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L'ambiguo discorso dei diritti umani

di Gianluca Bifolchi - 29/08/2008



Per gli amanti dell'argomento "due pesi due misure" segnalo una ghiotta occasione di intervento. Ieri, nella stessa giornata in cui il Dalai Lama rettificava la sua precedente affermazione su una strage di tibetani compiuta proprio in questi giorni dalle forze di sicurezza cinesi, precisando di non poter garantire se i morti fossero 144, o 54, o 4 o nessuno, e cambiando subito argomento per riprendere il tema della colonizzazione Han nel suo paese, il Consiglio Legislativo Palestinese, (CLP), cioè il parlamento democraticamente eletto dell'Autorità Nazionale Palestinese, approvava una risoluzione che condiziona ulteriori negoziati con Israele allo stop alla giudaizzazione di Gerusalemme, cioè della politica intrapresa da qualche anno di marginalizzare e precarizzare la presenza cristiana e musulmana nella città santa a favore di quella ebraica. Dato che ancora stamattina, in uno dei primi notiziari della giornata, il TG1 di Riotta riprendeva le parole del Dalai Lama (col solito contorno di immagini di scontri riprese a Kathmandu, in Nepal, come ci hanno ormai abituato le simpatiche canaglie della disinformazione che si occupano di questo argomento), mentre della decisione del CLP non si diceva niente, cedo volentieri l'argomento a chi vuole ancora dire qualcosa sul motivo "Perché questi sì e quelli no? Perché la colonizzazione Han in Tibet sarebbe peggio di quella ebraica in Palestina?"

Per parte mia, mi chiedo se alla milionesima volta che si solleva l'argomento - con zero risultati - non sarebbe ora di svegliarsi, e rendersi conto del problema fondamentale che sta a monte di queste fruste e inutili denunce: per i più deboli, questa faccenda dei diritti umani è un pessimo affare. Hanno tutto da rimetterci a schermarsi dietro di essi. Per funzionare occorrerebbe che i governi fossero meno cinici di quello che hanno storicamente dimostrato di essere. E per mettere loro le briglie occorrerebbe fidare in un'opinione pubblica che in realtà è neutralizzata dalla disinformazione della stampa, che dai tempi di Gutemberg ha fornito prove abbondanti di essere solo una parte dell'apparato propagandistico-militare dello stato. Senza dire che non è chiarissimo perché l'opinione pubblica dovrebbe essere meglio dei governi per cui ha votato...

La cosa non sarebbe ancora troppo male se l'abuso della retorica dei diritti umani fosse confinata a governi potenti e arroganti e ai mercenari della penna al loro servizio. Il guaio è che la criminalizzazione sotto la specie del terrorismo - condotta con mezzi formidabili - di ogni movimento di resistenza e ribellione all'oppressione, ha finito per rendere terribilmente attraente il terreno dei diritti umani, anche per coloro che sarebbero alleati di quei movimenti. Il fatto è che parlare di diritti umani ha il sottile fascino della spoliticizzazione dei conflitti, e inocula l'illusione che la soluzione si troverà nelle carte bollate, attraverso un processo che eleva le liti e le controversie dai tribunali civili e penali della nazione alle organizzazioni internazionali formalmente incaricate di "fare giustizia". Negare l'esistenza di conflitti e di situazioni di deliberata oppressione per spiegare le cose con l'incomprensione e la necessità di dialogo, o le temporanee amnesie dei diritti umani da parte di chi li viola, rende la vita più facile a chi in quei conflitti non vive, ma ha deciso per ragioni sue di prendere la parola su essi.

Intendiamoci, quando si può fare poco, bisognerebbe almeno fare quello. Non c'è niente di intrinsecamente sbagliato nelle denunce di violazioni di diritti umani, anzi. Il problema sorge quando non ci si accorge - o non ci si vuole accorgere, per non perdere inconfessabili tornaconti di immagine o addirittura di finanziamenti, come accade con le ONG - che l'interpretazione in chiave esclusiva di tutela di diritti umani di vecchi e complicati conflitti ha una funzione oppiacea, che ottunde la comprensione delle cause, e offusca le ragioni per cui così spesso la denuncia delle violazioni stesse resta lettera morta.

La pretesa di terzietà del difensore dei diritti umani - e non contemplo qui parodie come Reporters Sans Frontiers, o tutte le varie entità pagate dalla NED o da George Soros - è qualcosa di ambiguo su cui è ora di aprire gli occhi. Nei casi più onorevoli spirito di sacrificio, onestà, passione, vanno rispettati, come vanno rispettati e valorizzati i risultati concreti che occasionalmente conseguono. Chi sta seguendo la campagna di B'Tselem che diffonde video girati da palestinesi sui quotidiani soprusi che soffrono alle mani dei coloni israeliani nei Territori Occupati non snobba davvero questi sforzi, ed è anzi grato a chi li compie. Ma per questa via si finisce per vedere i palestinesi come una specie da proteggere, i panda del Medio Oriente, e non come un popolo oppresso che va sostenuto nella sua lunga lotta per la libertà.

Ammettiamolo, la frase "credo nei diritti umani" è spesso il motto del filisteo, il rifugio del disertore intellettuale, la carta di identità del carrierista opportunista, del borghesuccio troppo meschino per concepire un'autentica passione politica. Questo è un fatto. Ma se i diritti umani sono uno strumento così agevole di impostura, è ora di rivedere quanto spazio è stato concesso alla retorica che li concerne nel linguaggio politico della vera opposizione.