Stati Uniti: come lo Stato sommerso sopravvive all'alternanza dei partiti di governo
di Thierry Meyssan - 08/09/2008
Fonte: giancarloscotuzzi
La continuità del potere effettivo dietro le quinte della Casa Bianca
Sessant’anni di propaganda atlantista ci hanno inculcato l’idea che gli Stati Uniti sono una grande democrazia. Eppure nessun osservatore crede che Ronald Reagan o George W. Bush abbiano esercitato davvero il potere che spetta al presidente. Ma allora chi è a capo degli Stati Uniti? Altro problema: dopo la riconta dei voti delle elezioni del 2000, gli osservatori concordano nel ritenere che Al Gore aveva vinto. Ma allora perché Bush sta alla Casa Bianca? Queste e tante altre sono le domande cui nessun giornalista vuole dare risposta. Thierry Meyssan rompe il tabù.
Analista politico, fondatore di Réseau Voltaire. Ultimo libro pubblicato L’incredibile menzogna 2 (la riorganizzazione del Medio Oriente e la guerra israeliana contro il Libano).
Da sessant’anni negli Stati Uniti è attivo un organismo chiamato Apparato di sicurezza di Stato. Fu concepito come uno Stato nascosto dietro lo Stato visibile, che aveva il compito di condurre nell’ombra la Guerra Fredda contro l’URSS e, una volta caduta questa, riempirne il vuoto con la Guerra al Terrorismo. Quest’Apparato dispone di un governo militare fantasma designato per rimpiazzare il governo civile in caso di attacco nucleare.
Nel celebre discorso di addio del 17 gennaio 1961, il presidente Eisenhower dichiarò : «Dobbiamo stare attenti a che il complesso militare-industriale non acquisisca in seno ai governi un’influenza illegittima, voluta o meno. Esiste e persisterà in futuro il rischio che questo potere abusivo acquisisca un peso tale da minacciare la libertà o la democrazia».
Il monito non è servito. La logica dell’Apparato ha progressivamente sopraffatto quella delle istituzioni che avrebbe dovuto proteggere. Invece di essere al loro servizio, il complesso militare-industriale ha usato il proprio potere per modellarle a proprio vantaggio. In sostanza, la lobby della guerra ha inficiato il sistema elettorale e, in ogni elezione presidenziale, è sempre riuscito a scegliere l’uomo da mettere alla Casa Bianca.
Negli ultimi sessant’anni, senza eccezioni, è diventato presidente chi ha preso l’impegno di farsi carico delle esigenze dell’Apparato e che perciò ha ottenuto il massiccio finanziamento delle società in affari col Pentagono.
Invariabilmente, una volta preso possesso dello Studio Ovale, il presidente neoeletto cerca di liberarsi dei propri padrini e di avvicinarsi agli interessi reali degli americani. Il cercare di estendere i propri margini di manovra lo espone al rischio di perdere l’investitura ed essere così eliminato politicamente, talvolta persino fisicamente. Del resto, il rischio che un presidente si affranchi dalla tutela dello Stato profondo e si mantenga comunque al potere è limitato dal divieto di concorrere a un terzo mandato.
Stando così le cose, l’alternanza tra democratici e repubblicani – come vedremo – non è il mezzo che gli americani hanno per imporre un mutamento politico, ma il mezzo che l’Apparato usa per perseguire la medesima politica, nonostante l’impopolarità del logoro presidente che sta per lasciare la Casa Bianca. Si tratta dell’applicazione del principio che Giuseppe Tomasi di Lampedusa fa dire al Principe di Salina nel Gattopardo: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi».
Di tanto in tanto lo Stato sommerso affiora e fa balenare la propria potenza. A volte questo accade in periodi di transizione presidenziale, caratterizzati da una semivacanza di potere, quando il presidente uscente si occupa solo degli affari correnti e quello subentrante si sta preparando a governare.
Nel XVIII secolo il periodo di transizione durava undici settimane ed era giustificato, data l’estensione del Paese e la lentezza dei mezzi di comunicazione, dai tempi necessari a verificare i risultati elettorali. Il primo risale al 1797, quando John Adams successe a George Washington. Per un secolo e mezzo nessuna procedura ha regolato questa fase transitoria, non avendo infatti i due presidenti (l’uscente e il subentrante) alcun motivo di collaborare tra loro. Quel che accade oggi è del tutto diverso. Di questo periodo ne approfitta l’Apparato per mettere al corrente il nuovo inquilino della Casa Bianca di ciò che è bene che sappia dello Stato sommerso.
