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Manifesto dell’Antimodernità: intervista a Massimo Fini

di Giancarlo Terzano - 15/09/2005

Fonte: Fare Verde

Manifesto dell’Antimodernità: intervista a Massimo Fini
 
(a cura di) Giancarlo Terzano
Partiamo dal sottotitolo del suo ultimo libro: Manifesto dell’Antimodernità, Quel
vizio oscuro dell’Occidente. Scrittore e giornalista, Massimo Fini costituisce un’interessante voce fuori dal
coro, libera da gabbie ideologiche e lucidamente critica verso la nostra
modernità, di cui ama evidenziare paradossi e aporie. Sulla scia dei suoi
riusciti La ragione aveva torto? (1985), Elogio della guerra (1989), Il denaro
“sterco del demonio (1998), ha ora pubblicato un utile e attualissimo pamphlet,
Il vizio oscuro dell’Occidente. Manifesto dell’Antimodernità (Marsilio 2002, pp.
69), dove sottolinea il carattere totalitario del modello occidentale e pone
seri interrogativi sulle contraddizioni di quello che fideisticamente qualcuno
continua a ritenere “il migliore dei mondi possibili”
Abbiamo incontrato Fini a Firenze, dove, dopo la presentazione del suo libro (e
due ore di vivo dibattito), ha voluto accordarci una conversazione-intervista
“notturna” presso lo storico Gran Caffè Giubbe Rosse.
 
 
xFare+Verde - Partiamo dal sottotitolo del suo ultimo libro: “Manifesto
dell’Antimodernità”. Cosa c’è che non va in questa modernità, non ci viene detto
che il nostro è il migliore dei mondi possibili, e che anzi tutti ci invidiano?
Massimo Fini - Diciamo che sostanzialmente mancano qualsiasi armonia e qualsiasi
equilibrio, cose che società precedenti alle nostre, pur naturalmente nella
fatica - soprattutto materiale - del vivere, senz’altro avevano.
E’ proprio dal punto di vista nervoso e psicologico che questa società incide
malamente su di noi.
FV - Una società paranoica, la definisce
MF - Sì, la definisco paranoica perché è basata sull’inseguimento: tu non puoi
mai raggiungere un momento di equilibrio e di pace perché, raggiunto un
obiettivo, sei costretto ad inseguirne un altro e poi un altro ancora e questo
all’infinito, senza mai un momento in cui ti fermi. Del resto tutto il
meccanismo del mondo industriale si basa sul fatto che devi continuamente
acquistare beni e poi acquistarne altri e poi ancora altri, perché se il
meccanismo si ferma è perduto.
Riguardo al singolo, questo meccanismo obbliga, più o meno inconsciamente,
l’individuo ad una corsa verso un obiettivo che non potrà raggiungere mai. E
questo naturalmente, insieme a tante altre cose, lo rende nevrotico, depresso,
da’ il senso dello scacco esistenziale perché ad un certo punto della tua vita
ti rendi conto che non hai combinato quello che volevi combinare, perché quello
che volevi combinare è talmente proiettato nel futuro che non lo raggiungi mai.
Von Mises, teorico dell’industrial-capitalismo, lo dice molto bene: “non è bene
accontentarsi di ciò che si ha”. Insomma, c’è sempre qualcosa da invidiare e
qualcuno davanti a noi e allora non c’è mai la pace.
FV - Perché questa tensione al miglioramento è volta ad un miglioramento
esclusivamente materiale.
MF - Certamente, questo è il punto, perché la tensione a migliorare, ad esempio
la conoscenza, è dell’uomo. Ma la tensione a migliorare per migliaia di anni è
stata a migliorare sé stessi, a conoscere te stesso; questo anche nelle culture
che noi chiamiamo primitive, come quella africana, dove la cosa più importante è
il dominio su di sé. Noi, invece, miglioriamo, crediamo di migliorare, solo
materialmente; e oltretutto non è neanche un miglioramento, perché cos’è in
fondo il mercato? E’ uno scambio di oggetti. Si può pensare di costruire valore
su una cosa di questo genere? Mentre l’uomo ha bisogno di valori; non perché i
valori esistano – sono illusioni nella mia ottica – ma perché anche le
illusioni, come diceva Huizinga, fanno parte della realtà; l’uomo non può vivere
senza nulla. Ecco, questo è il disastro di questa società: che non produce
illusioni, non produce valori, produce un’afagia, un continuo mangiare, un
continuo introiettare cibo e altro che non può dare, naturalmente, alcuna
soddisfazione.
FV - E’ questo il “vizio oscuro” dell’Occidente?
