottrina della costituzione (1928), Legalità e legittimità (1932), egli aveva fatto quanto stava in lui per affossare la Repubblica di Weimar, sostenendo che se lo stato di diritto si identifica con l'ordine giuridico, resta però da vedere chi abbia l'autorità di decidere, quale sia il soggetto della sovranità. Infatti la norma, per poter essere efficace, deve potersi attuare all'interno di un ordine stabilito; ma ogni ordine stabilito nasce da una decisione che crei le condizioni affinché la norma possa avere efficacia. Ecco allora che la sovranità risiede in chi  decide quello stato di eccezione che fonda la norma: la norma, dal canto suo, non può essere fondante né originaria: originario è lo stato di eccezione.

La logica conclusione di tutto questo ragionamento è che l'ordine costituito, in effetti, non riposa su di una norma ma su di una decisione. La decisione, a sua volta, non solo precede logicamente la fondazione della norma, bensì la precede anche storicamente, tanto più che ogni qual volta le tendenze distruttive insite nella società tendono a prevalere, l'ordine costituito viene messo in pericolo e si richiede, per ristabilirlo, un intervento eccezionale. Ma chi decide quando lo stato è in pericolo ed è necessario un potere dittatoriale per salvaguardarlo e ripristinarne l'autorità? La norma non può stabilire quando venga meno lo stato di normalità e subentri quello di eccezione; essa può solo indicare chi, eventualmente, abbia il potere di intervenire per salvare lo stato dal disastro. In definitiva, quindi, la sovranità risiede in chi possiede l'autorità e solo un governo di eccezione, cioè una dittatura, può salvare lo stato dal collasso nei momenti di maggiore pericolo, non certo il regime parlamentare con le sue lungaggini, le sue faziosità, la sua chiacchiera inconcludente che serve solo a mascherare l'impotenza e i calcoli sotterranei di una ipocrisia eretta a sistema.  Certo, per il pensatore tedesco la dittatura deve essere "temporanea", poiché la sua funzione è quella di superare e vincere le difficoltà che minacciano l'ordine costituito; tuttavia il suo "realismo" politico, basato sulla convinzione che la politica è necessaria perché gli uomini sono fondamentalmente cattivi, lo porta - sulla scia del Leviatano di Hobbes - a postulare la necessità di uno stato decisionista che sia pronto, mediante un atto rivoluzionario, a rifondare la norma in qualsiasi momento; ciò che sfuma, e di molto, i confini tra dittatura temporanea e normalità giuridica.

Non è certo difficile vedere, in controluce a queste teorie di Carl Schmitt, sia il conferimento dei pieni poteri a Hitler dopo l'incendio del Reichstag a Berlino, sia la "carta bianca", ossia la sospensione delle garanzie costituzionali, che George Bush junior ha ottenuto dal Congresso americano dopo il crollo delle Torri Gemelle a New York.

Ma la filosofia politica di Schmitt sembra condurre inevitabilmente verso un tale esito anche per un altro motivo. Egli, infatti, sostiene che ogni forma statale viene elaborata in corrispondenza di un centro di riferimento spirituale che è storicamente determinato e, quindi, muta via via col tempo. Nel Medioevo, ad esempio, il centro di riferimento spirituale universalmente accettato in Europa era di tipo teologico e si traduceva, nell'ambito del politico, in una teorizzazione delle monarchie di diritto divino, il cui scopo era imporre pace e giustizia sulla Terra a immagine e somiglianza del Regno dei Cieli, di cui era - per così dire - il riflesso mondano. Ma tra il Seicento e l'Ottocento i vari sistemi di riferimenti si sono succeduti a ritmo sempre più veloce finché, col XX secolo, il sistema di riferimento è divenuto il mondo della tecnica. Ora, il mondo della tecnica è teoricamente fruito, o fruibile, da tutti e diviene, pertanto, un centro di riferimento totale, il che esclude che esso possa fungere da terreno neutrale per lo scontro tra sistemi di riferimento antagonisti e da fucina per l'elaborazione di un nuovo centro. La tecnica diventa, così, il presupposto per ogni forma di vita organizzata e, non che costituire un modello di riferimento per le altre forme della vita sociale, finisce per essere l'elemento comune a tutte. Cade a questo punto la distinzione fra ciò che è politico e ciò che non lo è; tutto diventa politico e tutto diventa parte della vita e del funzionamento dello stato; si origina lo stato totale.

