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Artaud: Lo specchio oscuro del genio malato

di Stenio Solinas - 28/01/2006

Fonte: il giornale



A vent'anni è il primo ricovero per depressione, a ventiquattro la sifilide: il combinato disposto di arsenico, mercurio, bismuto, laudano, preparano la strada di un processo schizofrenico inarrestabile. Da quel 1935 che segna di fatto l'abbandono delle scene, cinematografiche e teatrali, la caduta è vertiginosa: il 1936 lo passa in Messico, vivendo con la tribù indiana dei Tarahumara e partecipando al rito del peyoti, il 1937 lo vede prima in clinica, poi in Irlanda, dove è arrestato per oltraggio al pudore e rimpatriato, poi di nuovo in ospedale. Da allora e fino al 1946 non ne uscirà più: cambiano i luoghi di ricovero, i metodi di cura, comprese quelle scariche di elettroshock contro cui non smetterà di indignarsi, ma non la diagnosi: malato mentale irrecuperabile.
Intorno alla schizofrenia la rassegna del Pac ruota come una sorta di farfalla attratta irresistibilmente dalla luce. Nel ricostruire la stanzetta - il letto di contenzione, la camicia di forza - dove, un carcerato più che un malato, Artaud subisce in 19 mesi 52 scariche, le radiografie che dimostrano una lesione permanente alla spina dorsale come conseguenza, le immagini fotografiche di un trattamento forzoso di quel genere su un paziente recalcitrante, Lebel ha buon gioco nel mostrare l'incapacità della scienza medica ufficiale nell'accettare una malattia che nella moltiplicazione degli io nasconde pozzi insondati di creatività. C'è qualcosa di inumano, o di troppo umano, in quei clinici che per annientare il delirio di una mente annientano, né più né meno, la mente stessa.
Come si lamenterà, con perfetta lucidità, lo stesso Artaud: «L'elettroshock fa di me un assente che si avverte assente e che per settimane va in cerca del proprio essere, come un morto accanto a un vivo che non è più lui, che esige la sua venuta e nel quale non può più entrare. Dopo l'ultima serie, sono stato per tutto agosto e settembre assolutamente incapace di lavorare, di pensare, di sentirmi essere. Questo trattamento iniquo mi distacca da tutto e dalla vita».
Eppure... C'è nel catalogo un'intervista ad André Berne-Joffroy, già conservatore al Museo d'arte moderna di Parigi, visitatore di Artaud all'ospedale psichiatrico di Rodez, dove alla fine era stato rinchiuso, e in pratica l'uomo che si incaricherà di mettere in salvo manoscritti e documenti dopo la sua morte, che induce a molte cautele. Secondo Joffroy «se Artaud non fosse stato sottoposto a quel trattamento non si sarebbe potuto farlo uscire nel 1946. Sicuramente, gli elettroshock hanno migliorato molto la sua parafrenia... Dico soltanto, e lo dico nel modo più categorico, che stava molto meglio quando è uscito da Rodez rispetto a tre mesi dopo. È stato allora che l'ho rivisto, e mi è sembrato un vecchio. Dal momento in cui hanno cominciato a fornirgli oppio o altre droghe è dimagrito moltissimo, si è ingobbito. Quando l'avevo visto a Rodez stava ancora più o meno eretto. Quando l'ho rivisto a Parigi era invecchiato di vent'anni. Irriconoscibile».
Più Lebel nell'intervista si erge ad accusatore della medicina ufficiale, vista come una confraternita di carnefici-stregoni, più Joffroy puntualizza, riconduce alla realtà, fa capire l'impossibilità per Artaud di un'esistenza quotidiana autonoma fuori dalle mura in cui fu richiuso. Ed è del resto lo stesso Lebel a ricordare che la richiesta al dottore Ferdière, il medico dei famigerati elettroshock, di curare Artaud venne proprio da uno dei suoi amici più fraterni, il poeta surrealista Robert Desnos: «Bisogna che si occupi di lui. Questa volta non temo per il suo stato mentale, è il suo stato generale ad inquietarmi».
Insomma, il confine fra genio e follia, ovvero l'anormale normalità del genio, è esile e difficile da individuare. E i complessi di persecuzione, le moltiplicazioni di personalità, i rituali scaramantici, i tic, le manie, le violenze contro se stesso e contro altri disegnano un percorso irto di difficoltà, foriero di fraintendimenti.
Nelle sale del Pac, le 44 istantanee che Denise Colomb gli scattò nel dicembre del 1946, sei mesi dopo che era stato definitivamente dimesso, fanno il paio con i coevi ritratti di Jean Dubuffet, un volto maledetto da derviscio, maligno e sfrontato, segnato e contorto, vinto e vincitore: «Nonostante i suoi abiti logori e sudici ha un'eleganza imponente, come un magnifico principe, tremendo nella sua follia».