MF - Il vizio oscuro è doppio: uno è che ha creato un modello paranoico, che ci
fa star male; l’altro è che crede che il suo modello sia il migliore e lo impone
ovunque. Perché potremmo anche dire: “a noi questo modello ci fa star bene,
portiamolo agli altri”. Purtroppo è un modello che ci fa anche star male, che è
riuscito a far star male anche chi stava bene. Eppure, nonostante il modello
mostri le sue crepe, nonostante ci faccia soffrire, crediamo ancora,
sinceramente, di avere il migliore dei modelli e lo esportiamo negli altri
mondi, combinando disastri inenarrabili.La storia del Terzo Mondo degli ultimi
30 anni è una storia di devastazione e distruzione per la contaminazione del
nostro modello con il loro, anche quando è avvenuto a fin di bene. Noi oggi
andiamo ad aiutare l’Africa, ma l’Africa stava molto meglio quando si aiutava da
sola. Spiego qual è il meccanismo: questa gente viveva povera secondo il nostro
metro, però quando tu hai casa, alloggio, socialità, identità, cultura, sei
povero per chi ti guarda da fuori, non sei povero. La loro è un’economia di
sussistenza, che va a 500 giri e non a 10.000 giri, come la nostra, che ti
obbliga ad una corsa continua. Noi li sradichiamo, li destrutturiamo
esistenzialmente, e alla fine li affamiamo anche, perché in realtà l’abbandono
di un’economia di sussistenza e l’integrazione nel mercato mondiale fanno sì che
questa gente esporti sì qualcosa ma l’esportazione non è sufficiente a
compensare il deficit alimentare che si è venuto a creare e quindi c’è la fame.
FV – Crediamo quindi che il nostro modello sia il migliore e ci sentiamo
obbligati ad esportare la “buona novella”. Come ogni messianesimo, però, questo
implica l’incapacità di accettare “l’altro da sé”, di riconoscergli pari
dignità. Ma tra i vanti della cultura occidentale non ci sono l’aver inventato
la tolleranza, il pluralismo, il rispetto per il diverso?
MF - Certamente, questa è la contraddizione. La cosa che fa più paura è che la
gente crede di essere liberale, si definisce liberale, ed invece è totalitaria,
cioè non accetta l’altro se non nella misura in cui si omologa a noi. Lo abbiamo
sentito anche stasera (il riferimento è al dibattito sul libro, ed in
particolare ad alcuni interventi che affermavano la necessità di “modernizzare”
l’Islam, conciliandolo con i principi della cultura occidentale - ndr): c’è
l’Islam buono, l’Islam cattivo … ora, è chiaro che quando l’Islam ti aggredisce
devi rispondere, ma quando l’Islam sta a casa sua, saranno fatti loro se si
svilupperanno, o non si svilupperanno …In realtà noi non tolleriamo tutto ciò
che è diverso, quindi non siamo liberali, crediamo di essere liberali ma siamo
il contrario. Siamo anzi, diciamo la verità, la forma più compiuta di
totalitarismo, perché noi il pianeta lo abbiamo occupato sul serio.
FV – Non è la prima volta che l’Occidente “esporta” le sue idee nel mondo: anche
in passato abbiamo partorito altre forme di evangelizzazione.
MF - Sì, certo, tutto comincia concettualmente dalla Grande Rivelazione: io ho
la buona novella, e quindi ho l’urgenza non solo di annunciarla ma anche di
convertire gli altri. Poi ci sono stati l’eurocentrismo, il colonialismo
classico, l’internazionalismo proletario ed ora, nella forma più compiuta,
questo modello industriale a libero mercato di tipo capitalista che ha di fatto
occupato quasi il mondo intero.
Noi diciamo spesso che sono gli altri paesi che vogliono omologarsi a noi.
Questo, alle volte, è vero, ma quando non è vero, per noi non cambia nulla: i
talebani non volevano omologarsi a noi, volevano un’altra storia - giusta o
sbagliata non lo so, ma era la loro storia - e sono stati spazzati via.
FV – Insomma, non riusciamo a rispettare le culture diverse. Ma questa “missione
civilizzatrice”, quest’ossessione di portare la nostra civiltà dappertutto
perché dappertutto costituisce il Bene, è l’unica molla che ci spinge a voler
omologare la vita nel pianeta oppure ci sono altri motivi, di ordine più
concretamente economico?
Ci sono motivi strettamente economici: noi abbiamo bisogno di conquistare sempre
nuovi mercati, perché i nostri ormai sono saturi. E’ questo il colonialismo
economico, molto più pesante del colonialismo classico. Il colonialismo classico
conquistava territori, rapinava materie prime (di cui però spesso gli indigeni
non sapevano che farsene) ma siccome le due comunità, proprio per il razzismo
che ci ha sempre contraddistinto (anche prima della Fallaci), rimanevano divise,
allora gli indigeni continuavano a vivere secondo proprie socialità, usi,
costumi, economie, ecc. Il colonialismo economico deve conquistare mercati e
deve omologare questa gente ai nostri costumi, ai nostri usi, soprattutto ai
nostri consumi e possibilmente alle nostre istituzioni. Quindi, mentre il primo
colonialismo in qualche modo rispettava l’identità di questi popoli, questo
nuovo la disgrega e la distrugge. Questo ha capito il mullah Omar, ed ecco il
perché di quella cosa che a noi in Occidente fa orrore: la distruzione materiale
del televisore
FV - Non esistono mezze misure di fronte ad insidie simili?