Ma, nello stato totale, caratterizzato dal fatto che in esso ogni forma di vita associata diventa statale, la politica stessa viene inglobata in una nuova realtà, ove politico e statale diventano un tutt'uno, inseparabile e indistinguibile. Questo significa anche, insieme alla fine dello "stato classico" - basato appunto sulla distinzione di statuale e politico - la fine della politica? No, perché nello stato totale emergono con prepotenza due categorie fondamentali che ne giustificano la dialettica interna: quella di "amico" e quella di "nemico". Con il suo caratteristico disprezzo per il pensiero politico liberale, Schmitt mette bene in chiaro che l'antica distinzione fra amico e nemico, basata sul concetto di concorrenza, è da considerarsi ormai del tutto superata. Amico e nemico sono ormai  determinati, l'uno rispetto all'altro, dalla categoria di una radicale alterità, ossia di una impossibilità di comporre indefinitamente i contrasti sul piano concreto, esistenziale, e quindi dalla necessità di ricorrere al conflitto mediante una decisione. Ed ecco che il cerchio si chiude: lo stato può far valere la propria norma legale, e trovare la propria unità politica (superando e neutralizzando i dissensi interni) nella misura in cui ha di fronte un "nemico" - che, evidentemente, può essere tanto esterno quanto interno - e decide, mediante una rottura dell'ordine costituzionale, di affrontarlo in no scontro totale.

Ormai dovrebbe essere chiaro che, se il pensiero di Carl Schmitt va debitore a von Clausewitz del concetto di una guerra totale e teoricamente illimitata, e ad Heidegger del pessimismo esistenzialista per cui l'unica vera decisione è quella di un essere-per-la-morte, altrettanto esso influenza sia quello di Severino (la tecnica come il luogo privilegiato del nichilismo dell'Occidente), che il nucleo dell'interpretazione storiografia di Ernst Nolte (lo stato nazista totalitario come "risposta" alla minaccia dello stato sovietico totalitario). Sono anche evidenti i legami tra la filosofia politica di Schmitt e la filosofia della storia di Spengler: gli anni della modernità e della tecnica sono "decisivi" perché preludono alla scontro totale fra stati totali, fra i quali non è possibile alcuna durevole mediazione e sarà la forza bruta a decidere quale risulterà vincitore e degno di sopravvivere. Del pari evidenti le analogie, e le derivazioni, dal pensiero di Jünger: siamo ormai nell'era dei titani e non vi è più spazio per una risoluzione concordata dei conflitti politici; ogni conflitto è un conflitto totale e richiede una soluzione radicale, che può essere data solo mediante l'annientamento dell'avversario.

Certo, è cosa sin troppo facile indicare in Carl Schmitt un "cattivo maestro" e rimproverargli di aver fornito gli strumenti ideologici per legittimare uno dei più spietati sistemi politici che la storia moderna abbia prodotto, con tutto il suo corollario di guerra, sofferenze e devastazioni. Tuttavia ci sembra doveroso ricordare come il concetto di società totale è già implicito nei meccanisni tecnici, economici e finanziari propri della società di massa e che la graduale erosione della distinzione fra politico e non politico è iniziata molto prima che il filosofo tedesco la teorizzasse nelle sue opere. Noi, oggi, ne stiamo vivendo una fase alquanto avanzata, così avanzata che tendiamo a non rendercene neppure conto; infatti, siano già quasi abituati a considerare normale una riduzione del "privato" ai minimi termini e, in nome dell'economia globalizzata, una sempre maggiore compenetrazione delle categorie del politico e dello statuale - anche se il nostro stato di cittadini occidentali del terzo millennio non è più lo stato-nazione ma bensì, come direbbero Toni Negri e  Michael Hardt, l'Impero (che non coincide, se non in parte e temporaneamente, con l'Impero americano).

