Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / L'anno della guerra degli oleodotti

L'anno della guerra degli oleodotti

di Manlio Dinucci - 30/12/2005

Fonte: Il Manifesto

 

Gli Usa perdono il primo round

[per comprendere i termini reali del confronto di potenza in atto, vera faglia degli imminenti conflitti nell'area, con potenziali risvolti globali ndr]


Il 2005 si chiude con l'inaugurazione, avvenuta il 15 dicembre, di un nuovo oleodotto in Asia centrale. Questa volta, però, a Washington non hanno brindato al lieto evento: esso infatti porta il petrolio non a occidente ma a oriente. L'impianto, realizzato dalla China national petroleum corp. (Cnpc), collega il Kazakistan alla Cina attraverso un percorso di 962 chilometri e ha una capacità di 200mila barili giornalieri. Non molto alta, ma non per questo meno preoccupante per gli interessi statunitensi nella regione. Il corridoio orientale viene aperto appena sette mesi dopo il maggiore corridoio occidentale: l'oleodotto tra il porto azero di Baku, sul Caspio, e quello turco di Ceyhan, sul Mediterraneo. All'inaugurazione del primo tratto, lo scorso 25 maggio, era presente il segretario Usa all'energia Bodman, con una lettera del presidente Bush che definiva l'oleodotto una «conquista storica». Di questo non c'è dubbio: con i suoi 1.770 chilometri l'oleodotto Baku-Ceyhan aggira la Russia a sud.

A controllare il greggio - che verrà pompato dal Caspio al Mediterraneo nella misura di 1 milione di barili al giorno nel 2007 - è un consorzio (di cui fa parte anche l'Eni) capeggiato dalla Bp che, dopo la fusione con la Amoco, è divenuta anglo-statunitense. Il costo dell'opera (4 miliardi di dollari) è stato finanziato con fondi pubblici internazionali. I profitti invece finiranno nelle casse delle compagnie petrolifere. Quello che preme a Washington è un altro e ancora più importante tipo di profitto: sottrarre alla Russia l'area strategica del Caspio per portarla sotto il proprio controllo. A Washington hanno fatto però i conti senza l'oste: la Cina, la cui compagnia statale Cnpc ha acquistato lo scorso ottobre la canadese PetroKazakhstan che possiede grosse riserve in Kazakistan. Tre settimane prima era fallito, a causa dell'opposizione del Congresso Usa, il tentativo della Cnpc di acquistare la statunitense Unocal. Con l'acquisizione della PetroKazakhstan, Pechino si assicura l'accesso alle riserve kazake, stimate in 35 miliardi di barili (il doppio di quelle del Mare del Nord) ma che potrebbero essere anche il triplo. Con una produzione di circa 1,3 milioni di barili al giorno, il Kazakistan ha superato l'Azerbaigian collocandosi dopo la Russia tra le repubbliche dell'ex Urss. L'oleodotto inaugurato il 15 dicembre rientra in un progetto molto più ampio. Una volta terminato il tratto Kenkiyak-Kumkol, sarà possibile pompare un milione di barili al giorno (quasi la capacità dell'oleodotto Baku-Ceyhan) dal Kazakistan alla Cina. Attraverso lo stesso corridoio passerà anche il petrolio russo diretto alla Cina. Non solo: l'accordo cino-iraniano del 2004, in base al quale la Cina si impegna ad acquistare petrolio e gas liquefatto per 70 miliardi di dollari e a sviluppare il giacimento di Yadavaran, prevede anche la costruzione di un oleodotto di 386 chilometri che, partendo dall'Iran, si collegherà al corridoio Kazakistan-Cina. Si delinea quindi una sempre più stretta cooperazione tra Cina, Russia e Iran, che suscita a Washington crescenti preoccupazioni. Il piano statunitense di occupare il «vuoto» lasciato dal crollo dell'Urss, soprattutto nell'area del Caspio e dell'Asia centrale, sta incontrando difficoltà molto maggiori di quelle previste. Nella «guerra degli oleodotti» l'apertura del corridoio orientale, frutto dell'accordo cino-russo non solo nel settore energetico, ha fatto fallire il tentativo statunitense di monopolizzare il petrolio del Caspio. Nella concomitante «guerra delle basi» anche per il controllo militare dei corridoi energetici, gli Stati uniti si sono assicurati in Kirghizistan, con la «rivoluzione dei tulipani», un governo amico e quindi la permanenza nella base aerea di Manas. In Uzbekistan sono stati invece costretti a lasciare la base aerea di Karshi-Khanabad, per decisione del presidente Karimov dietro cui ci sono sicuramente Mosca e Pechino. Da parte sua Mosca mantiene in Kirghizistan la base aerea di Kant e in Tagikistan quella terrestre di Dushanbe.

Il 2005 si chiude così con nuove tensioni che preludono a ulteriori conflitti. Sicuramente a Washington stanno programmando altre «rivoluzioni arancioni» nell'area dell'ex Urss, ma a Mosca non stanno con le mani in mano: dopo la «rivoluzione arancione» che ha portato alla presidenza in Ucraina il filo-statunitense Viktor Yushchenko, la Russia ha presentato il conto quintuplicando il prezzo del gas fornito a questo paese.
Aumenta allo stesso tempo la possibilità di un attacco israelo-statunitense all'Iran, temuto in realtà non tanto per il suo programma nucleare quanto per il suo programma petrolifero: rafforzata dall'accordo con la Cina, Teheran ha intenzione di aprire una Borsa petrolifera che potrebbe minacciare la supremazia di quelle di New York e Londra. Anche la Siria è nell'occhio del mirino, soprattutto ora che la China national petroleum corp. ha acquistato, insieme alla maggiore compagnia indiana, il 37% dei diritti di sfruttamento dei giacimenti siriani posseduti dalla Petro-Canada. Su questo sfondo, diviene ancora più importante per gli Stati uniti mantenere il controllo delle riserve petrolifere irachene. L'oro nero si colora così, sempre più, di rosso sangue.