Artaud Volti/Labirinti
a Milano fino al 12/02/2006

La mostra Artaud Volti/Labirinti presenta la visione complessiva delle attività creative di Antonin Artaud (1896-1948), un personaggio considerato in Francia sovversivo quando era ancora in vita e poco conosciuto in Italia.
L'esposizione ideata da Jean-Jacques Lebel e Dominique Paini, conclude la feconda collaborazione artistica con Jean-Hubert Martin che ha portato a Milano il meglio dell'arte del presente. Il Padiglione d'Arte Contemporanea è sfruttato in maniera interessante: nelle nicchie sono sistemate schede specializzate, monografiche - in una vi è la ricostruzione della stanza degli elettroshock - mentre nel grande corridoio che guarda sul giardino sono montati schermi che scendono dal soffitto, sui quali sono proiettati i molti film che l'artista ha interpretato. Sul retro di ogni telone vi è uno specchio, una soluzione coerente con il tema della mostra che coinvolge e sconvolge l'intero essere.
Il personaggio Artaud, artista, poeta, attore e regista di teatro, è complicato per l'uso che ha sempre fatto di se, del proprio corpo e della sua capacità creativa. La mostra propone con forza proprio questo aspetto, come una sua vendetta contro tutto il Novecento artistico. Jean-Jacque Lebel, artista provocatorio pure lui, ha definito la mostra un "inferno, un luogo senza capo né coda" perché non vuole essere una proposta organica, ma denunciare la consistenza e l'importanza di un protagonista che si è cimentato in tutti i campi. Artaud che ha attraversato tutta la scena artistica francese, è fortemente legato al surrealismo e lo propone come il luogo della cultura. Era una persona malata di mente, soffriva di sdoppiamento della personalità e questa sua caratteristica gli ha procurato enormi problemi. Tra l'altro è stato sottoposto a numerosi elettroshock a scopo terapeutico che gli hanno procurato una frattura alla colonna vertebrale ed è morto di cancro non diagnosticato. Ha portato nell'arte la sua vita tragica. Rendendola pubblica dimostrava di voler essere sempre se stesso con tutte le contraddizioni corporee, fisiche e patologiche e trasferire attraverso la creatività tutto il suo essere. Lui scriveva in francese ed ha inventato una lingua che vuol essere l'espressione di quello che lui è. Paolo Fabbri, nel saggio in catalogo, ripercorre la forza di questi segni nei disegni, nella lingua e negli autoritratti.
Una sezione è dedicata al suo volto, certamente bello da giovane, che si è trasformato in maschera con il passare degli anni. Ritratto da Jean Dubuffet, Man Ray, Balthus, Eli Lotar, Armand Salacrou, Denise Colomb e Georges Pastier, Artaud offre sempre un aspetto nuovo con innumerevoli espressioni dove la tragedia a volte può esprimersi anche con una risata. Questa mostra, di un genere inconsueto, rende omaggio a un pensiero che occupa una posizione d'estrema rilevanza nella cultura della nostra epoca.

Informazioni utili
Artaud Volti/Labirinti
Curatori : Jean-Jacques Lebel e Dominique Païni
A Milano dal 6/12/2005 fino al 12/02/2006
Pac Padiglione d'Arte Contemporanea - Via Palestro 14
Orari: 9.30 - 17.30 da martedì a venerdì; 9.30 - 19.00 sabato e domenica; chiuso il lunedì, Natale e 1° gennaio
Ingresso: gratuito