MF - Non lo so, ma la loro esperienza era quella. Se poi gli afgani avessero
voluto svilupparsi in altro modo da come proponeva il mullah Omar, che a sua
volta dava una sua interpretazione rispetto all’Afghanistan tradizionale, che è
molto meno integralista (l’Afghanistan è un paese meraviglioso, io ci sono stato
prima che arrivasse l’Unione Sovietica, ma così l’aveva reso l’invasione
sovietica, la povertà, poi il banditismo dei vecchi comandanti ecc fino a questa
nuova forzatura), rimanevano questioni loro. Quella del mullah è certamente una
forzatura però l’intuizione che certi elementi del mondo basta che entrino ed è
finita, secondo me, resta valida. Sui metodi c’è molto da discutere ma
l’intuizione resta valida.
Del resto ogni cultura, è la lezione di Lévi-Strauss, è un complesso. Tu non
puoi pensare,come facciamo noi, “mi sta bene l’islamismo però a condizione che
la donna deve cambiare” perché ogni cultura, diceva Lévi-Strauss, è un sistema e
tu non puoi estrapolarne un elemento, quello che non ti piace, perché crolla
tutto quel sistema. Poi puoi pensare che sia bene che crolli, ma devi saperlo e
comunque non deve dipendere da chi viene da fuori ma deve dipendere da dentro.
Saranno le donne musulmane a voler seguire lo stesso iter delle donne
occidentali, ma devono essere loro a deciderlo. A parte che il fatto che, come
mi diceva Hassan Gaddiri, viceministro iraniano tanti anni fa, “voi la menate
tanto per la storia del velo ma da voi c’è un tipo di sistema, di pubblicità
tale per cui la donna deve essere sempre bella, giovane, levigata, ecc.; cos’è
più costrittivo, il nostro chador o quel sistema?”.
Insomma, si tratta di ragionare su queste cose, si tratta di recuperare forse
una delle cose che va sicuramente salvata dell’Illuminismo, cioè il dubbio. Noi
abbiamo perso anche il dubbio, che è uno dei portati migliori della nostra
cultura.
Faccio un altro esempio, che si riallaccia la discorso di prima. Tanti anni fa,
mi trovavo in Nuova Guinea per un servizio per l’Europeo, ed ero ospite di un
missionario, un padre salesiano, e lui era in contatto con una tribù. Quando ero
lì lui aveva un problema: voleva dare una mietitrebbia che questa tribù
assolutamente non voleva prendere. E lui si disperava, si lamentava con me, non
capiva assolutamente come mai questi qui non volessero uno strumento che faceva
in due ore ciò che una famiglia comunque fa in due settimane. Poi ad un certo
punto c’è stato un incontro con il capo di questa tribù, che sostanzialmente gli
ha detto: “Vedi, per noi le cose stanno bene quando sono in equilibrio. La tua
mietitrebbia distrugge questo equilibrio e quindi non la vogliamo”. Capisci?
Sono due mondi completamente diversi, che non sono conciliabili: lì si
privilegia un’altra cosa, appunto l’equilibrio, l’armonia, rispetto al nostro
dinamismo, al nostro andare avanti, che è un modello (ripeto, ognuno ha il suo,
ma non è detto che debba andar bene per tutti). La democrazia in Afghanistan è
una cosa che fa ridere chiunque vi sia stato perché lì la leadership si
conquista in tutt’altro modo, non andando a deporre una scheda.
FV - Sono discorsi molto lontani da quelli di una parte del movimento no-global,
o, come è meglio definirli, new-global.
MF - Loro sono dei globalizzatori, quindi vorrebbero il mondo tutto una grande
democrazia planetaria … Il che, per me, è oltretutto anche un’utopia negativa,
perché il bello della vita sono le diversità e comunque io non credo che noi si
debba andare a salvare Safiya e tutte le Safiya della Terra. Credo, appunto, che
ognuno debba filarsi la sua storia, e credo che noi ci stupiremmo molto se
venissero qui dei musulmani e pretendessero di imporre il loro modello. Diremmo
che non va bene, che non l’accettiamo, diremmo senz’altro no.
FV – Visto che ci siamo, parliamo dei rischi per la nostra cultura. Sono più
pericolose le moschee (seguendo la Fallaci) o i McDonald’s?
