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Nel profumo della notte d'estate il ricordo respira e prende vita

di Francesco Lamendola - 17/06/2008

Belle sono le tarde ore della notte, quando la campana del villaggio suona le due, e il silenzio è una cosa viva che respira dolcemente dalla terra.

Si sono spente, da tempo, anche le ultime luci; come un presepe addormentato, le case del borgo sono scivolate nel buio, con gli orti e i cortili, con i tetti lucidi di pioggia, con gli alberi dove l'ultimo merlo ha spiegato l'ultima nota del suo canto melodioso già da molte ore, zittendosi nel folto della chioma.

È un momento senza tempo e senza storia, quando le cose di sempre tacciono e scompaiono, e il modo erompe nella sua essenzialità, nel suo profumo, nella sua fragranza. Cadono le maschere, le apparenze, lo sciocco affaccendarsi e tutto quanto non è essenziale, come le foglie al vento d'autunno.

Rimane solamente l'anima delle cose.

Nella tenera notte d'estate, fresca e viva come l'aria dopo il temporale, perfino i grilli tacciono, tutto tace e s'immerge in una pace vastissima e amichevole, che accoglie pensieri ed emozioni come un grembo materno.

Non è limpido il cielo, nessuna stella si vede, né la luna; grandi nuvole basse e gonfie incombono sulla valle, si posano sui fianchi delle colline e coprono le cime delle montagne. Sono cariche di pioggia, ma non c'è vento; solo un'aria frizzante che odora di campi bagnati, di piante che crescono, di vita che sta per essere partorita. I fitti boschi che ammantano i colli sono scuri come recessi misteriosi che attendono, trattenendo il fiato, qualcosa che deve accadere.

Nessun rumore: né d'uomini, né d'animali. Dormono sui rami, nel nido, i passeri coprendosi il capo con le ali. Dormono le rondini negli angoli dei muri sotto i tetti, sognando l'immensità del mare e dei deserti attraversati; dormono i pipistrelli a testa in giù, nei loro oscuri nascondigli; dormono le cicale sotto la corteccia dei tronchi, e i grilli al riparo delle zolle erbose.

Un profumo intenso, pungente, di cose buone e lontane, si sparge ovunque e concilia lo spirito al ricordo.

Si direbbe proprio lo stesso profumo di tanti anni fa - o era ieri? -, in quella casa di campagna sospesa fra l'ultimo bastione di quelle altre montagne e l'ampia valle ghiaiosa del fiume che scorre là in basso, calmo e solenne come se già fosse in vista del mare.

Ed ecco il prodigio.

Chiudendo gli occhi nella gran pace e nel gran silenzio della notte estiva, mentre le prime gocce di una pioggia sottile ed uguale cominciano a cadere con un fruscio di seta, il profumo dei boschi e delle montagne bagnate riporta quelle cose lontane, una dopo l'altra.

Come un mosaico che si completa poco a poco, tessera sopra tessera, quelle cose ritornano, tutte, con precisione infallibile, e fanno rivivere il quadro completo, lo fanno tornare come se mai si fosse allontanato.

Non è la memoria che torna ad esse, sono loro che ritornano amichevoli; anzi, non ritornano: riemergono, là dove erano sempre state, dove non se ne erano mai andate. E adesso sono qui, vive: non come se fossero venute dal passato, ma presenti, e la coscienza con loro.

Non è uno sforzo della memoria, quello che le fa riemergere; è la coscienza desta che si accorge di essere ancora lì, come allora, come sempre; che non ci sono un prima e un dopo, un quaggiù e un laggiù. Che tutto è sempre attuale, sempre fresco, sempre nostro; e che questa è la cosa più naturale del mondo, anzi, l'unica cosa possibile.

Impossibile è la separatezza, impossibile la dimenticanza. Qui, ora, nel fresco e nel profumo della notte estiva carica di pioggia, mentre il mondo tace e i boschi affondano nella nebbia, la cosa più logica e perfettamente naturale  è ritrovare tutto, essere ancora e sempre quelli di allora, fra le cose di allora.

Dov'è la mente, in questo momento?

