Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Economia shock

Economia shock

di Alessio Mannucci - 21/01/2008

 

“Solo uno shock può trasformare il politicamente impossibile in politicamente inevitabile”, amava dire Milton Friedman ai suoi discepoli, i famigerati “Chicago Boys”, che per tutti gli anni '80 e '90 hanno avuto il controllo della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. Un insegnamento che i suoi seguaci hanno saputo mettere in pratica con sconcertante abilità. Così, il trauma dell'attacco al World Trade Center newyorchese ha permesso a Bush di appaltare ad aziende private la sicurezza interna e le guerre all'estero; il cataclisma che ha colpito il sudest asiatico sul finire del 2004 ha permesso di allontanare - ufficialmente “per ragioni di sicurezza” - centinaia di migliaia di pescatori, liberando le spiagge per nuovi villaggi turistici.

Privatizzazione, liberalizzazione, deregolamentazione sfrenata del sistema economico di un paese - questo il credo della scuola di Chicago - possono essere ottenuti proprio a partire da uno shock: guerre, colpi di Stato, torture e dittature militari, ma anche eventi naturali come terremoti o tsunami, sono non solo catastrofi per l'umanità, ma anche strumenti più che validi - delle “buone possibilità” - per ridisegnare l'economia in senso neoliberista, per “riprogrammarla” a proprio piacimento.

Dopo “No Logo Economia globale e nuova contestazione” (Baldini&Castoldi, Milano, 2001), una critica dell'industria dei “marchi” e delle “firme” con cui la società occidentale applicare nei confronti del Terzo Mondo politiche di sfruttamento globale, la giornalista canadese Naomi Klein riprende il discorso con “Shock Economy L'ascesa del capitalismo dei disastri” (Rizzoli, 2007).

“... la ricostruzione dopo l'uragano ha cancellato in un attimo le case popolari e le scuole pubbliche di New Orleans; l'onda dello tsunami ha allontanato dalle coste centinaia di migliaia di pescatori, liberando le spiagge per nuovi villaggi turistici”. Due “disastri” che hanno costituito una fortuna per tutti quelli che ne hanno approfittato per mastodontiche e ricchissime speculazioni immobiliari. Tutto il libro è un “viaggio” all'interno di questa logica, la stessa che faceva dire a Richard Baker, un importante membro repubblicano del Congresso americano: “Siamo finalmente riusciti a ripulire il sistema delle case popolari a New Orleans. Noi non sapevamo come fare, ma Dio l'ha fatto per noi”.

Come dice la Klein, è lo stesso sistema economico, che richiede crescita costante, e che si oppone a quasi tutti i tentativi seri di regolamentazione ambientale, a generare un flusso costante di disastri, siano essi militari, ecologici o finanziari, su cui poi la stessa “economia shock” è pronta a speculare. È questo, secondo la Klein, un “fondamentalismo di mercato” del quale scrive ancora: “Ci sono molte prove del fatto che le industrie lavorano sodo per assisurarsi che le attuali, disastrose tendenze proseguano indisturbate. Le grandi compagnie petrolifere hanno finanziato per anni il movimento che nega la gravità dei mutamenti climatici; si stima che la sola Exxon Mobil abbia speso 16 milioni di dollari per questa crociata nell'ultimo decennio. Anche se questo fenomeno è ben noto, gli stretti legami tra gli appaltatori dei disastri e gli opinion makers sono molto meno studiati”.

Il problema è se possa oggi ancora esistere una forma “moderata” di economia di mercato, o se invece la “variante fondamentalista” del neoliberismo, che attualmente domina incontrastato, costituisca uno stadio senza ritorno: una società di mercato in cui tutto è commerciabile, anche la vita delle persone e dei popoli interi (feticismo della merce, direbbe Marx).