Per meglio capire come funziona questo sistema, ripercorriamo la storia dei passaggi presidenziali.
La Guerra fredda mette fra parentesi la democrazia
Fu Harry Truman (1945-1953) a modificare profondamente la natura dello Stato federale creando l’Apparato, costituito dal trittico formato da Consiglio dei capi di stato maggiore (JCS), Agenzia centrale di informazione (CIA) e Consiglio di sicurezza nazionale (NSC). A questi organismi, non trasparenti, furono attribuiti poteri esorbitanti, pari a quelli previsti per il tempo di guerra, perché la loro missione era prolungare la mobilitazione della Seconda Guerra mondiale, senza tuttavia mantenere lo stato d’allerta nella società civile, allo scopo di condurre una nuova guerra contro l’Unione Sovietica: la Guerra fredda.
Per contenere l’influenza sovietica, Truman organizzò il ponte aereo verso Berlino, costituì l’Alleanza atlantica (NATO) e dichiarò guerra alla Corea. Inoltre estese il modello dello Stato sommerso americano ai Paesi alleati, attraverso la creazione delle reti stay-behind e la loro integrazione nella CIA (1)
L’Apparato riteneva che il migliore successore di Truman fosse Dweight Eisenhower, comandante supremo delle forze alleate in Europa durante la Seconda Guerra mondiale, poi comandante della NATO. Era l’uomo adatto a condurre la guerra di Corea fino alla vittoria. L’opinione pubblica lo adorava e lo considerava un eroe, nonostante non avesse mai combattuto personalmente e non si fosse mai avvicinato al fronte.
Eisenhower non era politico e non aveva un’appartenenza precisa, per cui ogni partito cercò di accaparrarselo. Truman fece invano pressione su di lui per conto dei democratici. Alla fine Eisenhower accettò l’investitura repubblicana.
L’accordo che concluse con il partito repubblicano gli lasciava mano libera di condurre una politica estera in chiave antisovietica e per porre vittoriosamente fine alla guerra di Corea. In cambio Eisenhower si impegnava a portare avanti una politica interna ed economica conservatrice. Scelse come compagno di lista il senatore Richard Nixon (la cui figlia avrebbe di lì a poco sposato il proprio nipote), personaggio che si era distinto nel dare impulso alla caccia alle streghe comuniste.
Truman si premurò di mettere al corrente Dweight Eisenhower, subito dopo la sua elezione, del sistema di sicurezza nazionale, la cui esistenza era pubblica ma il cui funzionamento era segreto.
Eisenhower elaborò una dottrina di difesa che porta il suo nome, secondo cui gli Stati Uniti non avrebbero esitato a impiegare la forza ovunque in tutto il mondo l’influenza comunista minacciasse gli interessi americani. Fu lui a introdurre nel sistema di sicurezza nazionale il principio di continuità di governo. Con un decreto segreto designò un governo parallelo, costituito da militari e industriali scelti fra i suoi amici, incaricato di subentrare a quello pubblico, in caso di annientamento delle istituzioni a causa di un attacco nucleare sovietico. Così, accanto alla procedura costituzionale prevista in caso di vuoto di potere, a partire dagli anni Cinquanta esiste una procedura parallela, militare-amministrativa, da mettere in moto in caso di catastrofe nucleare. La procedura costituzionale prevede che il presidente sia rimpiazzato, nell’ordine: dal vice presidente, dal presidente pro-tempore del Senato, e, per ultimo, da quello della Camera dei deputati. Nella procedura parallela invece gli eletti sono scavalcati da un governo fantasma – il nome dei suoi componenti è segreto – che nessuna elezione ha legittimato e che si materializza all’improvviso dall’ombra.
Nonostante tutto questo, l’Apparato rimproverò a Eisenhower di non fare abbastanza, soprattutto nel campo dei missili, e rifiutò di sostenere Nixon, suo vicepresidente, per la successione. Eisenhower, preoccupato delle conseguenze che un potere sempre più forte del complesso militare-industriale avrebbe potuto acquisire, come abbiamo visto mise in guardia i cittadini americani. La lobby guerrafondaia si rivolse allora al partito democratico.
