In uno dei suoi libri, Chogyam Trungpa ricorda che mentre viveva in Tibet, era molto affascinato dalla vita occidentale.
Pensavo che gli occidentali possedessero un’etiquette e una saggezza molto sottili. Sapevano come costruire aeroplani, macchine complesse e tutte le altre meraviglie della tecnologia. Di fronte a una tale saggezza nel campo degli oggetti, pensavo che i loro creatori possedessero altrettanta disciplina personale.
Quando avevo quattordici anni, mi venne regalato il primo orologio. Veniva dall’Inghilterra e non riuscii a resistere alla tentazione di aprirlo, per vedere come funzionava. Lo scomposi completamente. Cercai di rimetterlo insieme, ma non funzionava più. Poi mi venne regalato un orologio che batteva le ore. Era il dono di un altro insegnante tibetano, un altro rinpoche, che tra l’altro era il fratello di uno dei miei molti insegnanti in Tibet: Sua Santità Dilgo Khyentse Rinpoche. Ogni cosa funzionava a perfezione dentro questo orologio, quindi decisi di aprirlo e scomporlo.
Volevo paragonarne le parti con quelle che avevo già smantellato dal mio orologio da polso. Sistemai le componenti di entrambi gli orologi fianco a fianco e cercai di capire come funzionassero queste macchine, come erano messe insieme. Quando scomposi il secondo orologio, potei vedere gli errori che avevo fatto con il primo, e riuscii a ricomporre l’orologio. In realtà, riuscii a rimettere insieme entrambi gli orologi, li pulii e funzionavano meglio di prima.
Ero molto orgoglioso di quello che avevo fatto. Pensavo che in Occidente ci fossero grande disciplina, minuta precisione, profonda accuratezza e immensa pazienza, generate dal numero infinito di piccole viti che andavano ruotate. Credevo che qualcuno avesse creato ogni piccola componente con le sue mani. Naturalmente, all’epoca non sapevo che esistevano le fabbriche. Ero molto impressionato e provavo un grandissimo rispetto.
Poi, venendo in Occidente, incontrai i produttori degli orologi, piccoli e grandi, e quelli di altre macchine che fanno cose sensazionali, come gli aeroplani e le automobili. Capii che in Occidente non c’era molta saggezza, ma c’era molto sapere. Chogyam Trungpa. Great Eastern Sun. Shambhala. Boston. 1999
Questo diverso atteggiamento verso la tecnologia mi porta a chiedere cosa cerchiamo negli strumenti. Essi sono solo un modo per “fare le cose” ed estendere le nostre capacità, o possono essere strumenti per lo sviluppo delle nostre doti umane? Attraverso gli strumenti dobbiamo arrivare a un risultato il più velocemente possibile, senza la nostra attenzione consapevole, o possiamo usarli come mezzi per la formazione dell’anima?
I bambini usano gli strumenti in modo giocoso, senza bisogno di arrivare da nessuna parte. Spesso distruggono ciò che hanno appena creato, e quello è il momento più divertente. In Tibet esiste la tradizione della creazione del Mandala che, una volta completato (talvolta dopo settimane o mesi), viene distrutto.
Prendiamo, a esempio, un semplicissimo strumento come un coltellino che si può usare per intagliare il legno. Potremmo cominciare progettando un disegno, poi ne programmiamo la realizzazione e magari siamo impazienti di vedere il lavoro terminato. Potremmo imprecare se non otteniamo la forma desiderata, o essere orgogliosi quando il “lavoro” è finito.
Oppure potremmo cominciare senza progetti, sentire il contatto con il legno e lo strumento, lasciare che il disegno fluisca secondo il momento, permettere i nostri “errori” e integrarli in un disegno diverso, scoprendo consapevolmente nuove doti nelle nostre mani, osservando da dove viene l’inclinazione a fare una certa cosa e prendendo nota di tutti i diversi stati d’animo che affiorano durante l’intagliatura: le nostre gioie, frustrazioni, silenzi. In tal modo possiamo sviluppare la nostra attenzione, pazienza, consapevolezza e capacità di lasciare andare i progetti e accettare il flusso sempre mutevole della vita.
Nella nostra cultura, la tecnologia è concepita per dare più potere, per aumentare le capacità. L’enfasi è su ciò che possiamo fare con determinati strumenti, non sul come lo facciamo, né sul come un determinato strumento si connette al nostro sé interiore o alla comunità delle persone.
Ogni compito ripetitivo tende a divenire inconscio dopo un certo periodo, e la nostra attenzione non è più presente. La mente desidera ardentemente novità e si annoia facilmente. Percepisco che nel desiderio di automazione non c’è solo la spinta dell’ego a divenire più potente aumentando le nostre capacità: c’è anche il bisogno di recuperare consapevolezza verso un lavoro che, dopo molte ripetizioni, è divenuto stantio. Quanto progettiamo l’automatizzazione di un lavoro, dobbiamo studiarne dettagliatamente il processo ed essere consapevoli delle relazioni tra le parti; vediamo quell’attività con occhi nuovi. Tuttavia, una volta automatizzato il lavoro, la nostra attenzione e presenza svaniscono: il compito è assegnato alla macchina e noi siamo “liberi” dalla ripetizione.
Quando non diamo alle nostre attività il valore di strumenti di crescita, né proviamo alcuna gioia nelle nostre azioni, sorge il bisogno di automatizzare tutto ciò che può essere automatizzato, incluse le attività connesse allo sviluppo dell’anima. Il punto non è quanto un’attività è noiosa o utile, ma come può plasmare la nostra anima. Nei monasteri Zen anche i compiti più ripetitivi, come la mondatura del riso, venivano usati come una via verso la consapevolezza.


