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Le pelli dell'uomo

di Nicola Piro - 07/06/2008

                          

 

 

“Poca osservazione e molto ragionamento portano all’ errore, molta osservazione e poco ragionamento portano alla verità”.

Alexis Carrel (28 giugno 1873 – 5 novembre 1944).

 

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   La sua epidermide, l’ abito che indossa, la casa e la città costituiscono i contenitori o gl’ involucri de: L’ uomo, questo sconosciuto, per ricordare il noto libro filosofico (1935) del chirurgo e biologo, Premio Nobel, francese, Alexis Carrel. Che, beninteso, non vogliamo ricordare per la sua tesi in ordine alla preminenza di una élite intellettuale che tuteli la salute fisica e psichica del popolo e corregga gli inevitabili errori dell’ uguaglianza democratica. Ne detestiamo, anzi, fermamente la tesi aberrante secondo la quale criminali e malati di mente devono essere umanamente ed economicamente eliminati in piccoli istituti per l’ eutanasia, forniti di gas adatti. L’ eugenetica è indispensabile per perpetuare la forza. Una grande razza deve propagare i suoi migliori elementi: le donne si deteriorano volontariamente attraverso alcool e tabacco. D’ altro canto rifiutano d’ avere figli grazie alla loro educazione, al progredire del femminismo, alla crescita di una miope autoaffermazione. L’ eugenetica può esercitare una grande influenza sul destino delle razze civilizzate; l’ espandersi di pazzi e deboli di mente deve essere prevenuta perché è peggiore di qualsiasi fattore criminale. L’ eugenetica chiede il sacrificio di molti singoli essere umani.

 

   Sarebbe ingiusto, però, ricordare il pensiero di questo grande scienziato per le tesi testé citate, se non fosse per ricordarne, anche e soprattutto, quel percorso che per la stessa via della sua scienza lo conduce alla fede. E qui non possiamo sottrarci ad una considerazione di merito sulla figura semplice ma complessa di Joseph Ratzinger del quale, da non credente, e nei limiti di tempo e di spazio, per lunghi anni in Germania ne abbiamo seguito parte del  percorso. Donde, per noi, la considerazione che la sua elevazione alla soglia di Pietro è stata per la cultura contemporanea europea una grande perdita.

 

   La città come cosmo, la città come universum impenetrabile è il primo approccio dell’ uomo con l’ ambiente antropizzato. Poiché la forma di una città ha le sue origini nel dato geografico e nella sua architettura. D’ accordo. Ma da dove ha origine il suo “spirito” o il suo genius ? Possibilmente dai suoi abitanti e dagli avvenimenti che ne hanno contrassegnato il cammino e che hanno avuto come teatro le sue strade e i suoi vicoli. L’ unica certezza può essere rappresentata dal fatto che il benessere spirituale di una città è da connettere con la sua forma fisica: bellezza, armonia e ordine nelle strade producono armonia sociale e pace individuale. Cioè quel senso di completezza-incompletezza, astratto, che in definitiva noi chiamiamo Ideale. Che, poi, nei secoli passati questo Ideale sia stato raggiunto ed ai nostri giorni ne smarriamo il senso, è un rimprovero e nello stesso tempo una sfida nella misura in cui l’ uomo (questo sconosciuto) è in grado di controllare, civilizzare e arricchire l’ ambiente, o l’ um-feld, urbano che si è procurato per il soddisfacimento dei suoi bisogni di vita.

 

   Intanto con le sue due prime pelli, l’ uomo è un contenuto della città. Quella città maestosa e logora, intima o impersonale, creativa o cangerogena, è immagine-riflesso dell’ uomo stesso, con tutti i suoi vizi e le sue debolezze. Quella città, ancora, che è stata parte di quella spinta creativa che produsse la ruota, l’ aratro, il telaio, la vela, la matematica, il calendario, la metallurgia, il sistema monetario, la scrittura, la letteratura scritta e la raccolta delle leggi. Insomma quella che oggi chiamiamo la memoria collettiva.

 

   Dov’ è stata costruita la prima città ? Gerico, nella Palestina o Catal Huehuek, nell’ Anatolia, già abitate nell’ 8000 ca., a.C. ? Da cosa è nata quell’ idea di città che potrebbe condurci all’ ipotesi secondo la quale i caratteri specifici della cultura mittel-americana – urbanizzazione compresa – abbiano potuto, possibilmente, aver luogo  dalle migrazioni transoceaniche di popolazioni del Medio Oriente ?