MF - Le moschee, finché restano là, non sono pericolose per noi. Lo diventano
nella misura in cui l’Islam, che è una cultura aggressiva, volesse uscire dai
propri confini, ma finora mi pare che questo non sia avvenuto. Avviene per
effetto dell’emigrazione, ma l’emigrazione siamo noi a provocarla: entrando in
quei paesi e destrutturandoli, creiamo quell’estraneamento ed anche quella fame
per cui questi vengono da noi. Certo, se tu gli distruggi l’habitat, se li
destrutturi, se gli togli ogni cosa, si agganciano all’unico valore che gli
rimane, quello religioso, e cominciano a declinarlo in senso estremista e
fanatico ed eventualmente terrorista.
Insomma, il mio concetto è che ognuno dovrebbe rimanere all’interno della
propria storia.
FV - E l’impatto dei McDonald’s?
MF - Ma sai, i colpevoli dei McDonald’s non sono gli americani, che fanno i loro
affari, siamo noi che ci andiamo.
FV - In questo senso l’americanizzazione non è un fenomeno più pericoloso,
perché non crea anticorpi?
MF - Certamente, è più insidioso, però siamo noi Europa che recepiamo tutta la
cultura, il modo di essere americano, senza più fare neanche un bercio. Quando
io ero ragazzo, negli anni ’50, gli americani erano i vincitori dell’ultima
guerra, quindi godevano di grande prestigio, ma quando venivano dall’America
certa cose kitsch che non avevano senso si diceva tra la gente “è
un’americanata”. Avevamo una cultura che prendeva la distanza dalle cose che non
ci piacevano. Oggi, invece, a furia di leggere Panorama, l’Espresso, l’Europeo e
vedere la televisione abbiamo completamente depauperato la nostra cultura e ci
becchiamo tutto il peggio che viene da là. Poi c’è anche un meglio che però non
arriva. La colpa, in questo caso, nel rapporto Europa – Stati Uniti, è solo
nostra. In questo caso gli Stati Uniti fanno solo la loro politica economica di
potenza, è evidente.
FV - L’estensione a livello planetario del modello culturale occidentale
implicherebbe la diffusione anche del suo modello di vita, caratterizzato da
abbondanza di beni e forte consumismo. E’ un obiettivo concretamente
raggiungibile?
MF - Secondo me questo non avviene se non in minima parte. Se guardiamo la
storia del Terzo Mondo negli ultimi 30 anni, in realtà l’esportazione del nostro
modello ha arricchito un po’ di gente, in genere equivoca, ed ha impoverito
tutti gli altri. Lo si vede bene in quello che succede in Russia, dove si è
passati da una povertà dignitosa al fatto che ci sono piccoli strati di
popolazione straricchi e tutti gli altri scesi nella miseria. Il russo diventa
pazzo quando vede che lui fa la fame e il vicino può entrare nel locale da 100
dollari. La miseria è esattamente questo: è vivere miseramente in una società
che per alcuni versi è invece opulenta. Se le condizioni sono più o meno uguali
per tutti, tu non senti alcuna miseria, ma con un raffronto così violento,
certamente la senti. A proposito della Russia, Solzenicyn  (che non credo possa
essere accusato di comunismo, visto che ha fatto 20 anni di gulag) diceva: “va
bene il libero mercato, anche da noi, ma a piccole dosi, con piccole imprese,
piccolo commercio, perché questa è la nostra storia, il nostro modo di essere”.
Ed è vero: io sono russo di madre ed è vero, non c’entra niente la concorrenza
con la democrazia. Se tu gliela porti, gliela imponi col coltello del Fondo
Monetario Internazionale alla gola, tu distruggi un paese che già non stava
granché bene. Insomma, si è confusa libertà civile e libertà politiche,
sacrosante in un paese europeo, con il libero mercato, che non è la stessa cosa.
Qui si crede che libero mercato e democrazia siano la stessa cosa. Non è vero.
FV - Anche se lei individua un nesso tra la democrazia ed i meccanismi del
mercato.
MF - La democrazia rappresentativa è stata uno dei guanti che questo sistema si
è infilato, ma esistono anche altre forme di democrazia. Esiste una democrazia
diretta in piccole comunità che è tutta un’altra vicenda da questa. Noi parliamo
di una democrazia rappresentativa che in realtà non rappresenta proprio niente
(io chiamo la democrazia rappresentativa un modo per metterla in culo alla
povera gente con il suo consenso). Questo tipo di democrazia certo è funzionale
al libero mercato perché è una sorta di prevalere di una maggioranza
eterodiretta da media, da mezzi di comunicazione, dall’alto, che quindi si farà
convincere a tutto ciò che vogliono i padroni del vapore … Ma poi non è più
neanche adesso una questione di padroni del vapore, questo è un meccanismo che
va avanti per conto suo e che è sfuggito di mano anche agli stessi apprendisti
stregoni
FV - Non c’è un timoniere?
MF - No, magari ci fosse, andrei lì col kalashnikov … Purtroppo è un meccanismo
che è sfuggito, è un treno che va a 800 all’ora, che continua ad aumentare la
velocità, il macchinista non c’è, o se c’è non controlla più i comandi, anche se
dice di controllarli. Gli stessi liberisti non si rendono ben conto del
meccanismo che hanno creato e che non governano.
