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Un ritorno teatrale per i vivi e per i morti

di Robert Fisk - 18/07/2008





Ieri è stato l’ultimo giorno della guerra libanese del 2006, il capitolo finale della follia di Israele e della hubris di Hezbollah. Un giorno macabro di scambio di cadaveri e di parti di corpo congelate, di bare in cambio di altre bare di lugubre legno nero su camion che passano attraverso il confine israeliano, che ha lasciato il vecchio Ali Ahmed al-Sfeir e sua moglie, Wahde, piegati e distrutti dall’angoscia. Ali aveva una barba brizzolata e stava appoggiato a un bastone, mentre Wahde teneva una foto ingiallita di un giovane – suo figlio Ahmed, nato nel 1970. "Era un martire, ma non so su quale camion sarà", ha detto. Nella foto appena lacerata, appariva pallido, serio, già morto.

Lo stesso non può dirsi di Samir Qantar – 28 anni in una prigione israeliana per l’uccisione di un israeliano, della sua figlioletta e di un poliziotto, avvenuta nel 1979. È arrivato pieno di vita da Israele, fresco di rasatura ma ostentando un paio di baffi curati, venerato da centinaia di sostenitori di Hezbollah, un uomo abituato all’isolamento carcerario che all’improvviso si trova idolatrato da un popolo che non ha visto per quasi tre decadi. I suoi occhi si muovevano attorno, gli occhi di un prigioniero che si tiene in guardia dai guai. Era il prigioniero libanese detenuto da più tempo in Israele; il leader di Hezbollah, Sayed Hassan Nasrallah, aveva promesso la sua liberazione. E ha mantenuto la parola.

Le bare – rimesse assieme a Tiro prima che i duecento corpi di Hezbollah, della milizia Amal e palestinesi arrivassero da Israele – sono state subito avvolte nelle bandiere del Libano e in quella dorata di Hezbollah, trascinate verso Beirut da un camion ricoperto di fiori. Wahde è salita su una sedia di plastica, disperata per vedere la scatola che conteneva lo scheletro di suo figlio. Il vecchio Ali ha chiesto di restarle accanto ma lei gli ha detto che era troppo vecchio, così lui è rimasto, a capo chino, tra i giornalisti delle tv e i giovani combattenti di Hezbollah, con le lacrime agli occhi. Chi sa se Ahmed si trovava in una di quelle scatole?

Ma è stato anche un giorno di umiliazione. Umiliazione soprattutto per gli israeliani. Dopo aver lanciato la guerra del 2006 per recuperare due suoi soldati catturati, hanno ucciso oltre un migliaio di civili libanesi, devastato il Libano, perso 160 dei propri uomini (la maggior parte soldati) e ieri hanno finito per consegnare le spoglie di duecento arabi e cinque prigionieri in cambio dei resti dei due soldati scomparsi e di una scatola di parti umane.

Per gli americani che hanno sostenuto il governo libanese democraticamente eletto di Fouad Siniora, è stato un giorno di disperazione. Per Siniora stesso, che insieme col presidente e con tutti gli ex primi ministri e i presidenti del Libano sopravvissuti, e il leader della comunità drusa e i deputati e i leader religiosi musulmani, e i vescovi e le più alte cariche dell’amministrazione pubblica, e i capi di tutti i servizi di sicurezza – oltre, naturalmente, ai rappresentanti delle Nazioni Unite – era all’aeroporto di Beirut per umiliarsi davanti ai cinque prigionieri che Hezbollah aveva liberato da Israele. Sono stati trasferiti a nord dagli elicotteri dell’esercito libanese.