 

   Riportiamo un interessante pensiero di Christian Norberg-Schulz quando afferma: Lo scopo esistenziale dell’ edificare (l’ architettura) è quello di trasformare un sito in un luogo, ossia di scoprire i significati potenzialmente presenti nell’ ambiente dato a priori. Se poniamo l’ attenzione sul fare città del mondo greco-romano, è facile rendersi conto come in definitiva le case formano un luogo, ma sono i cittadini che fanno la città. In definita l’ incomparabile caratteristica della polis greca altro non è stata che il cittadino con il suo voto democratico e la sua percezione degli spazi pubblici nella città: i bagni, l’ agorà, il teatro. Aristotele definì la vita nella città greca come il vivere in comunità per un nobile fine, mentre la polis stessa

divenne idea e nello stesso tempo ideale. Al contrario della nostra immagine di Atene come città ideale nell’ epoca del suo fulgore, il territorio sotto l’ akropolis (città alta) era sovraffollato e trascurato ed  l’ ideale stesso della polis per quanto atteneva la struttura sociale toccava i suoi limiti, poiché stranieri, donne e schiavi erano esclusi dal diritto di cittadinanza.

 

   Seguendo il pensiero di Max Weber, una città si può tentare di definire in diversi modi. Tutte le definizioni  hanno però soltanto in comune il fatto che la città (almeno relativamente) è un insediamento chiuso; un luogo inteso come spazio idealmente o materialmente delimitato; non una o più singole dimore. Al contrario nella città le case hanno cura di stare l’ una accanto all’ altra; oggi, di regola, muro a muro.

 

   Ecco, allora, che il solo pensare al concetto di città globale c’ innoridisce e ci avvilisce. Anche se il fenomeno della globalizzazione in sé è stato nel tempo parte consustanziale del concetto stesso del divenire-città. In questo senso condividiamo certe analisi della sociologa americana Saskia Sassen, laddove sostiene che è la tendenza paradossale della città globale che cresce in modo disordinato. Aumenteranno i conflitti sociali. Nelle città globali, sostiene la sociologa, si creano continuamente nuove frontiere, dove nuovi soggetti con nuovi interessi sono in lotta. Non possiamo, tuttavia, recepire il fenomeno crescente della globalizzazione urbana (che in tempi passati urbanisti e sociologi chiamavano conurbazione) come dato acquisito e generalizzabile per la semplice ragione che eistono modelli urbani diversi, come per esempio, la città europea, cioè la città compatta e/o storica italiana, che presenta altri connotati da (ri)studiare nella loro genesi e da approfondire nella loro (re)interpretazione.

 

   Ed in questo caso il discorso si sposta in direzione delle tipologie urbane riscontrabili nel tessuto della città compatta europea e italiana, in particolare. Della quale, certamente, la casa unifamiliare urbana a schiera, vista nel contesto delle due componenti essenziali dell’ urbanistica classica, la strada e l’ edificio, costituisce la sintesi per eccellenza. Nella sapiente combinazione di questi due elementi, grazie anche ai rigorosi statuti edilizi delle città dell’ Italia dei Comuni, dalla mente e dalla mano di un capomastro-architetto (Baumeister) - capace di coniugare forma e proporzione, materiale e costruzione, in un compendio di sublimazione artitistica (per Camillo Sitte l’ urbanistica è Stadtbaukunst) – i prospetti delle case a due piani diventano le pareti del vano-strada-piazza, spazio (pubblico) definito, che diventa, a sua volta, ambiente di soggiorno della civitas: un luogo-spazio di socializzazione nel quale tutto è movimento, operosità, con le finestre in formato verticale delle facciate degli edifici a disegnare campiture di rara armonia.

 

   E, così, come per incanto, la spazio urbano diventa l’ espressione di un Kunstwollen e la città un Gesamtkunstwerk a svelare i segreti delle sue pietre che apre all’ incanto del mistero del divenire-città  con un perché (?) non ancora chiarito dell’ andamento curvilineo delle strade amorevolmente calibrate. E, grazie proprio a queste coordinate spaziali, che dobbiamo collocare quella “pelle” dell’ uomo, la dimora,  che gli conferisce dignitas.

