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Capitalismo tutto da rifare (Come negli anni 30...)

di Marcello Villari - 18/03/2008





 

A distanza di più o meno tre mesi dallo scoppio della crisi finanziaria negli Stati Uniti legata ai mutui immobiliari è possibile fare un primo bilancio degli avvenimenti che stanno scuotendo l'economia mondiale. Tentare di interpretare questa nuova crisi "globale", comprenderne la lezione sarebbe utile anche per aggiustare le strategie politiche.

In un momento in cui i gruppi finanziari più blasonati del mondo crollano a ripetizione come birilli - Citigroup, Merril Lynch, Carlyle Capital, Bear Stearns,UBS, Swiss Re, Northern Rock, Societè Generale, ecc. - e costringono le autorità pubbliche, già impegnate nel generale salvataggio del sistema finanziario internazionale, ad andare in loro soccorso, è naturale che l'attenzione sia in gran parte focalizzata sull'immediato o il futuro prossimo. Gli Stati Uniti sono già in recessione? Che conseguenze essa avrà sul resto dell'economia mondiale? E' giusto questo intervento pubblico, forse senza precedenti, almeno per risorse messe in campo, per salvare banche e banchieri avidi e senza scrupoli?

Ma nonostante la discussione si concentri su queste domande, qualche prima considerazione generale è possibile, soprattutto per evitare le tendenze ideologiche catastrofistiche che rispuntano a ogni crisi (il crollo finale del capitalismo) o la riduzione di avvenimenti di portata epocale come quello a cui stiamo assistendo a semplici errori di valutazione o a censurabili eccessi nella ricerca dei profitti finanziari.

In prima battuta si puo' dire che con la crisi attuale siamo al punto d'arrivo non della globalizzazione in quanto tale (che non significherebbe niente), ma di quel tipo di "globalizzazione anglosassone" avviata alla fine degli anni Settanta dalle politiche neoliberiste della Thatcher e, poi, di Reagan. Detto in altri termini e con un po' di semplificazione siamo di fronte al fallimento di quel particolare modello di capitalismo anglosassone - chiamato così in contrapposizione al "modello renano", cioè dell'Europa continentale - che ha dettato metodi e tempi del processo di globalizzazione che abbiamo vissuto in questi anni, predicato come la meta che le economie di tutto il mondo avrebbero dovuto raggiungere e che invece è stato fonte costante di destabilizzazione fino al botto dei nostri giorni.

O per essere più precisi, in questi mesi stiamo assistendo all'esito scontato di un sistema che conteneva in partenza gli elementi che avrebbero portato a uno sbocco devastante, come molti studiosi di vario orientamento da anni avevano messo in evidenza. Peraltro quella attuale è una crisi non solo economica - ecco il punto - ma politica e di legittimità, perchè non dobbiamo dimenticare che a pagarne le conseguenze alla fine saranno i fornitori della materia prima necessaria alla costruzione di questo castello di carta: i risparmiatori e soprattutto - nei sistemi anglosassoni appunto - i lavoratori, dal momento che negli Stati Uniti gran parte del risparmio che alimenta l'attività finanziaria si accumula nei loro fondi pensione.

Ma in che cosa consiste questo capitalismo anglosassone? In breve e schematicamente nella finanziarizzazione delle economie dei paesi sviluppati e nel conseguente spostamento dell'industria manifatturiera nei paesi in via di sviluppo con salari più bassi. Per far questo, nei paesi avanzati e in particolare nell'Europa "malata" di Welfare State, sono state necessarie due "riforme" fondamentali: la "liberazione" del risparmio sociale, cioè lo spostamento del suo uso dallo Stato (che lo restituiva ai cittadini sotto forma di servizi come sanità, pensioni, istruzione ecc.) a banche e società finanziarie private. Questo venne realizzato (nell'Europa continentale ancora solo in parte) con la giustificazione che il privato, il mercato, avrebbe offerto servizi migliori e meno costosi per la collettività. Tesi peraltro dimostratasi falsa, basta guardare al costo della sanità negli Usa. L'accettazione da parte di tutti delle ricette liberiste del libero movimento internazionale dei capitali e dell'apertura delle frontiere.