Rivede tutto: i luoghi, le cose, le persone, le emozioni, le tonalità delle emozioni. No, non rivede, rivive. Nemmeno questo: vi è immersa, e dall'interno.

Quella casa semplice, costruita da emigranti, un mattone sopra l'altro, col suo piccolo giardino, la conigliera sotto la scala, e la minuscola vasca di cemento per i bagni estivi; con quei mobili di legno chiaro, ingenuamente pretenzioso, che odorano ancora di vernice e i caprioli scolpiti sulle ante della credenza, lì in salotto.

Il terrore della strega che si nasconde sotto il letto, e quel tirarsi le coperte fino sopra il mento, senza  lasciar fuori neanche un dito, perché lei non balzi fuori all'improvviso e non lo afferri con un ghigno satanico.

L'estasi di entrare in quel negozio di giocattoli che sembra il palazzo incantato delle meraviglie, e poi di uscirne con in mano un minuscolo, inestimabile tesoro: un paio di soldatini nuovi fiammanti, così ben dipinti da sembrare veri, armati e pronti per combattere innumerevoli, appassionanti  battaglie senza quartiere.

Quella simpatica vecchietta, custode di una biblioteca ove non entra mai nessuno, felice di poter mostrare finalmente i suoi tesori, in un uggioso pomeriggio in cui piove a catinelle; e la scoperta folgorante, meravigliosa, della lettura, immergendosi nel deserto nevoso di Zanna bianca, popolato di lupi che escono dalle immense foreste al calar del crepuscolo.

Quelle sere estive lunghissime, odorose di pioggia, con il sole che non si decide a tramontare dietro i monti, mentre spande un alone dorato sulla valle del fiume, con le ultime rondini che sfrecciano verso il nido, nel concerto insistente d'innumerevoli grilli.

Quell'affacciarsi dal balcone a occidente, verso i raggi del sole che muore, con quel cielo dalla luce surreale, lattiginosa, simile a un'aurora boreale; mentre il giardino, lì sotto, si riempie di ombre, di sussurri, di mistero…

Quelle notti d'agosto con gli occhi fissi sullo spettacolo fantastico delle stelle cadenti, delle stelle di San Lorenzo; quegli oggetti d'altri mondi che scendono, incendiandosi, nella luce ancora trepida del sereno crepuscolo: incredibile sensazione del contrasto fra le loro tremende potenzialità distruttive e l'incomparabile bellezza  dei disegni che tracciano in cielo, così veloci da avere appena il tempo di formulare un desiderio…

Senza sforzo, particolari dimenticati riaffiorano uno dopo l'altro: quel disegno sul giornalino a fumetti; quel ciuffo d'erba presso la rete metallica,  in giardino; quella osteria vasta e misteriosa, dal pavimento di legno che risuona sotto i passi, con la veranda posteriore che pare affacciarsi su un altro mondo, popolato di boschi e di cerbiatti - chi può dire se sia sogno o realtà…

 

Un crudele terremoto ha buttato giù ogni cosa, alcuni anni più tardi.

Poi, ad eccezione dell'antichissimo castello, il paese è stato ricostruito - oh, alla perfezione, esattamente come prima -, ma ormai non è più quello. Come una signora non più giovane, dopo che si è sottoposta al lifting: troppo liscia la sua pelle, troppo fresco il suo sorriso; artificiale, impossibile. È ancora lei, ma non è più lei.

Eppure è ancora tutto qui presente, non nei muri di pietra e di mattoni; non nelle strade in salita e nelle rocce dei monti che s'innalzano bruscamente sulle case; non nell'antico duomo romanico, con gli stupendi rosoni e con quel gigantesco San Cristoforo, scolpito sulla facciata, che incute una strana soggezione, quasi fosse un abitatore di altri mondi.

È tutto presente nella coscienza - neanche nella memoria, perché la memoria è il ricordo di cose passate - no, nella  coscienza che non ha tempo, che non ha età, che è sempre giovane e bella, sempre vestita d'ingenuità e d'entusiasmo, sempre piena di stupore e di meraviglia. Nella coscienza che è come una bellissima fanciulla, che ti guarda con un sorriso soave, un sorriso azzurro, pieno di sole e di devozione; un sorriso di dolcezza infinita.

