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Pagare per lavare la nostra coscienza

di George Monbiot - 24/01/2006

Fonte: Nuovi Mondi Media


L’effetto più distruttivo della compensazione del carbonio è il fatto che ci convince che possiamo continuare a inquinare finché possiamo comprarci la nostra assoluzione dando qualche soldo a qualcuno che ripopoli le foreste. Ma come si quantifica il lavarsi la coscienza?

A volte invidio la capacità di auto persuasione dell’opinionista del Daily Mail Melanie Phillips. Quando Andrew Wakefield, un ricercatore del Royal Free Hospital, ha ipotizzato che ci potesse essere un legame tra autismo e il vaccino trivalente (morbillo, parotite e rosolia), la Phillips ha deciso che egli aveva ragione e ha tenuto duro nonostante il fatto che studi successivi non abbiano trovato alcuna evidenza in questo senso, che i suoi stessi collaboratori abbiano preso le distanze dalle sue posizioni e che la classe medica, quasi senza eccezioni, sia convinta della non validità dell’affermazione. Secondo la signora Phillips gli epidemiologi sono responsabili della “confusione nella categoria”, i revisori scientifici creano “disorientamento”, chi la critica vende “ignoranza, travisamento e diffamazione”.

Ed è altrettanto sicura di aver ragione anche sui cambiamenti climatici prodotti dall’uomo, tanto che l’anno scorso alla BBC ha affermato che si tratta di “un colossale imbroglio basato su simulazioni al computer viziate, su mancanza di scientificità e ideologia anti-occidentale… un mucchio di bugie e propaganda”. Non molto tempo dopo la Royal Society ha pubblicato una “guida su ciò che è vero e ciò che è falso in relazione ai cambiamenti climatici”, allo scopo di prendere di mira le argomentazioni portate avanti da gente come la Phillips, smontando tutte le sue affermazioni. Pochi mesi dopo, quando ben tre studi hanno dimostrato che i dati dei satelliti che suggerivano come l'atmosfera si fosse raffreddata erano viziati, anche l’ultima argomentazione di chi nega i cambiamenti è venuta a cadere. Il New Scientist ha riportato che “questo mette fine alla possibilità di resuscitare la questione”.

Ma Melanie Phillips non si lascia intimorire così facilmente. La settimana scorsa ha rilanciato l’attacco, sostenendo che i cambiamenti climatici prodotti dall’uomo sono “una delle bufale più grandi dell’era moderna”, “un prodotto d’ideologia, irrazionalità e di trascuratezza pseudoscientifica”, e che “la velocità del riscaldamento nel secolo scorso ha registrato valori in linea coi dati storici". Abbiamo anche appreso che "la maggior parte [dell'atmosfera] è costituita da vapore acqueo". I climatologi devono aver mentito anche su questo.

Come al solito gli scienziati non capiscono niente di scienza, lasciando la Phillips, professoressa autodidatta di epidemiologia, gastroenterologia, meteorologia e fisica dell’atmosfera, a risolvere tutti i problemi. Come ci riesce? Come può essere così convinta delle proprie ragioni da non permettere né all’evidenza stessa, né alla Royal Society, né all’autorevolezza delle più accreditate riviste scientifiche di spostarla di una virgola dalle proprie posizioni? Forse sa di possedere fin dalla nascita capacità profetiche, per cui tutto quello in cui crede è e sarà per sempre vero? O si tratta di qualcosa di indotto dall’esperienza? In questo caso, di quale esperienza si tratterebbe?

L’occasione che ha generato la sua uscita più recente è stato lo studio pubblicato su Nature della settimana scorsa, che mostrava, con grande sorpresa di tutti, che le piante producono metano, un gas serra. Phillips ha usato questa scoperta per suggerire che tutta la scienza del global warming è stata confutata e che non esiste alcuna necessità di preoccuparsi della biosfera. Nature, invece, è giunta alla conclusione opposta, stabilendo che ogni cambiamento climatico ne creerà altri, dato che le emissioni di metano delle piante aumentano con l’aumentare della temperatura.

Va detto che se anche questo studio non mette in discussione la teoria sul global warming, lancia comunque una sfida, mettendo in crisi una delle nostre soluzioni preferite per affrontare il problema: pagare gli altri per rimediare ai nostri danni.

Sia attraverso il mercato del carbonio che per mezzo di un provvedimento del protocollo di Kyoto chiamato “meccanismo dello sviluppo pulito”, aziende, nazioni e persone possono affermare di poter ridurre le emissioni investendo in progetti da portare avanti nei paesi poveri a favore dell’ambiente. Tra le altre possibilità c’è quella di guadagnare crediti di carbonio pagando qualcuno per piantare alberi. Gli alberi, crescendo, dovrebbero assorbire il carbonio che liberiamo bruciando combustibili fossili.