In questo schema, la drastica riduzione, nei paesi sviluppati, della base manifatturiera avrebbe certo comportato una diminuzione del tenore di vita di parti importanti della popolazione e del lavoro dipendente (nei servizi in genere la forza lavoro è pagata di meno, aumenta il precariato ecc.) ma questa riduzione di reddito sarebbe stata compensata con la trasformazione dei lavoratori in "capitalisti" (azionariato popolare), con la riduzione del prezzo delle merci grazie all'accresciuta concorrenza internazionale (versione dominante) - la società low cost - o con l'abbassamento del valore della forza lavoro internazionale (versione più corretta) e, infine, con il ricorso massiccio al debito, moderna versione della moltiplicazione dei pani e di pesci, vera e propria colonna portante di tutto il sistema e chiave per entrare felici e spensierati nel "paese di bengodi". Tutto questo appunto avrebbe evitato il crollo dei consumi nell'epoca della nuova divisione internazionale del lavoro. Per non lasciarsi sfuggire di mano la situazione sarebbe bastato mantenere il controllo sulle fonti energetiche (petrolio in particolare), dettare le regole sui movimenti finanziari (Washington consensus), la supremazia sulle nuove tecnologie e il potere militare dello "stato in ultima istanza" (gli Stati Uniti).

"L'economia tedesca resiste", si leggeva sul "Sole24Ore" di qualche giorno fa. E infatti, nonostante le turbolenze di questi tempi e la corsa al rialzo dell'euro, le esportazioni di due economie "vecchio stile" come Germania e Italia vanno bene - negli ultimi dieci anni hanno aumentato la loro quota di mercato internazionale - e forniscono ricchezza reale a questi paesi. Nello stesso articolo si legge: "Lo stesso incremento del costo del lavoro in Cina è considerato da alcuni osservatori in Germania un fattore positivo: provocherà un aumento della domanda di macchinari per l'automazione industriale nel paese asiatico che le imprese tedesche sono pronte a soddisfare". Un passaggio fondamentale, che spinge a due considerazioni conclusive:

Le economie che hanno mantenuto una base industriale e, in passato, hanno fatto gli investimenti giusti (è il caso della Germania, molto meno dell'Italia) non solo possono affrontare la concorrenza internazionale con salari in casa relativamente alti, ma sono anche meno sensibili agli andamenti delle retribuzioni nel resto del mondo. Insomma non hanno bisogno della generale svalorizzazione del lavoro.

Il "vecchio" e vituperato modello europeo continentale fatto di imprese industriali, di scioperi e conflitti di lavoro, di pensioni pubbliche e di welfare, e meno di finanza, di consumi e di debiti (in percentuale del PIL rispetto al capitalismo anglosassone) probabilmente riuscirà a superare meglio le attuali turbolenze. E peraltro la forza dell'euro rispecchia anche l'andamento della bilancia commerciale dell'Unione europea. In ogni caso, comunque si vedano le cose, sarebbe il momento, per la politica e per la sinistra in particolare di pensare a un programma di riforme in grado di limitare le conseguenze negative del cosiddetto "libero mercato", in modo che i salvataggi in corso non si risolvano nel classico " profitti privati, perdite pubbliche". Negli anni Trenta, quando si è capito che il mercato da solo non regolava un bel niente, i governi (non solo di sinistra) avviarono riforme che trasformarono radicalmente il capitalismo. Non siamo forse di fronte a una fase altrettanto cruciale, anche se non vedremo, come allora, le file di disoccupati perché la globalizzazione (in questo caso sì) aiuterà ad ammorbidire le conseguenze sull'economia reale del crollo della finanza speculativa.