Fu così che John F. Kennedy ottenne il sostegno dell’industria della guerra. Per compiacerla, Kennedy incentrò la propria campagna elettorale su una pretesa supremazia sovietica in campo missilistico e sulla necessità di recuperare il vantaggio del nemico (missile gap). Inoltre, designò come compagno di lista Lyndon Johnson, il bellicoso leader del gruppo parlamentare del partito democratico. Insieme alla lobby industriale-militare, durante la campagna elettorale Kennedy creò gruppi di lavoro per redigere un bilancio della situazione e delineare le prime decisioni da adottare in caso di elezione. Mise a capo delle due équipe più importanti i propri principali rivali nella contesa per l’investitura democratica, così da neutralizzare la loro ostilità e al tempo stesso beneficiare della loro esperienza. Giunse a creare 29 gruppi di lavoro acquisendo la benevolenza di tutti i loro membri.
Una volta eletto [1960], Kennedy designò l’avvocato Clark Clifford per coordinare il passaggio dei poteri con Eisenhower e nominò almeno un membro di ciascuna commissione nel proprio gabinetto. Clifford non fu scelto per le sue qualità di avvocato e di negoziatore, ma perché era un falco e un rappresentante dello Stato sommerso. Con Truman, Clifford aveva partecipato alla creazione dell’Apparato ed era stato nominato da Eisenhower ministro del governo militare ombra.
In seguito Kennedy fece approvare il Presidential Transition Act per consentire ai successivi presidenti di beneficiare come lui di un finanziamento federale per pagare i gruppi di lavoro da loro designati.
Kennedy sfidò l’URSS davanti al Muro di Berlino, dispiegò missili in Turchia e riuscì a dissuadere i Sovietici dal rispondere installando missili a Cuba. Soprattutto lanciò gli ambiziosi programmi spaziali. Ma presto cominciò a defilarsi dagli impegni presi con la lobby militare-industriale. Autorizzò l’invasione di Cuba [1961], ma si tirò indietro dopo il fallimento della Baia dei Porci. Ficcò il naso in Vietnam, ma presto trovò il modo di ritirarsi. Facendo leva sulla legittimità che gli veniva da un vasto sostegno popolare, non esitò a entrare in conflitto con il proprio stato maggiore e ordinò inchieste sull’operato politico di alcuni generali. Dal suo assassinio [1963] trasse beneficio il vicepresidente Lyndon B. Johnson – il cui discorso di insediamento fu preparato prima della morte di Kennedy – che non perse tempo e diede subito inizio all’escalation della guerra in Vietnam, arruolando, per portare a termine questo sporco lavoro, Clifford Clark come ministro della Difesa.
A causa della propria impopolarità Johnson rinunciò a ricandidarsi [alle elezioni del 1968, ndt]. Il partito democratico era in mano ai pacifisti che guidavano la rivolta contro gli orrori del Vietnam. I falchi avevano perciò bisogno, per dare continuità alla loro azione, di un’alternanza favorevole. La scelta cadde ovviamente sull’ex vicepresidente Richard Nixon, opportunista già addentro ai segreti di Stato.
Quando i principali candidati alla presidenza ebbero ricevuto l’investitura da parte dei rispettivi partiti, Johnson li convocò per concordare con loro la transizione. Si trattava di una messinscena puramente formale che però permise al democratico Johnson di entrare in contatto con il candidato repubblicano prima che questi venisse eletto.
Approfittando del Presidential Transition Act, il repubblicano Nixon seguì l’esempio di Kennedy e istituì 30 gruppi di lavoro per tracciare le linee della futura politica, in accordo con lo Stato sommerso.
Nei confronti dell’URSS la politica di Nixon fu di distensione. Negoziò accordi di limitazione della corsa agli armamenti nucleari, pur rispettando, grazie all’eliminazione di alcune armi sostituite con altre più sofisticate, gli interessi del complesso militare-industriale. L’intraprendenza del proprio consigliere Henry Kissinger gli permise di concludere un’inaspettata alleanza con la Cina comunista per isolare Mosca. Tuttavia rinunciò a vincere in Vietnam, scelta che l’Apparato gli fece pagare avviando la procedura di destituzione per lo scandalo Watergate. Il numero due dell’FBI, Mark Felt (alias Gola profonda) per mesi centellinò allo Washington Post informazioni devastanti per il presidente.
