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I media internazionali si ritirano da Israele?

di Seeth Freedman - 01/09/2008





Il weekend scorso, la notizia che l’interesse mediatico sull’Israele sta diminuendo è stata appresa con gioia dai lettori del Jerusalem Post. Con il titolo “Non c’è niente da vedere” il giornale ha dichiarato che i media stranieri stanno richiamando i loro giornalisti dal Paese per rimpiazzarli con informatori locali; tutto apparentemente è frutto della diminuzione negli ultimi anni della violenza “spettacolo”.

Simon McGregor-Wood, capo ufficio dell’Abc a Gerusalemme, ha dichiarato al giornale:

“Il principio è che ci sono meno notizie di qualche anno fa… Ci sono meno eventi sensazionali. C’è una diminuzione della violenza, e i cambi di posizione [nella politica locale] non sono presentabili. Il conflitto giornaliero tra Israele e i palestinesi non cambia, diventa ripetitivo e di poco interesse. Le notizie sono già state coperte”.

Tutto ciò è musica per le orecchie dei lettori del Post, che hanno mostrato il loro gradimento attraverso i messaggi lasciati sul sito internet del giornale. Secondo alcuni, i corrispondenti stranieri (o “sinistroidi pazzi che simpatizzano con gli arabi”, come li ha descritti un lettore) non sono i benvenuti su questi lidi e dovrebbero andarsene da qualche altra parte visto che “stanno accadendo cose molto peggiori in altri Paesi del mondo”.

I temi centrali dei compiacenti messaggi sono che i media internazionali odiano Israele, e che quindi la diminuzione di notizie riguardante il loro Paese sia in se una buona notizia. D’altra parte però un commento lasciato da uno dei lettori avrebbe dovuto far suonare i campanelli d’allarme tra suoi compagni, perché astutamente prevedeva cosa si dovessero aspettare gli israeliani se i palestinesi sentissero la loro causa di nuovo ignorata.

“Bene cosi”, scrive, “ma non ci vorrà molto affinché gli arabi inventino qualcosa per attirare la loro attenzione”; scenario che - ignorando l’uso della generalizzazione “arabi” al posto di “militanti palestinesi” - non è improbabile per il vicino futuro.

Se la ragione per il ritiro dei media internazionali è la mancanza di sangue, allora c’è da stare certi che per riportare la causa palestinese al centro dell’attenzione mondiale ci vorrà un ritorno agli anni di violenza indiscriminata nei confronti dei civili israeliani. La vita giornaliera dei palestinesi rimane sempre intollerabile, e non ci sarà da stupirsi se alcuni dalla loro parte decidano che un ritorno agli attacchi suicidi non possa rendere la situazione peggiore, e che invece risulterebbe magari in un incremento d’attenzione mediatica per la sofferenza palestinese.

Le azioni israeliane nei territori occupati hanno incorporato un approccio sofisticato e mediaticamente studiato che, se pur non oscurando le sue intenzioni maliziose, risulta nell’uso di tattiche meno sanguinolente e che quindi evitano di suscitare reazioni di condanna da parte dei giornalisti. Mi sono accorto di ciò qualche mese fa mentre seguivo la notizia della chiusura di un orfanotrofio della Isc, che si trovava nella città palestinese di Hebron, da parte dell’esercito israeliano (Idf).

Le minacce di chiusura dell’orfanotrofio e di alcuni palazzi affiliati, mi spiegò un attivista con cui parlai quel giorno, faceva parte di una nuova strategia dove, grazie all’uso di tattiche non-violente per colpire Hamas, Israele sarebbe riuscita a non attirare l’attenzione mediatica. “Un raid in una panetteria o un magazzino non è il tipo di notizia che interesserebbe a molti giornali” mi spiegò. “Anche l’altra sera, quando hanno fatto irruzione in quella fabbrica tessile, è stato molto difficile far interessare i giornalisti - uno di loro mi ha anche chiesto ‘lo stanno bombardando?’, come se solo lo spargimento di sangue potesse giustificare l’uscita a notte inoltrata”.

Il fatto che Israele abbia scoperto il modo per continuare a rendere la vita difficile ai palestinesi, e nel mentre diminuire l’interesse mediatico creato dall’occupazione, non dovrebbe per qualsiasi motivo essere considerata una vittoria. Le tensioni tra i palestinesi e i loro oppressori israeliani sono ancora lì, aumentano di giorno in giorno, e il calo d’interesse da parte dei media globali rischia d’aggiungere un ingrediente pericoloso.

L’anima incostante della notizia d’informazione che si fa influenzare da attacchi suicida come dal sesso e oscenità, fa si che ci sia un solo metodo, già sperimentato, per riportate la triste situazione palestinese sulle prime pagine dei giornali. Questo i militanti palestinesi la sanno bene, come d'altronde qualsiasi gruppo armato nel mondo che lotta per l’indipendenza del proprio Stato.     

Gli olivi vengono ancora rimossi per far spazio al muro di separazione, e solo perché non ci sono giornalisti stranieri non vuol dire che non abbia impatto sulle vite dei palestinesi. Anche gli effetti giornalieri dell’occupazione sulla popolazione non diminuisce solo perché le crew televisive fanno le valige per partire alla ricerca di altre zone di conflitto.

Sarebbe nel migliore interesse della sicurezza d’Israele se i media internazionali proseguissero il loro lavoro con la stessa attenzione dei scorsi anni, siccome nel fare ciò aiuterebbero a mantenere la calma dei militanti palestinesi e allo stesso tempo prevenire il sentimento comune che la loro causa sia ignorata. Se ciò non accade, nessuno deve sorprendersi se la situazione esplode e gli orologi ritornino al sanguinoso inizio della seconda Intifada.

(Traduzione di Andrea Dessi per Osservatorio Iraq)

The Guardian
L’articolo in lingua originale