E non è la coscienza che si porta indietro, che ritrova le cose di allora; sono quelle cose, quei colori, quei sapori, quei profumi, che riaffiorano nella coscienza, vivi e intensi come allora; che riafferrano  la coscienza nel loro eterno presente, nel loro esserci senza tempo.

Quell'odore buono dei pastelli a cera, per esempio, fedeli compagni di tante ore liete, legato per sempre a quel pomeriggio di sole in cui si consegnarono, nuovi, perfetti, bene allineati, dentro la loro scatola a vivaci colori, per un'amicizia di lunghissima durata.

E quel freddo della sera, dopo cena, che scende giù dai monti e che accarezza la pelle con ruvida mano, spingendo a tirar fuori dall'armadio i maglioni di lana; quella carezza virile che fa rabbrividire e che rende più acute tutte le sensazioni, destando nel cuore di un bambino di città quel sottile piacere fatto di spensieratezza, di libertà, di vacanza; quella nostalgia dolcemente dolorosa di spazi indefiniti, di prospettive sconfinate…

 

Che cos'è il tempo, che cos'è la coscienza? E che cos'è il presente, cosa sono il passato e il futuro, il ricordo e l'attesa? Chi siamo noi? Dove siamo ora, e perché? È l'adulto che si rammenta del suo io bambino, o è quest'ultimo che riemerge, intatto, dalle profondità dell'adulto? È l'adulto che sogna di essere ancora un bambino, o è il bambino che sogna d'essere diventato adulto?

Dov'è il dentro, dov'è il fuori? Dove sono l'alto e il basso, il prima e il poi? Siamo noi che viviamo nel ricordo, o il ricordo ci ha afferrati nel suo eterno presente? Quelle immagini, quei volti, quegli odori, sono laggiù, trascorsi, svaniti; oppure sono qui, perenni, sempre giovani, anche quando noi saremo vecchi? Anche quando non ci saremo più? O, magari, ancor prima che ci fossimo?

Ma è proprio vero che un giorno non ci saremo più? E che c'è stato un tempo in cui non c'eravamo? O è soltanto un'illusione  della mente, della mente ragionante, che crede di sapere tante cose e che invece, forse, non sa proprio nulla di nulla?

E se tutto è ancora qui, se è sempre stato qui, lo è stato in noi, o noi in lui?

 

La pioggia cade sottile, uguale, con un rumore secco nel silenzio totale della notte estiva. Nemmeno il più piccolo rumore le fa schermo, è come se ogni singola goccia giungesse nitidamente al nostro udito.

Ma che pioggia è questa che sta cadendo? È quella di adesso, o quella di allora? E questo profumo sontuoso di terra bagnata, di nuvole gonfie, di umidità pungente come quella che impregna il ponte di un veliero che solca l'oceano: da dove viene? Da quali lontananze del tempo e dello spazio, da quali mondi, da quali dimensioni?

 

È strano: più la mente desta si svuota di pensieri, di desideri, di intenzioni, e più vengono a galla immagini precise, sensazioni definite che parevano scordate per sempre. Vengono per forza propria, senza sforzo, senza tensione della mente.

Più la coscienza desta si abbandona e si lascia andare, più emerge con forza quell'altro mondo parallelo al nostro, o forse più nostro di quello quotidiano, più vero del nostro atto maggiormente intenzionale.

Più l'io si fa piccolo, e più ingigantisce il Sé, la nostra consapevolezza più profonda: non razionale  né calcolante; non definibile a parole; non riassumibile in una formula.

Bisogna perdersi, per potersi ritrovare.

Bisogna farsi poveri di tutto, per poter riacquistare tutto.

Lietamente, serenamente ci si deve spogliare della volontà, del desiderio, della paura e del dolore, di tutto quello che è oggetto di amore e odio, di brama e timore. Come quando a sera, stanchi, ci si spoglia dei vestiti per accingersi al riposo: così bisogna spogliarsi del fardello del piccolo io, del falso io che appesantisce inutilmente.

Solo allora il mondo apparirà, eterno giovanetto, in tutto il suo splendore.