Iraq, Paura e ozio nella Green Zone
di Arnon Grunberg - 10/09/2008
Benvenuti nella fortezza post-decadente di Baghdad: mercenari peruviani minacciosi, prostitute cinesi, birra nascosta e doughnut - mentre gli iracheni guardano verso un futuro che non promette bene.
Prima di andare in Iraq avevo una immagine mentale della Green Zone di Baghdad. Pensavo di trovare una enclave occidentale strettamente sorvegliata, lussuosa, dove occidentali e alcuni iracheni selezionati vivevano un’ esistenza decadente. Più o meno quello che avevo trovato descritto in "Imperial Life in the Emerald City" di Rajiv Chandrasekaran, un libro eccellente sulla Zona dopo la caduta di Saddam.
E’ un martedì mattina di maggio inoltrato quando atterriamo sul LZ (sta per Landing Zone) Washington, l’eliporto della Zona. (Un giorno più tardi del previsto, dopo che una tempesta di sabbia aveva tenuto a terra tutto il traffico di elicotteri). Questa è solo la mia seconda volta in un Black Hawk, ma mi sto già abituando al mezzo di trasporto militare come taxi volante.
Dentro il piccolo edificio che include il terminal al LZ Washington, mi tolgo il mio giubbetto antiproiettile e l’elmetto. Quindi questa è Baghdad. Che la decadenza abbia inizio. Il noto saggista e filosofo berlinese Walter Benjamin può anche aver negato l'esistenza stessa di periodi di declino culturale ("Es gibt kein Verfallszeiten"), ma vedremo se è veramente così.
Ho bisogno di un pass del centro stampa in modo da poter girare liberamente nella Green Zone, così la prima cosa che devo fare è raggiungere il Combined Press Information Center. Ma quando provo a lasciare il terminal per guardare un po’ in giro, una guardia si gira verso di me e mi rimanda indietro nella sala d’attesa.
Il LZ Washington è sorvegliato da dipendenti della Triple Canopy, compagnia di soluzioni per la sicurezza. A Baghdad, Triple Canopy assume in gran parte peruviani. Gira voce che queste guardie una volta lavorassero per unità delle forze speciali dell’esercito peruviano. Avendo sconfitto Sendero Luminoso, ora sono state mandate a combattere "al-Qaeda in Mesopotamia" e a tener d'occhio le cose a Baghdad, dove guadagnano 75 dollari al giorno.
I soldati americani parlano dei mercenari con un misto di paura e disprezzo. “ Questi tizi sono dei veri bastardi”, mi dice un soldato statunitense. Posso essere a Baghdad, ma per il momento sembra di essere più a Little Lima.
Ci riprovo con il dipendente della Triple Canopy. "Amigo", mi azzardo. "Prensa". Un problema in più, in particolare con questi prezzolati è che parlano poco o niente l’inglese. La guardia flette il suo avambraccio destro, con il pugno stretto. Realizzo cosa significa: Stai dove sei. Il linguaggio della coercizione è universale. Chi ha la pallottola, non ha più bisogno della poesia. La pallottola è poesia. Chiamo il centro stampa e dico: "Temo che dovrete venire qua a prendermi".
Venti minuti dopo, compare un militare americano per scortarmi al centro stampa. Arrivato lì mi scannerizzano l’iride dell’occhio, mi fanno una foto, e mi prendono le impronte digitali di tutte e dieci le dita. Una soldatessa mi prende le dita una alla volta e le rigira intorno allo schermo di una piccola macchina. Forse è un effetto collaterale dei miei giorni da “embedded” con la 25esima Divisione di Fanteria, ma l’avere le dita rigirate intorno a quella piccola macchina mi fa sentire come all’apice erotico della mia esistenza.
Un’ora e mezza più tardi, mi consegnano il mio pass stampa per la Green Zone. Dopodiché nessuno fa più caso alla mia presenza. Un paio di iracheni, probabilmente giornalisti, stanno bevendo Coca Cola e controllano la loro posta elettronica sui computer del centro stampa. Sono un uomo libero.
Spero di entrare anche nella Zona Rossa, più tardi, ma per farlo avrò bisogno di una scorta. La città è più tranquilla rispetto al 2006, ma un occidentale vale ancora un bel po’ di soldi. E accuratamente archiviate nella mia memoria sono le parole di un collega dell’Independent, incontrato in Afghanistan nel 2007: "Morire non è poi così male. Ma l’essere sequestrato è ciò che temo di più”.
C'è una gran quantità di compagnie che vendono protezione a Baghdad. Alla fine vado con la Edinburgh International. Sembrano sapere il fatto loro e, oltretutto, la Edinburgh International affitta anche delle stanze. Anche con il mio pass stampa, mi avvertono che sarebbe da pazzi attraversare la città fino alla loro “pensione” da solo. Alex della Edinburgh International verrà a prendermi.
Alex, si scopre, è un soldato professionista delle isole Fiji che è a Baghdad da circa 4 anni. Va in giro con una vecchia Mercedes.