Tuttavia potremmo riandare almeno alla prima guerra mondiale per trovare il primo esempio, nella storia contemporanea, di una guerra totale in senso ideologico (oltre che economico e sociale), cioè finalizzata a ottenere la resa a discrezione dell'avversario e, possibilmente, il suo annientamento; e si ricordi che, infatti, il 1918 vide la distruzione di quattro Imperi secolari, uno dei quali - quello austro-ungarico - non sarebbe riapparso sulle carte geografiche nemmeno in forma riveduta e corretta, come lo fu per gli altri tre (il russo, il germanico e l'ottomano). Si paragoni, per fare un esempio, la moderazione di Metternich al congresso di Vienna del 1815, che accetta la tesi di Talleyrand sulla esclusiva responsabilità di Napoleone nel ventennio di guerre che avevano sconvolto l'Europa e riammette, con gli altri alleati, la Francia nel novero delle grandi potenze, con la ferma determinazione di Clemenceau, alla conferenza di Versailles del 1919, di imporre alla Germania una pace "punitiva", tale da lasciarla prostrata, materialmente e moralmente, quanto più a lungo possibile, facendo di tutto per impedirne la ripresa economica, politica e militare.

Alla luce di tali precedenti storici, e anche dell'avvento del regime sovietico in Russia, con la creazione del primo stato veramente totalitario della storia, riesce difficile negare il fatto che Carl Schmitt si sia ispirato a un realismo politico che, pur se machiavellicamente brutale, in sostanza non inventava niente di nuovo ma si limitava a teorizzare e codificare una evoluzione della politica che era già pienamente avviata nei fatti.

 

Affinché il lettore posa farsi meglio una propria idea di quanto abbiamo qui sopra sostenuto, crediamo di rendergli un servizio utile riportando un passaggio decisivo di Carl Schmitt, là dove il filosofo delinea il suo concetto di ciò che è "politico" e opera la fondamentale (e funesta) distinzione tra amico e nemico quali categorie fondamentali della politica statuale (da Le categorie del politico, traduzione di P. Schiera, Bologna, Il Mulino, 1972, p. 108 sgg.). Non sarà difficile notare, al tempo stesso, quali e quanti fili leghino il pensiero politico di Schmitt a quello di Giovanni Gentile, sostenitore dello "stato etico": dal comune disprezzo per il pensiero politico liberale e per gli istituti della democrazia, all'abolizione della distinzione fra pubblico e privato in nome di uno stato che assorba in sé anche l'intera sfera del privato.

 

"Si può raggiungere una definizione concettuale del 'politico' solo mediante la scoperta e la fissazione delle categorie specificamente politiche. Il 'politico' ha infatti i suoi propri criteri che agiscono, in modo peculiare, nei confronti dei diversi settori concreti, relativamente indipendenti, del pensiero e dell'azione umana, in particolare del settore morale, estetico, economico,. Il 'politico' deve perciò consistere in qualche distinzione di fondo alla quale alla quale può essere ricondotto tutto l'agire politico in senso specifico. Assumiamo che sul piano morale le distinzioni di fondo siano buono e cattivo; su quello estetico, bello e brutto; su quello economico, utile e dannoso oppure redditizio e non redditizio. Il problema è allora se esiste come semplice criterio del 'politico', e dove risiede, una distinzione specifica, anche se non dello stesso tipo delle precedenti distinzioni, anzi indipendente da esse, autonoma e valida di per sé.