FV – Eppure pensano ancora di poterlo controllare, magari attraverso la formula
dello “sviluppo sostenibile”.
MF - Non esiste uno sviluppo sostenibile, già questo è insostenibile, né
esistono forme di energia alternativa se usate di massa. Quando, in una zona tra
Belgio e Olanda, hanno fatto 300 gigantesche torri per l’energia eolica, gli
abitanti sono diventati tutti quanti pazzi, perché il rumore era pazzesco e
comunque loro erano abituati a vivere in pianura e si sono ritrovati davanti a
questo paesaggio. Insomma: un foglio di carta in casa tua non fa danni, 3
quintali di fogli di carta ti uccidono. Questo uso massiccio di risorse che devi
fare proprio per sostenere un modello che deve sempre andare avanti e che non
solo non può tornare indietro, non solo non si può fermare, non solo deve
rimanere alla velocità attuale, ma deve sempre aumentarla … già questo ti dice
che è pazzesco! Quando dissi a Rubbia, che è uno scienziato e che non vuole
assolutamente sentire questi discorsi: “Scusi professore, glielo chiedo da
fisico: continuando ad aumentare la velocità come stiamo facendo, non stiamo
accorciando il nostro futuro?”, allora lui cominciò ad ammettere questi dubbi.
E’ lui che mi ha dato l’immagine del treno che va e non c’è più il macchinista e
non sappiamo neanche se prendendo la cosa in mano in questo momento e volendo
fermarci siamo ancora in grado o siamo già al punto di non ritorno.
Non esiste uno sviluppo sostenibile: è una menzogna, in buona fede per alcuni,
in mala fede per altri; come è una menzogna, in buona fede per alcuni e in male
fede per altri, la globalizzazione dei diritti. Non siamo riusciti a
globalizzare i diritti in piccole dimensioni, figura se riusciamo a dare veri
diritti a livello mondiale. E in ogni caso, lo ripeto, se anche si raggiungesse
questa utopia sarebbe una noia mortale perché saremmo tutti uguali!
FV – In maniera alle volte fideistica, si sostiene la possibilità di uno
sviluppo sostenibile grazie ai risultati della tecnica. Classico esempio sono
gli ogm, che dovrebbero risolvere il problema della fame nel mondo. E’ una
promessa fondata o le cose stanno diversamente?
MF - Ma no, questa è una delle tante menzogne per vendere gli ogm. Oltre alle
tante questioni di salute, per cui noi facciamo esperimenti senza sapere che
cosa succede dopo, va detto che non è certo l’ogm che risolve la fame nel Terzo
Mondo. La fame nel Terzo Mondo si risolve permettendo a questa gente in qualche
modo di recuperare la loro economia. Prima non c’era la fame in Africa, questo è
il punto. L’Africa, ai primi del 900, era autosufficiente alimentarmente, e lo
era ancora in buona misura fino agli anni '60; da quando abbiamo cominciato ad
inserirli nelle nostre politiche, è esplosa la fame. Anche perché il cibo in
un’economia integrata mondiale non va dove ce ne è bisogno, va dove c’è denaro
per acquistarlo. Va ai maiali dei ricchi americani, al bestiame dei paesi
industrializzati. Mentre quando tu stai sul tuo e coltivi la tua terra, il
prodotto non te lo leva nessuno. Certo, può venire l’anno della carestia, ma in
linea di massima non c’è fame.
FV – La fame è quindi un problema di distribuzione delle risorse, come sostiene
Vandana Shiva?
MF - E’ un problema di distribuzione, è un problema di sistema. C’era in quei
sistemi (ma questo vale anche per il nostro Medioevo) un tale reticolo, proprio
perché si viveva di integrazioni, di solidarietà, per cui ognuno aveva quanto
gli bastava. Nella stessa corporazione artigiana, per esempio, era proibita la
concorrenza, ognuno doveva avere una quota di mercato sufficiente per vivere. Il
concetto era quello della cooperazione, non della competizione. Adesso dove ci
porterà questa competizione mondiale? E’ logico, è inevitabile, che ci porterà
ad avere un pugno di paesi ricchi ed un mare di miseria. Ed anche questi paesi
ricchi, crederanno di salvarsi a questo punto? Perché appunto si realizza
l’ipotesi di Marx: puoi avere tutte le armi che vuoi, ma quando hai intorno 6
miliardi di poveracci che ti vogliono fare la pelle, getterai l’atomica, ma
l’atomica è un’arma che ricade su te stesso. Quindi, dovremmo pensarci, anche
nelle forme più egoistiche e ciniche possibili, alla nostra sopravvivenza. La
competizione porta a questo.
FV – E allora, quali alternative ci sono?