Messo alle corde, Nixon preparò segretamente le proprie dimissioni [che diede l’8 agosto 1974, ndt], informandone il vicepresidente Gerald Ford solo due giorni prima. I due uomini conclusero una transazione: Ford avrebbe preso possesso dello Studio Ovale in cambio della “grazia” a Nixon e della cessazione di ogni azione giudiziaria nei suoi confronti. Ford accettò. Aveva già annusato la svolta e aveva messo insieme una piccola squadra che, dopo l’accordo con Nixon, fu immediatamente sciolta. Un membro importante dell’Apparato, l’ambasciatore degli Stati Uniti alla Nato Donald Rumsfeld (avversario di Kissinger), fu richiamato in tutta fretta per guidare la transizione. Aiutò a costituire una nuova équipe dosando ex collaboratori di Nixon e nuovi cervelli. L’operazione, ben più complicata di quanto potesse apparire, richiedeva una sanzione della politica perdente condotta in Vietnam, incarnata da Kissinger, e al tempo stesso il mantenimento dell’influenza dell’industria degli armamenti, rappresentata dallo stesso Kissinger (che era stato il segretario generale dell’American Security Council, il principale organismo del complesso militare-industriale dell’epoca). Ford designò Nelson Rockfeller vicepresidente, il quale, oltre a essere l’erede della più importante dinastia industriale del Paese, era stato anche a capo delle operazioni segrete dell’Apparato sotto Eisenhower.
Ford si rese subito conto che gli ex collaboratori di Nixon si portavano appresso l’ombra dello scandalo Watergate e chiese a Rumsfeld di risolvere il problema. Rumsfeld divenne così segretario generale della Casa Bianca. Licenziò brutalmente gli ultimi nixoniani, a eccezione di Kissinger, e mise Gorge H. Bush a capo della CIA. Con l’aiuto di quest’ultimo, Rumsfeld costituì la Commissione per la valutazione della minaccia sovietica (la cosiddetta équipe B), che gridò subito al lupo al lupo: inevitabilmente la corsa agli armamenti si rimise in moto.
L’immagine di Ford era disastrosa. L’opinione pubblica lo considerava un maneggione che aveva graziato Nixon per succedergli alla Casa Bianca. L’Apparato voleva invece cancellare l’umiliante immagine della caduta di Saigon [30 aprile 1975, ndt] alla quale Ford veniva associato, nonostante fosse la conseguenza della pace voluta da Nixon [accordi di pace di Parigi del 27 gennaio 1973, ndt]. Ford non godeva di sufficiente legittimità per intraprendere iniziative di maggiore portata. Lo Stato sommerso si trovava così nella necessità di procurarsi un nuovo presidente.
La scelta cadde su Jimmy Carter, un protetto di David Rockfeller (fratello del vice presidente Nelson Rockfeller), ritenuto in grado sia di girare pagina in politica interna che di tenere testa all’URSS.
Carter [eletto nel 1976, ndt] scelse come consigliere nazionale per la sicurezza Zbignew Brzezinski (2), segretario generale della Commissione trilaterale, il think tank (serbatoio di cervelli, ndt) di cui si avvalevano i Rockfeller. Modernizzò la teoria del “contenimento” dell’Unione Sovietica, restituendo vigore alla dottrina dell’Apparato. Diminuì la pressione militare in America Latina (rinegoziazione dello statuto del Canale di Panama e fine delle dittature militari) e la dirottò in l’Asia Centrale (guerra dell’Afganistan contro i sovietici). Fu così che Carter ingaggiò Bin Laden e gli Stati Uniti cominciarono a finanziare le organizzazioni estremiste sunnite anticomuniste.
Malauguratamente la credibilità degli Stati Uniti fu minata dalla vicenda degli ostaggi dell’Ambasciata americana di Teheran [che fu occupata da un gruppo di studenti iraniani il 4 novembre 1979 per protestare contro l’ingresso negli Stati Uniti dello scià in esilio. Cinquantadue persone facenti parte del personale dell’ambasciata furono tenute in ostaggio per 444 giorni. Furono liberate il 20 gennaio 1981, giorno dell’insediamento alla Casa Bianca di Reagan, ndt]. Soprattutto, dopo le rivelazioni delle commissioni d’inchiesta parlamentari, il battista Carter, preso dalla frenesia di pulizia seguita allo scandalo Watergate, si mise in testa di moralizzare la CIA. Minacciato da questa pretesa di Carter, l’Apparato organizzò una campagna mediatica denigratoria, in cui venne fatto passare per malato di “sindrome del Vietnam”, e si mise a cercare un rimpiazzo repubblicano. Alla fine lo Stato sommerso organizzò la staffetta Reagan-Bush (quest’ultimo, ex capo della CIA). Per la prima volta nella storia degli Stati Uniti un uomo forte era alla vicepresidenza mentre alla presidenza venne messo Reagan, ex attore di Hollywood in film di serie B (3).