"La specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici, è la distinzione di amico (Freund) e nemico (Feind). Essa offre una definizione concettuale, cioè un criterio, non una definizione esaustiva o una spiegazione del contenuto. Nella misura in cui non è derivabile da altri criteri, essa corrisponde per la politica, ai criteri relativamente autonomi delle altre contrapposizioni: buono e cattivo per la morale, bello e brutto per l'estetica e così via. In ogni caso essa è autonoma non nel senso che costituisce un nuovo settore concreto particolare, ma nel senso che non è fondata né su una né su alcuna delle altre antitesi, né è riconducibile ad esse. Se la contrapposizione di buono e cattivo non è identica senz'altro e semplicemente a quella di bello e brutto o di utile e dannoso, e non può essere direttamente ridotta ad esse, ancor meno la contrapposizione di amico e nemico può essere confusa con una delle precedenti. Il significato della distinzione di amico e nemico è di indicare l'estremo rado di intensità di un'unione o di una separazione, di un'associazione o di una dissociazione; essa può sussistere teoricamente e praticamente senza che, nello stesso tempo, debbano venir impiegate tutte le altre distinzioni morali, estetiche, economiche o di altro tipo. Non v'è bisogno che il nemico politico sia moralmente cattivo o esteticamente brutto; egli non deve necessariamente presentarsi come concorrente economico e forse può anche apparire vantaggioso concludere affari con lui. Egli è semplicemente l'altro, lo straniero (der Fremde) e basta alla sua essenza che egli sia esistenzialmente, in un senso particolarmente intensivo, qualcosa d'altro e di straniero, per modo che, nel caso estremo, siano possibili con lui conflitti che non possano venir decisi né attraverso un sistema di norme prestabilite né mediante l'intervento di un terzo 'disimpegnato' e perciò 'imparziale'.

"La possibilità di una conoscenza e comprensione corretta e perciò anche la competenza ad intervenire e decidere è qui data solo dalla partecipazione e dalla presenza esistenziale. Solo chi vi prende parte direttamente può porre termine al caso conflittuale estremo; in particolare solo costui può decidere se l'alterità dello straniero nel conflitto concretamente esistente significhi la negazione del proprio modo di esistere e perciò sia necessario difendersi e combattere, per preservare il proprio, peculiare modo di vita. Nella realtà psicologica, il nemico viene facilmente trattato come cattivo e brutto, poiché ogni distinzione di fondo, e soprattutto quella politica, che è la più acuta e intensiva, fa ricorso a proprio sostegno a tutte le altre distinzioni utilizzabili. Ciò però non cambia niente quanto all'autonomia di quelle contrapposizioni. Vale perciò anche il rovescio: ciò che è moralmente cattivo, esteticamente brutto ed economicamente dannoso, non ha bisogno di essere per ciò stesso anche nemico; ciò che è buono, bello ed utile non diventa necessariamente amico, nel senso specifico, cioè politico, del termine. La concretezza ed autonomia peculiare del 'politico' appare già in questa possibilità di separare una contrapposizione così specifica come quella di amico-nemico da tutte le altre e di comprenderla come qualcosa di autonomo.

"I concetti di amico e nemico devono essere presi nel loro significato concreto, esistenziale, non come metafore o simboli; essi non devono essere mescolati e affievoliti da concezioni economiche, morali o di altro tipo, e meno che mai vanno intesi in senso individualistico-privato, come espressione psicologica di sentimenti e tendenze private. Non sono contrapposizioni normative o 'puramente spirituali' .Il liberalismo ha cercato di risolvere, in un dilemma per esso tipico di spirito ed economia, il nemico in un concorrente, dal punto di vista commerciale, e in un avversario di discussione, dal punto di vista spirituale. In campo economico non vi sono nemici, ma solo concorrenti; in un mondo completamente moralizzato ed eticizzato solo avversari di discussone. Qui non viene assolutamente in discussione il problema se si ritenga riprovevole oppure no o se si consideri un retaggio atavico di tempi barbarici il fatto che i popoli continuano a raggrupparsi in base al criterio di amico e nemico, né ha rilevanza che si speri che tale distinzione possa un giorno essere abolita dalla terra, oppure chi si pensi che sia buono e giusto fingere, per scopi pedagogici, che non vi sono più nemici. Qui non si tratta di finzioni e di normatività, ma solo della plausibilità e della possibilità reale della nostra distinzione. Si possono condividere o meno quelle speranze e quelle tendenze pedagogiche, non si può comunque ragionevolmente negare che i popoli si raggruppano in base alla contrapposizione di amico e nemico e che quest'ultima ancor oggi sussiste realmente come possibilità concreta per ogni popolo dotato di esistenza politica.