MF – C’è una proposta possibile, praticabile, volendo, anche da oggi. Io parlavo
di piccole dimensioni, ma è chiaro che se hai piccole dimensioni gli americani,
e chiunque altro, ti schiacciano. Una mediazione possibile è invece l’Europa,
l’Europa non solo unita economicamente ma proprio l’Europa unita, neutrale,
armata, nucleare ed autarchica. Neutrale perché noi non abbiamo più gli stessi
interessi degli Stati Uniti, per ragioni che sono molto evidenti: l’alleanza con
gli Stati Uniti era necessaria quando c’era l’Unione Sovietica, perché erano gli
unici che avevano il deterrente atomico necessario per scoraggiare l’aggressione
dell’Unione Sovietica. Armata e nucleare non per aggredire qualcuno ma come
deterrente. E poi una parola chiave è: autarchica, nel senso che noi abbiamo
popolazione, know how, risorse e mercato, sufficienti per essere
autosufficienti. Questo ci permetterebbe di evitare le conseguenze più
drammatiche: che se ai giapponesi, per loro cultura samurai applicata alla
fabbrica, gli viene da lavorare 18 ore al giorno, anche noi in Italia si debba
lavorare 18 ore al giorno; che se a Taiwan pagano un pugno di riso, anche noi si
debba ridurre il salario; che se gli USA non hanno welfare, noi si debba
smantellare il nostro welfare. Ovviamente, questo avrebbe dei costi: penso che
il benessere delle classi alte e medio alte diminuirebbe, perché tutta una serie
di prodotti diventerebbero irraggiungibili. Ma, poiché in quanto a beni e
prodotti, ormai siamo pieni fino al collo (non sanno più cosa inventare: lo
shampoo per cani, il water che suona …), sarebbe un male veramente minore. E
questo presupporrebbe l’autarchia ed anche una redistribuzione più equa delle
risorse rimaste tra la popolazione di quanto non sia quella globale, visto che
in tutti i paesi industrializzati il divario tra ricchi e poveri oggi si sta
divaricando sempre di più. Questa è un’ipotesi che se si volesse politicamente,
se i governi e le popolazioni europee ne fossero convinte, si potrebbe
tranquillamente praticare. Non è l’utopia lontana del ritorno a dimensione
comunitarie, alla terra, l’autoconsumo ecc, è una cosa praticabile. Comunque,
poiché non faremo nulla di tutto questo, il sistema imploderà e se non saremo
morti tutti si ricomincerà con un nuove feudalesimo, si spera senza feudatari.
FV ­– E riscoprire la sobrietà come stile di vita?
MF - San Francesco sarebbe un santo totalmente rivoluzionario, perché la
sobrietà è esattamente il contrario di questo sistema. Pensa al silenzio, per
esempio, che è un valore assoluto per le culture africane; noi siamo nel suo
esatto contrario, noi applaudiamo anche i nostri morti …, in realtà, cosa vuol
dire questo? Che noi, che pur abbiamo questa straordinaria cultura che ha
lavorato proprio sull’uomo, non siamo più in grado di riflettere su noi stessi.
Rimangono comunque sacche di cultura molto vaste dove la ricerca di sé e
dell’equilibrio è importante: in fondo l’India riesce a resistere, ad esserci,
pur nella globalizzazione, con la sua antica cultura e con questo modo di
essere, nonostante sia per certi versi entrata nella modernità. Noi, invece,
questa capacità di introspezione, di ricerca di sé (quello che i Greci, i padri
della nostra cultura, avevano fatto in modo così straordinario prima di tutti),
non riusciamo a ritrovarla. Non siamo più capaci di silenzio, di riflessione.
FV - E la religiosità dell’Occidente, cioè il cristianesimo, che peso ha?
MF - Pensare, come pensa la Fallaci, che questa sia una lotta tra cristianesimo
e Islam è ridicolo, perché l’Occidente è totalmente scristianizzato e
desacralizzato. Casomai è la lotta tra il totalitarismo del meccanismo
industriale e un totalitarismo del senso, del valore, che è quello islamico, che
pure è declinato in senso totalitario e aggressivo. Non è, infatti, che puoi
parteggiare per l’Islam, che rappresenta un’altra cultura totalitaria. E’ il
peggio di un altro mondo che confligge con noi, non è il buddismo, non sono le
culture africane
FV - L’integralismo costituisce l’esito scontato dell’islamismo?
MF - No, noi lo abbiamo fomentato, perché privandoli di tutto il resto, è chiaro
che un poveraccio si attacca alla religione, ha ragione.
FV - Distruggendo le culture la globalizzazione crea o integralismi o xenofobia.
MF – Certamente, è inevitabile, lo capisce chiunque
FV – Ma non tutti all’interno del movimento antiglobalizzatore. Come vede tale
movimento?