Reagan e Bush designarono un triunvirato incaricato di organizzare la transizione: Ed Meese fu incaricato delle nomine e del programma, l’avvocato William Casey si occupò delle relazioni con l’Apparato e il brillante James Baker del coordinamento. In realtà Casey era stato l’officier traitant di Reagan quando questi a Hollywood era stato il parrain people del Comitato internazionale per i rifugiati (International Refugee Committee), una vetrina anticomunista della CIA. Appena fu possibile Reagan nominò Casey direttore di questa.
Subito dopo [30 marzo 1981] ci fu un tentativo di uccisione di Ronald Reagan per mano di un amico dei Bush. L’attentato fallì, ma Reagan capì il messaggio e lasciò le questioni di difesa interamente nelle mani del proprio vicepresidente.
In questo periodo la procedura di continuità di governo venne perfezionata.
Il governo militare di rimpiazzo inventato da Eisenhower fino ad allora era stato solo una procedura. Si decise di dargli consistenza. Si mise insieme un’équipe permanente, giganteschi bunker furono costruiti e altri vennero adattati, nei quali i membri del governo militare e i dirigenti di stato sopravvissuti avrebbero potuto mettersi in salvo: Cheyenne Mountain, Raven Rock (chiamato sito R) e Mount Weather. Fu installato un sistema di sorveglianza del governo civile per consentire al governo militare di seguire in tempo reale tutti gli affari in corso per essere in grado di proseguirne l’azione senza soluzione di continuità in caso di catastrofe nucleare. Due volte l’anno furono organizzate simulazioni di passaggio di governo. Il vicepresidente Bush, che godeva della piena fiducia dell’Apparato, venne scelto per la successione a Reagan [fu eletto nel 1988]. Il collegamento tra lo Stato sommerso e il team della campagna elettorale fu assicurato da un membro del Consiglio per la sicurezza nazionale, il generale Colin Powell.
Negli anni dal 1989 al 1991, “i guerrieri della guerra fredda” assistettero alla caduta dell’Unione Sovietica, che auspicavano da sempre, ma che li lasciò disorientati. L’Apparato aveva comunque compiuto la propria missione. Per 45 anni uomini in buona fede avevano ritenuto di dover difendere il proprio Paese manipolando le istituzioni e mettendo la democrazia fra parentesi. Come Dweight Eisenhower aveva previsto, alcuni di questi uomini si erano abbeverati troppo a lungo di questo potere per rinunciarvi. Privato della ragione della propria esistenza, lo Stato profondo si sarebbe attrezzato per sopravvivere. Ma ma a quale prezzo?
In mancanza di nemici, l’Apparato entra in guerra contro se stesso
Il difficile compito di individuare gli obiettivi degli Stati Uniti nel mondo postsovietico toccò a Gorge H. Bush. Pur con qualche esitazione, si inventò l’idea della costruzione di un “nuovo ordine mondiale” soggetto alla dominazione economica globale degli Stati Uniti. Ordinò una riduzione degli organici dell’esercito e studiò le possibilità per riconvertire l’Apparato per combattere i nuovi nemici. Per far fronte a questa minaccia alla propria sopravvivenza, lo Stato sommerso stimolò un’interessata alternanza di governo.
I giornalisti trotskisti, che la CIA aveva a suo tempo reclutato per combattere l’influenza sovietica all’interno della sinistra, erano passati al partito repubblicano sotto il nome di neo-conservatori ed erano diventati i propagandisti della lobby della guerra. Come banderuole che girano secondo il vento, si rivoltarono contro Bush senior rimproverandogli di non avere approfittato della caduta dell’Unione Sovietica per rovesciare, al termine dell’operazione Tempesta nel deserto [Guerra del Golfo, durata dal 17 gennaio 1991 al 6 aprile 1991, ndt], Saddam Hussein. Chiamarono così gli elettori a votare il solo candidato ritenuto in grado di intervenire nella guerra in Jugoslavia, Bill Clinton.