"Nemico non è il concorrente o l'avversario in generale. Nemico non è neppure l'avversario privato che ci odia in base a sentimenti di antipatia. Nemico è solo un insieme di uomini che combatte almeno virtualmente, cioè in base a una possibilità reale, e che si contrappone ad un altro raggruppamento umano dello stesso genere. Nemico è solo il nemico pubblico, poiché tutto ciò che si riferisce ad un simile raggruppamento, e in particolare  ad un intero popolo, diventa per ciò stesso pubblico. Il nemico è l'hostis, non l'inimicus in senso ampio: il polemios non l'echthros. La lingua tedesca, come altre, non distingue fra 'nemico' privato e politico, cosicché sono possibili, in tal campo, molti fraintendimenti ed aberrazioni. Il citatissimo passo che dice «amate i vostri nemici» (Matteo, 5, 44; Luca, 6, 27) recita «diligite inimicos vestros» e non «diligite hostes vestros»: non si parla qui del nemico politico. Nella lotta millenaria fra Cristianità ed Islam, mai un cristiano ha pensato che si dovesse cedere l'Europa, invece che difenderla, per amore verso i Saraceni o i Turchi. Non è necessariamente odiare personalmente il nemico in senso politico, e solo nella sfera privata ha senso 'amare' il proprio nemico, cioè il proprio avversario. Quel passo della Bibbia riguarda la contrapposizione politica ancor meno di quanto non voglia eliminare le distinzioni di buono e cattivo, di bello e brutto. Esso soprattutto non comanda che si debbano amare i nemici del proprio popolo e che li si debba sostenere contro di esso."

 

Quanti di noi, riflettendo sul concetto di Carl Schmitt che lo stato può far valere la propria norma legale, e trovare la propria unità politica solo nella misura in cui ha di fronte un "nemico", non saranno corsi col pensiero all'attacco americano contro l'Afghanistan  e contro l'Iran, agli abusi di Guantanamo, alle minacce di guerra contro l'Iran? E a quanti, leggendo la frase in cui sostiene che solo chi partecipa direttamente al conflitto è in grado di "decidere se l'alterità dello straniero nel conflitto concretamente esistente significhi la negazione del proprio modo di esistere e perciò sia necessario difendersi e combattere, per preservare il proprio, peculiare modo di vita", non sono tornati alla mente i ritornelli mediatici con i quali si tentò di giustificare politicamente sia la prima che la seconda guerra del Golfo? L'Occidente deve combattere, si disse, non solo e non tanto per difendere il controllo dei giacimenti di petrolio, quanto per preservare il suo modo di vita: i quattro pasti caldi ogni giorno, il calore dei termosifoni, l'uso dell'automobile privata. Goffi tentativi di dare un minimo di dignità ideologica a due guerre di aggressione tipicamente imperiali, in confronto ai quali, istintivamente, ci viene voglia di preferire la prosa secca, brutale, non-emotiva di Carl Schmitt.

Almeno il filosofo tedesco, come del resto il suo maestro Machiavelli, non pretendeva di fare della morale sulla pelle dell'avversario vinto e spogliato di tutti i suoi beni, come fanno i neoconservatori dell'Amministrazione repubblicana statunitense.

Così come, del resto, il "cannibale felice" di Montaigne (di cui abbiamo parlato in un recente articolo) uccideva i suoi nemici solo per mangiarseli, e non perché non era riuscito a convertirli alla sua religione o ai suoi costumi o alla sua visione della vita.