MF - Lo vedo come un movimento antimodernista, antiprogressista, in questo modo
antitetico alla modernità, appunto. In Italia no, in Italia si declina a
sinistra, è modernista, progressista, quindi non può competere realmente con il
suo avversario, è solo una versione diversa (finisce come per il marxismo, che è
stato un industrialismo inefficiente: marxismo e capitalismo sono state le due
arcate del ponte dell’industrialismo; apparentemente confliggenti, in realtà si
sono sorretti a vicenda, costituendo soltanto due versioni diverse della stessa
cosa). Secondo me non ha futuro il movimento globalista italiano, verrà espulso
prima o poi. Il movimento antiglobal di fondo, come altri fenomeni (il ritorno
delle piccole patrie e simili), si oppongono in maniera radicale alla modernità
così come è. Naturalmente non puoi ipotizzare un ritorno, puoi ipotizzare un
“oltre la modernità”, che sarà da vedere e da inventare, se ci si arriverà,
perché non credo che abbiamo ancora tanto tempo.
FV - Pubblicando nel 1989 “Elogio della guerra”, ha infranto un vero tabù, e
restituito dignità storica al fenomeno guerra. Da allora l’Italia ha partecipato
ad almeno tre guerre, si appresta a combatterne una quarta, e su tutti questi
conflitti lei ha espresso posizioni molto critiche. Ci vuol spiegare la sua
posizione sul pacifismo e sulle guerre dei nostri giorni?
MF - Io non sono pacifista, nel senso che ritengo che la guerra possa essere
anche uno strumento per risolvere conflitti che non si riescono a risolvere
diversamente.
Sono contro quali guerre? Sono contro le guerre fatte per impedire quelle degli
altri, tipo le guerre di Bosnia e in Kosovo, perché la guerra, quando si fa, ha
una sua logica, e se ci vai combini guasti peggiori. In più trovo una
contraddizione in termini pazzeschi: siamo andati ad impedire le guerre altrui
facendogli la guerra e poi, improvvisamente, quando ci fa comodo solo noi
possiamo fare le guerre, addirittura preventive. Questo non regge, dal punto di
vista logico ed etico.
La guerra in sé, come la morte, non è un male, non è sporca in sé, può essere
necessaria, la guerra può essere anche feconda, il modo di farla conta. Conta
anche perché queste guerre, per esempio, in cui non c’è combattimento eliminano
tutto ciò che c’è di positivo nella guerra, per esempio il provarsi degli
uomini. Se non c’è combattimento, non c’è rischio; ma se non c’è rischio, non
c’è alcun valore. Con le guerre dove tu solo puoi colpire e l’altro essere
colpito, si esce dal campo della guerra e si entra in quello puramente
criminale. In guerra, cos’è che dà la legittimità al soldato di uccidere un
altro? Il fatto che può essere altrettanto legittimamente ucciso. Se questo
manca entriamo nell’area criminale del puro assassinio, del tiro a bersaglio.
Io non dico che una potenza non debba usare la sua superiorità militare aiutando
il suo esercito sul campo, ma se non aiuta il suo esercito sul campo, se
bombarda e uccide i civili e uccide in misura pazzesca, vorrei sapere che
differenza c’è con Bin Laden. Anzi, Bin Laden qualche giustificazione ce l’ha,
perché non può fare la guerra agli Stati Uniti d’America, ma degli stati
strutturati possono fare la guerra come Dio comanda, mandando in campo gli
eserciti e combattendo i soldati e non i bambini, perché noi stiamo facendo la
guerra combattendo i bambini. Diciamo la verità, noi combattiamo i bambini.
FV - C’è un altro aspetto, al riguardo. Gli altri messianesimi, (cristianesimo e
islamismo, ma anche comunismo, fascismi, le grandi ideologie politiche), volendo
dominare il mondo, hanno prodotto anche figure di missionari guerrieri, cioè
gente disposta a morire per la grandezza della propria Idea. Dove sono oggi i
volontari disposti ad immolarsi perché in Afghanistan o Iraq si affermi la sacra
triade di Bush: “democrazia, libertà, impresa”?
MF - Questa è la grande debolezza dell’Occidente, proprio per le ragioni che
dicevamo. Ecco perché fa questo tipo di guerre: non può perdere un uomo, perché
nessuno si sente di perdere la vita per il nulla, perché non ci sono valori che
lo sostengono. L’abbiamo visto molto bene in Afghanistan, dove da un parte
c’erano uomini, sia i talebani che gli uomini di Massud, con dei valori (giusti
o sbagliati che fossero), dall’altro c’erano solo macchine, cioè il vuoto.