Consapevole dell’occasione che gli si offriva, Clinton impostò la sua campagna elettorale sulle nuove minacce emergenti e la necessità di militarizzare la Jugoslavia. Lanciò anche l’idea di una modernizzazione dell’esercito per adattarlo ai cambiamenti sociali, consentendo, tra le altre cose, l’accesso alle donne e ai gay. Bush senior, che era il presidente più popolare del XX secolo (il 90% dell’opinione pubblica gli era favorevole!) sottostimò la capacità dei “guerrieri della guerra fredda” di metterlo da parte. Per sottrargli una parte del suo elettorato, costoro finanziarono la candidatura dell’indipendente Ross Perot, un miliardario già servito da copertura per un’operazione di salvataggio delle Forze Speciali in Iran. Bush Sr. fu sconfitto [elezioni del 1992].
Il neo presidente Clinton si oppose alla revoca dell’embargo contro l’Irak, anche se Saddam Hussein si fosse adeguato alle risoluzioni dell’ONU, affamando così la popolazione irachena e causando almeno 500.000 morti. Però mise un freno al riarmo (in particolare bloccando il progetto di armamento spaziale) e rifiutò di dare il via alle operazioni militari in Jugoslavia, che era lo scopo per il quale l’Apparato l’aveva sostenuto. Fece anche di peggio, nel 1995, durante una simulazione di transizione, scoprì la composizione del governo ombra che l’Apparato aveva formato per sostituirlo. Era diretto dall’ex ministro della Difesa Donald Rumsfeld e ne facevano parte alcuni dei suoi collaboratori, come il capo della CIA James Woolsey. Queste persone, per essere pronte a subentrare, avevano messo sotto sorveglianza permanente il governo civile, di cui intercettavano tutte le comunicazioni e i documenti. Ritenendo l’Apparato, risalente alla Guerra fredda, ormai superato, Clinton – che rifiutava di essere un altro presidente usa e getta – ne ordinò lo scioglimento. E cominciarono i guai.
Il conflitto che si aprì cominciò a erodere gli Stati Uniti dall’interno: iniziò la lotta tra rappresentanti dello Stato sommerso, alcuni accecati dall’ebbrezza del potere, e altri che invece cercavano di fermare questa deriva diabolica. Questa lacerazione inesorabilmente spinge gli Stati Uniti verso la disintegrazione o la dittatura.
Passato alla completa clandestinità, e in parte ripiegato in Israele, lo Stato sommerso statunitense ordì un complotto contro Bill Clinton. Nel 1995 una stagista israeliana alla Casa Bianca, Monica Lewinsky, gli tese una trappola e lo trascinò in uno scandalo. Nel 1998-1999 fu sottoposto alla procedura d’impeachment. A differenza di Nixon, che non aveva spazio di manovra, Clinton fece marcia indietro. Mentre la Camera dei rappresentanti aveva appena votato la sua destituzione, Clinton ristabilì lo Stato sommerso. Fu salvato dal Senato. In seguito, ordinò alle forze NATO il bombardamento della Serbia.
Dopo questo braccio di ferro, l’Apparato non poteva permettere che il vicepresidente Albert Gore succedesse a Clinton. Ma il sistema per assicurare la continuità politica, così ben collaudato, si inceppò. Il candidato dell’Apparato, il repubblicano John McCain, perse una primaria decisiva e dovette cedere il passo a un personaggio poco credibile, Gorge W. Bush Jr. Precipitosamente venne messo in moto il meccanismo per plasmare questo candidato dell’ultimo minuto. Bush Jr si mise in coppia con Dick Cheney, il pezzo grosso del partito repubblicano e uno degli uomini dello Stato sommerso. Un gruppo di specialisti, i cosiddetti Vulcani (dal nome del dio che forgia le armi dell’Olimpo), diretti dall’inossidabile Kissinger e dalla sovietologa Condoleezza Rice, gli somministrarono una formazione accelerata. Un mare di dollari fu messo insieme per finanziare la sua campagna, ma non servì a nulla. Bush Jr. fu battuto da Al Gore. Così lo Stato profondo fu costretto a falsificare, in maniera smaccata e poco edificante, i risultati dello scrutinio. Il candidato che non si era riusciti a fare eleggere fu nominato presidente dalla Corte Suprema [20 gennaio 2001].