Nonostante le nuove scoperte, sembra pur sempre giusto affermare che le foreste sono serbatoi di carbonio, dal momento che assorbono più gas serra di quanti ne liberino. Se vengono abbattute, è ipotizzabile che il carbonio degli alberi e del terreno su cui crescono entri nell'atmosfera: quindi, per questa e altre ragioni, proteggerle rimane una buona idea, anche se il nuovo studio fornisce prova ulteriore che la contabilità dietro molti dei progetti di compensazione del carbonio manca di validità.

Anche se esiste un’idea abbastanza precisa di quanto carbonio liberino fabbriche, aerei e macchine, non c’è altrettanta certezza su quanto ne venga assorbito dagli alberi che vengono piantati. Quando si bonifica o si pulisce il terreno per le nuove piante, ad esempio, è probabile che si liberi del carbonio, ma è difficile dire in quali quantità. Inoltre piantare alberi in un luogo può arrestarne la crescita altrove, ad esempio prosciugando un fiume che alimentava una foresta più a valle; oppure, proteggere una determinata foresta dai boscaioli può significare spingerli a distruggerne un’altra. Mentre le temperature globali si alzano, gli alberi in molte aree cominceranno ad avvizzire, liberando il carbonio che contengono. Gli incendi nelle foreste li potrebbero spazzar via completamente. Anche l’aspetto temporale è critico: le emissioni evitate oggi hanno un valore molto maggiore, in termini di riduzione dei cambiamenti climatici, di quelle che saranno evitate tra dieci anni, poiché le nuove piante inizieranno ad assorbire carbonio molto tempo dopo che le fabbriche lo avranno rilasciato. Tutto questo ha reso i calcoli ipotetici, ma le nuove scoperte, con i margini d’incertezza che le contraddistingue (le piante, dicono i ricercatori, producono tra il 10 e il 30% del metano del pianeta), rendono impossibile una conclusione veritiera.

In altre parole, non si può affermare ragionevolmente di aver scambiato il carbonio contenuto nel petrolio o nel carbone con quello assorbito dagli alberi. Il carbonio minerale, fino a quando rimane nel terreno, è stabile e quantificabile. Il carbonio organico è labile e instabile.

Aggiunge confusione anche il fatto che per poter dimostrare che ripopolando o proteggendo le foreste si riduce realmente il carbonio contenuto nell’atmosfera, bisogna provare che se non si fosse agito così sarebbe successo qualcos’altro. Oltre a essere arduo da realizzare, ciò costituisce un invito per paesi e aziende a minacciare di aumentare le emissioni permettendo loro di presentare l’alternativa in questione come un miglioramento dei loro piani distruttivi, e, strumentalmente, rivendicare la differenza come una riduzione di carbonio.

In Brasile ne esiste un buon esempio. Esiste un’azienda nello Stato di Minas Gerias che gestisce una grossa piantagione di eucalipti, che utilizza per produrre carbone di legna destinato a fondere la ghisa. Molti abitanti del luogo la odiano perché li ha privati della terra e ha sostituito la foresta e la savana diversificate che li sostenevano con una monocultura. Questa compagnia ora afferma che le nazioni ricche dovrebbero mantenere le sue piantagioni, perché in caso contrario i suoi clienti passerebbero al carbone. Gli abitanti del luogo asseriscono che l’azienda non aveva alcuna intenzione di abbandonare gli alberi fino a quando non ha intravisto le potenzialità del mercato del carbonio e aggiungono che sarà ricompensata per avere tenuto i legittimi proprietari lontano dalla loro terra.

Ma forse l’effetto più distruttivo della compensazione del carbonio è che il fatto che ci convince che possiamo continuare a inquinare, che i governi possono proseguire nel costruire strade e aeroporti, e che noi possiamo passare le nostre vacanze in Thailandia, finché possiamo comprarci la nostra assoluzione dando qualche soldo a qualcuno che ripopoli le foreste. Come si quantifica il lavarsi la coscienza? Come si può essere sicuri che il comportamento indotto da questo commercio non neutralizzi i benefici che crea?

In altre parole, penso che sia onesto ammettere l’esistenza di un imbroglio in atto, ma non del tipo che lamenta Melanie Phillips. Sappiamo che i cambiamenti climatici impoveriscono molte persone. Adesso sappiamo anche che ne arricchiranno altre, ma i loro piani per accumulare denaro hanno davvero molto poco a che vedere con la salvezza del pianeta.

 

*Guardian

 

Fonte: http://www.guardian.co.uk/climatechange/story/0,,1687979,00.html
Tradotto da Antonella Melegari per Nuovi Mondi Media