«L'unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura». La frase è di Franklin D.Roosevelt, la pronunciò nel 1932, era il suo primo discorso da presidente. Arrivava alla Casa Bianca dopo la crisi del '29, dopo la Grande Depressione, parlava ad un paese mai così povero e disperato, scosso nelle sue certezze più radicate. Oltre settant'anni dopo, quella frase - e quel clima pur nelle mutate coordinate storiche ed economiche - fa da filo conduttore all'ultimo libro di Loretta Napoleoni e Ronald J.Bee, I numeri del terrore. Perché non dobbiamo avere paura . Napoleoni è un'esperta di terrorismo internazionale, sull'argomento ha già pubblicato Terrorismo spa , Al Zarqawi. Storia e mito di un proletario giordano ed Economia canaglia . Un retroterra di studi che le serve ora per sostenere come la psicosi da attentato che è diventata una costante del mondo post 11 settembre, sia in realtà sproporzionata rispetto alle concrete possibilità che ciò accada.
Per dimostrarlo, Napoleoni e Bee ricorrono alla forza dei numeri che solo se ignorati possono essere piegati alle esigenze della propaganda politica. Al netto della vulgata che passa dai discorsi dei leader politici ai media, i dati sugli attentati internazionali, e sulle loro vittime, dicono infatti una cosa diversa. Ossia che - con l'eccezione dell'11 settembre che continua a fungere da spartiacque - il numero di vittime per mano del terrorismo internazionale e interno non è in crescita, anzi è in calo rispetto agli anni Settanta e Ottanta. «Se ci si basa sulle statistiche e non sulla paura - spiega Loretta Napoleoni,che ieri al Festival della letteratura di Mantova ha parlato di "Politica delle illusioni" -, il rischio oggi di morire in un attentato non è quello che ci viene raccontato o che viene percepito comunemente. Per non parlare della minaccia di un attacco nucleare. Nonostante gli allarmismi, i moniti all'Iran, i titoli dei giornali, è un pericolo meno reale oggi di quanto non lo fosse negli anni della Guerra Fredda. Ed è paradossale quello che sta succedendo nelle ultime settimane con la Russia e gli Stati Uniti che mettono indietro l'orologio della storia, e ci riportano a quel clima e a quei pericoli».
Resta il fatto che l'11 settembre ha cambiato radicalmente l'immaginario collettivo. Gli aerei lanciati contro le Torri, il World Trade Center che si sbriciola, la spettacolarizzazione del terrore, insomma, ha un impatto diverso sull'opinione pubblica rispetto alla freddezza delle statistiche.
Certo, e questo i governi lo sanno bene, e dunque hanno gioco facile nell'alimentare la paura. A patto però di tenere nascoste, come succede oggi, le vere cifre di questo scenario da incubo. E' chiaro che con i suoi quasi 3mila morti, l'attacco al World Trade Center è spaventoso, e però quella cifra è comunque molto piccola rispetto, ad esempio, alle 100mila persone che ogni anno muoiono per il morso di un serpente o, ancora, rispetto ai 100mila bambini vittime della fame e della malaria. Per non parlare dei morti negli incidenti stradali. Dal 2001 ad oggi, sono oltre 230mila i decessi per questa causa. Secondo il National Center for Statistics and Analysis, nel solo 2004 i morti sulle strade americane sono stati 38.253, cioè il 15 per cento in più del totale delle vittime mondiali in attentati terroristici dal 1998 al 2005. Non solo, ma sempre dopo il 2001, ciò che è andato aumentando negli Usa - lo dice l'Fbi - è il tasso di omicidi, rapine e aggressioni a mano armata. Fare un raffronto e stabilire una proporzione è a questo punto piuttosto semplice.
Sempre a guardare i numeri, però, gli attentati sono invece aumentati nel mondo musulmano. Basti pensare alle notizie che arrivano ogni giorno dall'Iraq. Un paradosso o la logica conseguenza di scelte politiche?
Questo è un dato interessante. E' vero che dopo l'11 settembre, l'incidenza dell'attività terroristica - interna e internazionale - nella regione Medio Oriente-Golfo Persico è cresciuta, passando da 50 attacchi prima dell'11 settembre a quasi 4.800 nel 2006, mentre le vittime sono passate da un centinaio a 9.800. Questo significa, e si guardi all'Iraq e all'Afghanistan, che la guerra al terrorismo è un colossale fiasco, ha seminato instabilità in una regione cruciale per gli equilibri mondiali. A questo punto appare chiaro come la teoria dello scontro di civiltà, che è stata usata per costruire tutto lo scenario post 11 settembre, sia in realtà un risultato, una conseguenza, di quella politica piuttosto che la sua causa.
Lei sostiene nel libro che, a dispetto del sentire comune, l'Occidente è molto più sicuro oggi di quanto non lo fosse negli anni della Guerra Fredda. Allora l'idea di un esercito di jihadisti in continua crescita e in grado di colpire ovunque, e con effetti devastanti, è falsa?