Per Hizbollah hanno messo in scena un imponente corteo di cavalli scalcianti e di bande musicali e danze dabkeh, mentre gli imam sciiti libanesi e i loro invitati sceicchi sunniti e notabili drusi sudavano nelle loro pesanti vesti per i 37 gradi raggiunti nella giornata di ieri al confine. Ma gli israeliani – apparentemente – non avevano fretta. Ben consapevoli che Hezbollah aveva allestito una teatrale cerimonia di bentornati a casa, sia per i vivi che per i morti, hanno rimandato di cinque ore la consegna delle prime 12 bare e di altre quattro quella dei cinque prigionieri in vita. Nel frattempo, i cavalieri con i loro travestimenti (compreso uno con in capelli lunghi che assomigliava a Che Guevara) e le loro cavalcature vestite di verde avevano finito da tempo di trottare e i danzatori di dabkeh erano a corto di respiro e il suonatore di cornamusa (si, un vero lamentoso suonatore di cornamusa) non ce la faceva più a soffiare e anche la guardia d’onore vestita di bianco si stava sciogliendo al sole. Il loro disagio era evidente.

E vi era una certa abilità in tutto questo. Nasrallah aveva promesso di recuperare i corpi dei "martiri" palestinesi, che comprendevano i resti della 19enne Dalal Moghraby, che si suppone siano stati accatastati nel primo camion che ieri ha attraversato il confine. Lei era la ragazza che guidò undici miliziani palestinesi e libanesi in un attacco sulla strada costiera israeliana a nord di Tel Aviv. Messa con le spalle al muro dall’esercito libanese, aveva deciso di combattere fino all’ultimo. Morirono 36 persone e un video mostra un agente israeliano, un certo Ehud Barak (si, l’attuale ministro della Difesa israeliana) che la colpisce con diversi proiettili e la trascina per una strada. Barak era uno dei membri del governo israeliano che ieri ha votato a favore del ritorno della sua salma. Ma i palestinesi - è venuto fuori - non volevano che i loro morti tornassero in Libano. La madre di Dalal Moghraby, Amina Ismail, per esempio, si augurava che le sue spoglie restassero dove era stata cremata, in Israele – la terra che lei e altri milioni di rifugiati vedono ancora come parte della Palestina. Il comando generale del Fronte popolare per la liberazione della Palestina ha dichiarato che voleva che i suoi "martiri" restassero in "terra palestinese", come essi stessi avrebbero voluto, e ha chiesto a Hezbollah di escluderli dallo scambio. Non hanno avuto questa fortuna. Hezbollah aveva un’altra opinione e – in accordo con gli israeliani, naturalmente – li hanno riportati nella loro terra di esilio.

Ieri la storia giaceva impilata a strati: un assassinio avvenuto molto tempo fa in Israele e la liberazione del killer che ora, grazie al sistema carcerario israeliano, parla correntemente l’ebraico e l’inglese; il corpo di una ragazza palestinese i cui omicidi sulla strada costiera di Tel Aviv causarono la prima invasione israeliana del Libano nel 1978 (circa 2mila morti in totale) così come, senza dubbio, la cattura di due soldati (israeliani) da parte di Hezbollah scatenò il bagno di sangue della vendetta di Israele (circa 1.200 morti complessivi). Ma quanto può importare tutto ciò a Nasrallah nell’ora del suo massimo trionfo?

Ancora una volta, nonostante l’occupazione di Beirut ovest da parte di Hezbollah all’inizio di quest’anno e gli scontri a fuoco scoppiati in tutto il Libano (65 morti nel complesso), egli ha riconquistato la sua vecchia popolarità come il solo uomo dotato di un esercito in grado di fronteggiare le legioni israeliane. E con maggiore certezza ci sarà un’altra guerra. Su un bordo stradale a sud di Tiro ieri c’era un grosso manifesto di una nave da guerra israeliana colpita da un missile di Hezbollah nel 2006, avvolta dalle fiamme. "E il meglio deve arrivare", annunciava furbescamente il sottotitolo.

Ho trovato la cavalleria esausta di Hezbollah che trottava verso nord, con suoi cavalieri stremati (compreso il Che) ciondolanti sulle loro selle, i cavalli stanchi che sbandavano lungo la strada. Dunque è tutto qui quando si parla di guerra.


The Independent
(Traduzione di Carlo M. Miele per Osservatorio Iraq)

L’articolo in lingua originale