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Barak Obama, adesso sì...

di Gianluca Bifolchi - 01/09/2008

 


Chiusasi a Denver la convention del partito democratico e formalizzata la candidatura di Barak Obama per la corsa alla Casa Bianca (Convention posso anche dirlo, ma Nomination è troppo...), possiamo forse riporre in cantina il sarcasmo dei nostri commentini per il folklore che caratterizza le adunanze della "sinistra" statunitense. Al massimo, vorrei avvertire che la politica USA è altrettanto castale (se non altrettanto costosa) di quella italiana, e i cosiddetti "delegati", il cui entusiasmo per le traiettorie politiche di Obama, di Biden, della Clinton, etc., ha commosso Walter Veltroni, sono per lo più gente che vive con la politica: sindaci, consiglieri comunali e di contea, parlamentari delle legislature dei vari stati, portaborse, galoppini elettorali... Solo Walter Veltroni - o al massimo Gianni Riotta - sono così stupidi da scambiare le coreografie videocratiche di questi mestieranti della politica per "passione popolare"... nella nazione più spoliticazzata e con i più alti tassi di astensionismo elettorale della società occidentale industrializzata, figuriamoci...

Una piccola autocritica dovrebbero però farla anche quelli che - come me - ancora un anno fa irridevano alla possibilità che un afroamericano potesse davvero correre per la Casa Bianca. Grave sottovalutazione della capacità che ha il capitalismo, attraverso i sistemi politico culturale e informativo funzionali ad esso, di appropriarsi e manipolare i simboli, e giungere a trasformarli in puntelli dell'establishment, dopo averli privati di ogni carica originariamente contestataria. E sì che Colin Powell e Condoleeza Rice, le cui importanti carriere politiche si sono svolte all'ombra del partito repubblicano, e con grande anticipo sulla conflagrazione divistica di Obama, sono chiari casi che invitavano a rivedere la portata tradizionalmente attribuita allo spartiacque etnico nella politica USA.

Barak Obama... chi conosce Dennis Kuchinich e le sue due precedenti sfortunate corse per la nomination nel partito democratico, sa bene, per contrasto, che viscido gaglioffo opportunista sia Obama, e come, a posteriori, la sua biografia riveli la piena consapevolezza che certe pose "radical" della gioventù (prudentemente dosate) non siano che un espediente per alzare il prezzo nel momento in cui l'establishment, bisognoso di legittimazione, coopta gente che l'aveva nominalmente messo in discussione.

Il simbolo impoverito e tradito è qui quello di Martin Luther King, quello dell'insulso e mieloso discorso di "I have a dream", per capirci, senza spiegare alla gente che tremenda lotta fu quella dei diritti civili negli anni sessanta contro il repellente razzismo dell'America bianca anglosassone. Il razzismo di una nazione che pretendeva di esercitare la leadership morale del "mondo libero" a dispetto delle leggi sulla segregazione razziale ancora vigenti nel sud. E soprattutto senza spiegare la condizione di isolamento in cui Luther King venne a trovarsi nell'ultima parte della sua esistenza, quando intrapresa la "Campagna contro la povertà" e unitosi con convinzione al movimento contro la guerra del Viettnam, un giorno si girò e... oplà, il partito democratico non c'era più, il "clan kennedy" si era squagliato, e a occuparsi di lui c'era solo l'FBI, che per ordine di J. H. Hoover aveva preso a perseguitarlo. Fino a che fu fermato da una fucilata in circostanze tali che avrebbero forse giustificato un po' di mania del complotto, giusto un pochino, rispetto all'industria miliardaria del "chi ha ucciso jfk?"

Con questa America Barak Obama si è riconciliato, ammesso che nel suo intimo sia mai stato in constrasto con essa. Sono certo che questa America non rimarrà delusa.