[...] Ho iniziato a studiare il fenomeno della dipendenza del libero mercato dal potere dello shock quattro anni fa, nei primi giorni di occupazione dell'Iraq. Dopo aver fatto la corrispondente da Baghdad, dove avevo raccontato dei falliti tentativi di Washington di far seguire alla dottrina “Shock and Awe” la “shockterapia”, sono andata in Sri Lanka, diversi mesi dopo il catastrofico tsunami del 2004, e lì ho assistito a un'altra versione della stessa manovra: gli investitori stranieri e i prestatori internazionali si erano uniti allo scopo di sfruttare l’atmosfera di panico per consegnare l'intero litorale a imprenditori che vi costruirono grandi villaggi turistici, impedendo a centinaia di migliaia di pescatori di ricostruire le loro case vicino al mare. «Con un crudele rovescio di fortuna, la natura ha offerto allo Sri Lanka un’opportunità unica, e da questa grande tragedia sorgerà un importante polo del turismo internazionale» annunciò il governo dello Sri Lanka. Quando poi l’uragano Katrina colpì New Orleans, e la pletora di politici conservatori, think tanks e imprenditori edili iniziarono a parlare di tabula rasa e fantastiche opportunità, fu chiaro che il metodo privilegiato per imporre gli obiettivi delle grandi imprese, adesso, era quello di usare i momenti di trauma collettivo per dedicarsi a misure radicali di ingegneria sociale ed economica. La maggior parte dei sopravvissuti a un disastro devastante vuole ben altro che una tabula rasa: vogliono salvare il salvabile e iniziare a riparare ciò che non è stato distrutto, vogliono riaffermare il proprio legame con i luoghi in cui sono cresciuti. «Mentre ricostruisco la città mi sembra di ricostruire me stessa» diceva Cassandra Andrews, residente della Lower Ninth Ward, una delle zone più colpite di New Orleans, mentre spazzava via i detriti. Ma i fautori del capitalismo dei disastri non hanno interesse a restaurare ciò che era prima. In Iraq, nello Sri Lanka e a New Orleans, la «ricostruzione» iniziò portando a compimento il lavoro svolto dal disastro, spazzando via cioè quanto rimaneva della sfera pubblica, per poi rimpiazzarlo in tutta fretta con una specie di Nuova Gerusalemme aziendale: il tutto prima che le vittime del disastro naturale fossero in grado di coalizzarsi e reclamare ciò che spettava loro di diritto. Mike Battles l'ha espresso nel modo migliore: «Per noi, la paura e il disordine offrivano promesse concrete». Il trentaquattrenne ex agente segreto della Cia parlava di come il caos nell'Iraq post-invasione avesse aiutato la sua sconosciuta agenzia di sicurezza privata, la Custer Battles, a ricevere circa cento milioni di dollari in contratti governativi. Le sue parole potrebbero fungere da slogan per il capitalismo contemporaneo: paura e disordine sono i catalizzatori per ogni nuovo balzo in avanti. Quando ho iniziato questa ricerca sull'intersezione tra superprofitti e megadisastri, pensavo di essere di fronte a una mutazione fondamentale del modo in cui la spinta a «liberare» i mercati si faceva strada in tutto il mondo. Sono stata parte attiva del movimento no global che fece il suo debutto mondiale a Seattle nel 1999, e quindi ero abituata a vedere questo genere di politiche, imposte facendo pressioni ai summit dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), o come clausole dei prestiti del Fondo Monetario Internazionale (FMI). Le tre richieste tipiche – privatizzazione, deregulation e sostanziosi tagli alla spesa sociale – erano di solito molto malviste dai cittadini; ma quando si firmavano gli accordi c’era almeno il pretesto di un'intesa tra i governi che gestivano i negoziati, oltre al consenso tra i presunti esperti. Ora, lo stesso programma ideologico veniva imposto con i mezzi più apertamente coercitivi: sotto un'occupazione militare straniera in seguito a un’invasione, o subito dopo un cataclisma naturale. L'11 settembre sembra aver concesso a Washington il via libera per smettere di chiedere ai Paesi se desiderano la versione americana di «economia di mercato e democrazia» e iniziare a imporla con la forza militare dello “Shock and Awe”. Approfondendo la storia della diffusione su scala planetaria di questo modello di mercato, tuttavia, mi sono resa conto che l’idea di sfruttare crisi e disastri era stato fin dall'inizio il modus operandi del movimento promossa da Milton Friedman: il fondamentalismo capitalista ha sempre avuto bisogno dei disastri per imporsi. Certo, i disastri stessi erano sempre più grandi e scioccanti; ma ciò che stava accadendo in Iraq e a New Orleans non era un'invenzione nuova, post-11 settembre. Piuttosto questi esperimenti di sfruttamento delle crisi costituivano il culmine di tre