La verità è molto più semplice: da anni quel fenomeno è in declino nell'Occidente, e lo è perché la nuova generazione di jihadisti è sostanzialmente una generazione di incompetenti. Non sono professionisti preparati o gente con un background culturale o ideologico, il che li renderebbe davvero pericolosi.
Ma l'idea che chiunque possa inventarsi terrorista e farsi saltare in aria da qualche parte, non è questa una componente essenziale delle paure e delle insicurezze di oggi? Quella a cui è più difficile rispondere con lucidità?
Sì, ma bisogna adeguare l'immagine alla realtà. Di tutti i terroristi uccisi o catturati in questi anni, non se ne trova uno che abbia il peso e l'importanza che gli attribuiscono i media. In questo, politici e analisti scontano la sostanziale ignoranza di quel fenomeno prima che fossero costretti ad occuparsene. Prendiamo al Zarqawi. Oggi sappiamo che non era l'ufficiale di collegamento tra Saddam Hussein e Bin Laden, così come il governo statunitense ha sostenuto per invadere l'Iraq. La generazione che ha concepito e eseguito l'attacco al Pentagono e alle Torri gemelle è stata spazzata via dall'invasione dell'Afghanistan. A parte gli uccisi e i catturati, o quelli fuggiti all'estero, il resto si è rifugiato in Waziristan rimettendo in piedi l'organizzazione in una delle regioni più arretrate e meno alfabetizzate del mondo. Il che non depone a favore della forza delle future generazioni d jihadisti. Ora in giro ci sono, per lo più, terroristi autodidatti che studiano su internet come procurarsi e maneggiare gli esplosivi. Nulla a che vedere, ad esempio, con le capacità dell'Ira negli anni Settanta-Ottanta.
Passiamo alla questione dell'Iran e del nucleare. Quanto di vero e quanto di propagandistico c'è nello scenario apocalittico che ci viene rappresentato?
C'è molta propaganda. Solo in due passaggi storici siamo stati realmente vicini ad un conflitto nucleare: Berlino e la crisi dei missili a Cuba. Allora c'erano due superpotenze che si fronteggiavano, dicendosi pronte a usare la bomba. Oggi invece l'atomica è per l'Iran uno strumento di potere e orgoglio nazionale, mentre per la Corea del Nord è stato una via per ottenere soldi dagli Usa. Ahmadinejad alza la voce e la posta, e così facendo detta le condizioni e condiziona le trattative, ma l'idea che davvero voglia annientare Israele è fantapolitica. Anche perché in Iran c'è un sistema politico strutturato, non un regime dittatoriale e fuori controllo. Dire il contrario è propaganda, così come è una palese bugia dire che i terroristi possono farsi l'atomica in casa e che in giro per il mondo ci siano decine di cosiddette mini-bombe.
La politica della paura e l'ossessione della sicurezza hanno anche una concreta traduzione economica. Un'economia modellata sull'incubo indotto del terrorismo è in attivo o in perdita?
In perdita, in netta perdita. Per andare dietro a fantasmi creati ad hoc, l'Occidente si sta suicidando dietro ad una politica economica folle. La guerra al terrorismo sta paralizzando le economie occidentali e sta facendo crescere a dismisura il prezzo del dollaro - fattore che indebolisce le nostre classi medie e aumenta il benessere dei paesi esportatori di greggio. Non dimentichiamo che prima dell'11 settembre, un barile di petrolio costava solo 18 dollari. Inoltre le leggi antiterrorismo del Patriot Act e simili - che hanno compresso le nostre libertà e i diritti civili - non sono riuscite a frenare i finanziamenti ai gruppi e i loro movimenti di capitali. Questi gruppi hanno dimostrato grande capacità di adattamento, sfuggono a controlli comunque inefficaci e prosperano. Così, mentre in Iraq tra furti di petrolio, sequestri di persona e contrabbando d'armi, la guerriglia è oramai capace di autofinanziarsi, in Europa e negli Usa il potere d'acquisto del cittadino medio e la sua qualità di vita è precipitata. Senza che comunque questo sia servito a renderci più sicuri.
Per parlare della paura e dell'uso strumentale che di questo comune sentire fanno i governi, lei cita Roosevelt. All'insicurezza e alla paura di allora, Roosevelt rispose lanciando il New Deal, ossia un programma di spesa pubblica che sostenesse la ripresa economica. E oggi quale dovrebbe essere la risposta?
La soluzione passa per la presa di coscienza che stiamo buttando via risorse ed energie ad affrontare lo scenario sbagliato. Cominciamo a smitizzare questa paura, a dire che è strumentale, che il vero problema non è che l'Iran costruisca o meno l'atomica. Il nostro nemico è l'economia impazzita, non quella forma di criminalità organizzata che risponde al nome di terrorismo.
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