La transizione Clinton-Bush fu un lungo periodo di crisi. Durante la contestazione dei risultati, i fondi previsti dal Presidential Transition Act per i gruppi di lavoro furono congelati e gli immensi locali nei quali le équipe avrebbero dovuto lavorare chiusi. L’amministrazione Clinton dovette adottare misure eccezionali per proteggere il vicepresidente Gore. Alla fine, quando furono fatte serie minacce alla sua famiglia, Gore gettò la spugna. La coppia Bush Jr.-Cheney prese possesso della Casa Bianca. Come accadde al tempo della coppia Reagan-Bush Sr., il vero potere era nelle mani del vice presidente Cheney. Ancora una volta Donald Rumsfeld uscì dall’ombra e fu nominato segretario alla Difesa; Colin Powell divenne segretario di Stato e Condoleezza Rice Consigliere nazionale per la sicurezza. Qualche mese dopo l’Apparato organizzò gli spettacolari attentati di New York e Washington, rilanciando così la vocazione militarista statunitense, che adesso ha un nemico immaginario: il terrorismo islamico.
Invece di stabilizzare il sistema, i colpi di Stato del complotto Lewinsky del 1995-1999, le elezioni truccate del 2000, gli attentati del 2001 ne hanno accelerato la disintegrazione interna iniziata dopo la fine della Guerra Fredda. L’inadeguatezza dell’esercito Usa nella colonizzazione di Afganistan e Irak ha condotto a una catastrofe paragonabile a quella del Vietnam. Il progetto del vicepresidente Cheney, che individua nell’Iran la prossima preda, ha suscitato l’ammutinamento di una parte dello Stato maggiore, preoccupato dell’ingente spiegamento di forze che l’operazione richiederebbe (4). Per la prima volta l’Apparato è diviso, in guerra contro se stesso. Le due fazioni hanno un candidato ciascuna per la successione a Gorge W. Bush. E non si capisce in che modo i Clinton sperino di trarre profitto da questa situazione per prendersi la loro rivincita e portare Hilary allo Studio ovale. I ribelli sostengono Barak Obama e il progetto di ritiro parziale dall’Irak, in accordo con l’Iran, e di attacco al Pakistan; il clan Cheney invece sostiene John MacCain nella speranza di prolungare l’occupazione dell’Irak e proseguire il disegno di rimodellamento del Medio Oriente.
Nessuno di questi due candidati ha un piano per riconciliare le opposte fazioni interne all’Apparato. Per questo, chiunque sarà il prossimo inquilino della Casa Bianca non potrà arginare l’implosione del sistema.
Si può deplorare l’espansione dell’Apparato, ma bisogna riconoscere che rispondeva a una logica. Si può capire il motivo della messa fra parentesi della democrazia durante la Seconda Guerra Mondiale e la sua prosecuzione, la Guerra Fredda, ma non ci sono giustificazioni per la situazione attuale. In definitiva le contraddizioni interne del sistema hanno raggiunto l’apice quando i cantori dell’Apparato hanno preteso di democratizzare il mondo per mezzo delle armi.
1
Stay-behind: les réseaux d’ingérence americains, di Thierry Meyssan, Réseau Voltaire del 20 agosto 2001. Si veda soprattutto il libro di riferimento; NATO’s Secret Army: Operation Gladio and Terrorism in Western Europe, di Daniele Ganser (versione francese Les Armées Secrètes de l’OTAN, edizioni Demi-Lune 2007, che si può ordinare attraverso la Librairie du Réseau Voltaire. Vedi anche l’intervista di Silvia Cattori all’autore: Le terrorisme non revendiqué de l’OTAN, Réseau Voltaire, 29 settembre 2006.
2
La stratégie anti-russe de Zbigniew Brzezinski, di Arthur Lepic, Réseau Voltaire, 29 ottobre 2004
3
Donald Reagan contre l’Empire du Mal, Réseau Voltaire, 7 giugno 2004.
4
Washngton décrète un an de trêve globale, di Thierry Meyssan, 3 dicembre 2007.
Versione originale pubblicata il 24 febbraio da Réseau Voltaire:
La continuité du pouvoir US, derrière la Maison-Blanche
Traduzione di Rachele Marmetti