decenni di stretta osservanza della dottrina dello shock. Visti attraverso la lente di questa dottrina, gli ultimi trentacinque anni hanno un aspetto molto diverso. Alcune delle più drammatiche violazioni dei diritti umani nella nostra epoca, usualmente considerate semplici atti di sadismo compiuti da regimi antidemocratici, in realtà sono state commesse con l'intento deliberato di terrorizzare l'opinione pubblica allo scopo di preparare il terreno per l'introduzione di «riforme» radicali in senso liberista. In Argentina negli anni Settanta, la «sparizione» di trentamila persone – molte delle quali attivisti di sinistra – a opera della junta fu un passo essenziale per l'imposizione di politiche ispirate alla Scuola di Chicago, esattamente come il terrore era stato complice della stessa metamorfosi in Cile. In Cina nel 1989, lo shock del massacro di piazza Tienanmen, e gli arresti di decine di migliaia di persone che seguirono, permisero al partito comunista di trasformare gran parte del Paese in una tentacolare zona di libera esportazione, popolato da lavoratori troppo spaventati per rivendicare i loro diritti. In Russia nel 1993, Boris Eltsin decise di inviare carri armati per appiccare il fuoco agli edifici del Parlamento e di chiudere in carcere i leader dell'opposizione: fu questo a spianare la strada per la privatizzazione a prezzi di saldo che fece nascere i famigerati oligarchi di quel Paese. La guerra delle Falkland nel 1982 servì a uno scopo simile per Margaret Thatcher in Gran Bretagna: il disordine e il fervore nazionalista scaturiti dalla guerra le consentirono di usare una straordinaria durezza per sconfiggere i minatori in sciopero e accendere la prima frenesia di privatizzazioni in una democrazia occidentale. L'attacco Nato a Belgrado nel 1999 creò le condizioni per repentine privatizzazioni nell’ex Jugoslavia: un obiettivo che risaliva a prima della guerra. Il fattore economico ovviamente non fu l'unica causa di queste guerre ma, in ciascuno di questi casi, un grande shock collettivo fu sfruttato per preparare il terreno alla shockterapia economica. Gli episodi traumatici che hanno assolto questa funzione di indebolimento non sono sempre stati apertamente violenti. In America Latina e in Africa negli anni Ottanta, fu una crisi di indebitamento a obbligare i Paesi alla scelta tra «privatizzazione o morte», per usare le parole di un funzionario del Fmi. Messi in ginocchio dall'iperinflazione, e solitamente troppo indebitati per opporsi alle pretese che accompagnavano i prestiti stranieri, i governi accettarono un trattamento shock con la promessa che ciò li avrebbe salvati da un disastro ben peggiore. In Asia, fu la crisi finanziaria del 1997-98 – paragonabile, per gli effetti devastanti, alla Grande depressione – a trasformare, aprendo a forza i loro mercati, le cosiddette Tigri asiatiche in quella che il New York Times ha definito «la svendita per cessata attività più grande del mondo». Molti di questi Paesi erano democrazie, ma le radicali trasformazioni economiche non sono state imposte democraticamente. Al contrario: come Friedman aveva ben compreso, l'atmosfera generale di crisi forniva il necessario pretesto per ignorare i desideri espressi dagli elettori e consegnare il Paese a economisti «tecnocrati». Naturalmente, ci sono stati casi in cui l'adozione di politiche liberiste ha avuto luogo in modo democratico: si sono visti politici vincere le elezioni con programmi intransigenti, e gli Stati Uniti di Ronald Reagan ne sono l'esempio migliore; un caso più recente è quello dell'elezione di Nicolas Sarkozy in Francia. In questi casi, tuttavia, i crociati del libero mercato hanno incontrato la pressione dell'opinione pubblica e sono stati obbligati a temperare e modificare i loro piani economici radicali, accettando cambiamenti parziali al posto di una conversione totale. Il punto cruciale è che il modello economico di Friedman può essere parzialmente imposto in una democrazia, ma per attuarlo in tutta la sua portata ideale sono richieste condizioni di natura autoritaria. Perché la shockterapia economica potesse essere applicata senza vincoli – come lo fu in Cile negli anni Settanta, in Cina negli Ottanta, in Russia nei Novanta e negli Stati Uniti dopo l'11 settembre 2001 – è sempre stato necessario un qualche ulteriore grosso trauma collettivo che sospenda temporaneamente o sopprima completamente le consuetudini democratiche. Questa crociata ideologica ha visto la luce nei regimi autoritari del Sudamerica, e nei suoi più ampi territori di ultima conquista – Russia e Cina – coesiste ancora oggi, in tutta serenità e generando grandi profitti, con una leadership dal pugno di ferro [...].