Questa debolezza, alla lunga, peserà, perché se tu non puoi rischiare gli
uomini, hai voglia ad avere le macchine, un giorno o l’altro finisci sotto. Noi
stiamo facendo queste guerre infami proprio perché in Occidente se tu perdi 200
soldati è una tragedia, nessuno capisce per che cosa sono morti, mentre se
muoiono 200 talebani, loro sanno per cosa muoiono. Del resto basta vedere
l’esempio dei kamikaze; certo quella è un’estremizzazione del valore, i valori
cui penso io non sono così estremi …però ti dico un pensiero, che mi veniva in
mente una volta che tornavo da Teheran, dove a quell’epoca c’era tanta polizia,
un eccesso di senso se vuoi, … torno a Fiumicino,e c’è il festival di Sanremo su
tutti i giornali, Sabani, Paoli che cantava “che cosa faccio della mia libertà”,
insomma tutto quel caravanserraglio lì … E’ vero che c’è un eccesso di senso, ma
esiste anche un eccesso di non senso; noi viviamo questo, e a me più dell’orrore
fa orrore il nulla, noi siamo il nulla. Non vorrei essere appunto khomeinista,
però credo che una via di mezzo, con dei valori forti, senza essere oppressivi
in modo drammatico, si debba cercare, no?
FV - Destra e sinistra, culturalmente e politicamente, che senso hanno oggi?
MF - Molto meno di un tempo. Se tu ci pensi bene, sconfitti nazismo e fascismo,
che erano comunque fenomeni novecenteschi, le nuove generazioni sono tornate a
ragionare con marxismo e liberalismo, che sono in realtà categorie
ottocentesche, che hanno due secoli. E’evidente che queste categorie non sono
più in grado di comprendere a pieno la realtà e di darle un senso. Questo spiega
anche l’enorme crisi della nostra cultura, perché in realtà non produciamo più
nulla di nuovo perché siamo vecchissimi, e ci dondoliamo su questa finta
contrapposizione. Una cosa erano marxismo e liberalismo nell’ottocento o alla
fine del ‘700: erano due grandi idee che cercavano di razionalizzare quel
fenomeno nuovo che era la rivoluzione industriale, con Adam Smith e Ricardo in
un modo, Marx in un altro. Era giusto e lecito, era anche un reagire a 2000 anni
di immobilismo, di conformismo. Io non ho nessuna accusa da muovere né a Smith
né a Ricardo (oddio, un po’ spietatini…), Marx, ecc., insomma erano uomini
intelligenti che ragionavano sui loro tempi, ma certamente Adam Smith, Ricardo e
Marx se vivessero adesso non farebbero gli stessi discorsi di due secoli fa.
Erano dei geni, e quindi ragionerebbero, di fronte a realtà diverse, in modo
diverso, di fronte ai risultati, ci penserebbero sopra. Purtroppo noi abbiamo
intellettuali (Panebianco, Della Loggia, ecc.) che ripetono talmudicamente cose
scritte due secoli fa e che non sono più valide, o non sono più valide in eguale
misura.
Comunque, anche su destra e sinistra io uso l’immagine del treno: siamo in
questo treno che va ad una velocità pazzesca e sul treno c’è chi sta sulle
poltrone (però anche lui non sta bene, perché la velocità lo sballotta), poi c’è
chi sta sugli strapuntini, chi in mezzo al finestrino, chi sui cessi, chi rotola
giù dal treno … certamente una migliore distribuzione sul treno è importante, in
questo senso destra e sinistra hanno ancora un senso, ma la domanda di fondo è
dove sta andando il treno.
FV – Un commento sulla politica delle “grandi opere” del governo Berlusconi
MF - Ma vogliamo proprio scendere alla miseria? … Mi colpisce il fatto che ora
noi mandiamo fuori con l’indulto 15.000 carcerati perché mancano le carceri, poi
costruiamo il ponte di Messina. Cominciamo a costruire le cose che servono,
innanzitutto. Ma la cosa più importante è un’altra: esattamente come nelle
invenzioni scientifiche, quando tu fai opere di quelle dimensioni non conosci
mai le varianti che metti in circolo. L’Egitto è stato distrutto dalla diga di
Assuan: avevano fatto la diga di Assuan per un motivo ragionevole, cioè si
trattava di dare elettricità all’Egitto. Purtroppo la diga di Assuan ha alterato
in modo irrimediabile le famose tracimazioni del Nilo che hanno fatto sì che
nascesse la civiltà, e quindi quasi tutta la popolazione che viveva sul fiume
(sono tre milioni) non avendo più tali tracimazione, ha dovuto venir via da lì e
sta al Cairo. E sai dove sta? Sta al cimitero dei Mamelucchi. Ecco che la diga
di Assuan si è rivelata un disastro.
Perché quando fai opere così grandi, non ne conosciamo le conseguenze, non c’è
Nobel che può prevederle. Sarebbe l’ora di finirla, facciamo le piccole opere,
con le piccole dimensioni, le piccole cose,
Il discorso vale per un po’ per tutto, cerchiamo di non assolutizzare il bene,
passiamo al bene relativo, perché quando più cresce il bene tanto più cresce il
male, è una cosa osmotica. Volare un po’ più in basso, un po’ più
intelligentemente, gli antichi questo lo sapevano, non parlavano mai di bene
assoluto, semmai di beni relativi.