 

    Poiché vi è un modo più bello per scrivere la storia di una città oltre che attraverso le sue vicende politiche, il suo sviluppo economico o il suo regresso, la vita culturale e artistica, quella spirituale o metariale. Un’ altro modo di scrivere è attraverso la casa; la casa che l’ uomo ha costruito per sé e per gli altri uomini, leggiamo nel retrocopertina del bellissimo testo, La casa fiorentina nella storia della città, di Gian Luigi Maffei. Senz’ altro le stesse motivazioni che hanno sollecitato Jacques Le Goff a donarci un testo magnificamente illustrato: L’ amore per la città.

 

   Qual’ è, pertanto, il mistero che avvolge l’ affresco di Ambrogio Lorenzetti, Gli effetti del Buon Governo (certamente non quelli partoriti dalle classi politiche italiane succedutesi in sessant’ anni senza Stato !) sulla città ? Il messaggio di quelle composizioni materiche in maniera quasi cubista - le case, le torri, i vicoli – e di quei personaggi tutti indaffarati quasi a dirsi: noi costruiamo la nostra città; noi lavoriamo nella nostra città ? A scrutare l’ affresco, ci si accorge che la vita(lità) urbana non spinge verso le case: le penetra. Nella strada c’ è animazione mentre l’ architettura concede spazio al movimento. L’ atmosfera è gaia e operosa, colorata e ottimistica, come proprio si addice ad un Buon Governo.

 

Ecco la rabbia che ci assale quando apprendiamo dello scempio che s’ intende offrire da malsane amministrazioni a città come Milano o Roma in nome di uno stupido e pacchiano modernismo, nella prima, e del non-fare, nella seconda.

 

   Nella metropoli lombarda due “Piani-Master” , curati da stars inernazionali - Norman Foster per l’ area di Santa Giulia, Renzo Piano per l’ altra degli ex stabilimenti della Falk - hanno disegnato proposte per nuovi modelli di vita. Per chi ? Per quali famiglie ? È sufficiente sbandierare ai quattro venti discutibili criteri di sostenibilità (quali ?) per imbellettare operazioni immobiliari ad uso e consumo dei nuovi e vecchi ricchi mentre alla giovane coppia di lavoratori viene riconfermato il solito e perverso percorso di un calvario costellato dei soliti mutui ad alto tasso d’ interesse per l’ acquisto di indegni alloggi, prodotto della più volgare ed ingorda speculazione edilizia messa in opera da palazzinari improvvisati ?

 

   È possibile elaborare tipologie alternative per la famiglia media italiana come, per esempio, la casa urbana a schiera o la casa isolata, trigenerazionale (nonni, figli, nipoti) a costi contenuti,  progettata da responsabili architetti, ingegneri e geometri, e costruita sulla base di tante gare d’ appalto quante sono le categorie di lavoro (in media 15 !), ad alto risparmio energetico, per il recupero sociale della famiglia tradizionale ?  O, per esempio, un modesto ma solido edificio con due unità abitative contigue, rispettivamente, per i nonni, a piano terra, e, abitazioni per figli e nipoti, rispettivamente, al 1° e  2° piano, in piccoli lotti di terreno enel quadro di una sana, democratica, partecipativa pianificazione di uno sviluppo urbano sostenibile ed ecologico ?

 

   È, la concessione di garanzie sui mutui offerta dal Comune di Torino agli under 35 precari, la soluzione definitiva per una società che vive nel segno dell’ incertezza, della precarietà, degli sperperi o è giunta l’ ora di rivedere, per rifondarlo su basi di un vero ed autentico “socialismo nazionale”, un sistema-Italia nato già in coma sessant’ anni or sono ?

 

   In un orizzonte non lontano noi vediamo due alternative: costruire e  rafforzare lo Stato; rendere solide le sue istituzioni. L’ unica arma per sconfiggere le peggiori forme della globalizzazione selvaggia in un contesto nel quale il mercato dovrebbe avere una sola funzione: facilitare una sana contrattazione dei beni sulla base della domanda, della qualità (dei prodotti) e dell’ offerta. Poiché la fine del liberismo non significa automaticamente la fine del mercato. Si tratta, secondo noi, di concetti diversi: il liberismo è una scienza, il mercato è prassi; il liberismo allontana e separa gli uomini, il mercato, se sano, li avvicina. Sì, in quanto il liberismo altro non è se non una delle peggiori metastasi del capitalismo. Il mercato, invece, in una solida economia ecologica e sociale, incrementa gli scambi di beni e facilita la comunicazione degli uomini.