Dal capitalismo dei disastri a quello di rapina, suo stretto parente. In “Capitalismo di rapina. La nuova razza predona dell'economia italiana” (ChiareLettere, 2007), Paolo Biondani, Mario Gerevini e Vittorio Malagutti - cronisti del Corriere della Sera i primi due e inviato de L'Espresso il terzo - denuncia tutto il marcio del capitalismo italiano, soprattutto di quello che, negli ultimi tempi, è balzato prepotentemente all'attenzione della cronaca e dell'opinione pubblica italiana (e non solo). Duecentosessanta pagine di ricostruzioni, con tanto di intercettazioni, materiale apparso sui giornali e documenti inediti delle scalate bancarie finite in Procura: le manovre intorno a Telecom Italia, il crack della Parmalat di Tanzi, la resistibile ascesa dei furbetti Fiorani, Ricucci e Coppola, il ruolo dell'ex governatore di Bankitalia Fazio e il perverso intreccio tra politica ed economia.

Tutto prende il via da una lettera, inviata il 22 gennaio 2003 al Corriere della Sera da una giovane neolaureata appena uscita da un periodo di stage e di lavoro alla Banca Popolare di Lodi, in cui si descrive concretamente il malaffare all'interno della banca. “La cosa che più mi ha sconcertata - scrive la giovane neolaureata in questa lettera - è l'utilizzo scellerato che la banca fa dei nuovi strumenti finanziari […] Il capo della direzione finanza, Gianfranco Boni, è la vera mente di tutti questi giochetti e utilizza i fidi scudieri per compiere le sue malefatte […] Tutto il gioco è ben orchestrato e presuppone il coinvolgimento di non poche persone, soprattutto quelle deputate al controllo… Alla fine gli unici che ci rimetteranno saranno i piccoli risparmiatori […]”.

Viviamo in un paese in svendita in cui “la domenica, le piazze italiane sono vuote. Quasi deserti gli stadi, le chiese, i cinema”. “Outlet Italia” (Mondadori), del giornalista e scrittore Aldo Cazzullo, si apre con il racconto dell'outlet di Serravalle Scrivia, il più grande d'Italia, e prosegue descrivendo i posti degli incontri e del divertimento di massa, quelli classici e quelli più recenti, dalla mostra del fumetto di Lucca alla Riviera romagnola, dal carnevale di Viareggio al turismo enogastronomico di Alba, dalle sette discoteche in una sul raccordo di Roma al Festival di Sanremo. Conducendo il lettore in un viaggio nelle nostre metropoli e nella provincia, da “quel ramo del lago di Clooney” al nuovo Sud, mostrando, tramite storie poco conosciute(i pozzi di petrolio della Lucania, gli scandali di Parma, i pellegrini di Assisi e di Padre Pio) e sorprendenti ritratti di personaggi noti ( da don Benzi a Marcello Lippi, da Costantino Vitagliano a Francesco Totti, da Walter Veltroni a Aldo Montano, da don Gelmini a Sivio Berlusconi), com'è cambiata l'Italia, dove “i centri commerciali ormai sostituiscono i paesi, con le case finte, le fontane e tutto”.

“L'outlet”, dice Cazzullo, “non è solo un centro commerciale. È un paese. Finto. Borghi medievali con le mura, le porte, le fontane, le case; finte anche quelle ovviamente, visto che non ospitano persone ma negozi. C'è spesso la musica ad alto volume, come in discoteca, che rende il parlare fastidioso e superfluo. Sono luoghi di incontro in cui in realtà non ci si incontra, non ci si confronta, non si scambiano idee. Si compra, o si guardano le vetrine. Non solo: le insegne “outlet” si sono moltiplicate in tutte le città. Anche in via Montenapoleone a Milano e in via Frattina a Roma. C'è un outlet pure nella piazzetta di Capri. Outlet è sinonimo di svendita. Di mercificazione. Del degrado dei rapporti umani, che per me è il vero segno dei tempi, più di Internet o del telefonino”.