La mia prima occhiata alla Green Zone è una delusione: polverosa, cadente, e inospitale. Salta fuori che non si tratta di una sola zona, ma di un insieme di esse, separate da posti di blocco gestiti dai peruviani della Triple Canopy. Il quartiere della Zona conosciuto come Little Venice, per esempio, dove vivono molti importanti politici iracheni, è off-limits a coloro che non hanno gli agganci giusti. Per entrarvi, c'è bisogno di un invito.
All'interno della Zona ci sono diversi pass di diversi colori. Più badge hai, più velocemente riesci ad attraversare i posti di blocco. Il mio pass stampa mi mette nella stessa condizione di un iracheno che ha ottenuto a malapena il permesso di entrare nella Zona. Alex, pure lui, è un prezzolato senza privilegi.
Dopo un attesa di mezz’ora è il nostro turno, insieme ad altri circa 20 autisti. Le porte di ogni auto devono venire aperte completamente, così come il cofano e il portabagagli. I passeggeri devono stare in piedi dietro un muro, in modo da non poter vedere cosa sta succedendo alla loro auto mentre viene controllata.
Telefoni cellulari e armi vengono messi su un vassoio di plastica. Ci sono dei cartelli attaccati che dicono: "Forza letale autorizzata".
Qualcuno, credo uno dei peruviani, ha fatto un dipinto sul muro: una montagna, con scritto sotto in spagnolo: “Signore, perdonaci per le nostre malvagità".
Io sono l’unico occidentale in un gruppo di circa 40 iracheni. Alcuni di loro mi fissano perplessi.
Un peruviano lancia una bottiglia di acqua a un vecchio iracheno. Non ho mai visto della gente aspettare così passivamente. Questa è un tipo di attesa consacrata. Ho la sensazione di essere in un monastero, ma in uno in cui c'è l’autorizzazione a uccidere.
Dopo venti minuti al nostro gruppo viene fatto segno di proseguire. Un posto di blocco, per definizione, che sia in Iraq o nell'aeroporto della vostra zona, esiste per la nostra sicurezza. Ciò nonostante, chiunque abbia atteso ad alcuni posti di blocco a Baghdad, presto ha la sensazione che il posto di blocco non sia un mezzo ma un fine in sé. Viviamo per poterli passare. E quello che viene dopo il posto di blocco è un altro posto di blocco.
La “pensione” della Edinburgh International è situata lungo una strada secondaria sabbiosa, e serve anche, si scopre in seguito, da quartier generale della società in Iraq. Vengo accolto da Adam, che ha come mansione quella di "Operations Officer". Adam non è particolarmente loquace. "Porta le tue cose di sopra", mi dice. "Poi vai a mangiare un boccone".
Anche gli altri ospiti della “pensione” sembrano essere dei prezzolati. Più tardi, un diplomatico americano mi spiegherà che la maggior parte delle compagnie di sicurezza lavorano con mercenari di un determinato Paese. La Blackwater con gli americani, la Triple Canopy con i peruviani, la Edinburgh International principalmente con i sudafricani. Quelli della Edinburgh International una volta appartenevano alle forze speciali dell’esercito sudafricano. Ora mi stanno proteggendo a Baghdad.
Houghton è pronto a incontrarmi, purché gli prometta di non parlare della politica americana. La Green Zone non ha quasi nessun ristorante in cui incontrarci. In "Imperial Life in the Emerald City", Chandrasekaran parla di innumerevoli ristoranti cinesi, - ora tutti scomparsi. Ma a fianco del Freedom Café and Supermarket, che Houghton dice essere pressoché l’unico ristorante nella Zona, Freedom Chinese Food ha aperto i battenti solo pochi giorni fa. (Più tardi, in un altro settore della Zona, scopro il ristorante Arabian Nights, con i suoi souvenir in vendita, fra cui piccoli cammelli di legno, piccole lampade, e una scelta di tappeti).
Per raggiungere il Freedom Chinese Food bisogna attraversare un piccolo ponte. Il ponte ha come unico scopo quello decorativo, ed è così scivoloso che devi tenerti al corrimano per non rischiare la vita mentre lo passi. Le ragazze cinesi, recentemente importate dalla Cina, assomigliano a dei travestiti, ma sembrano anche essere prostitute.
Richard Houghton è un americano alto in pantaloncini. Sfoggia un grande tatuaggio. Parla inglese, tedesco, francese, cinese, giapponese, e arabo.
"Allora cosa dici del Baghdad Country Club?", chiedo. Il "Baghdad Country Club" una volta era il migliore locale notturno della Green Zone. Il luogo in cui avveniva di tutto.
Houghton ride. “E’ stato chiuso", dice. "Uno dei tizi che avevano avviato il Baghdad Country Club aveva aperto un negozio di liquori, e poi un ristorante. Ma dopo ha dovuto chiudere il posto; la gente che lavorava con lui non aveva i badge giusti".
Senza i badge giusti nella Green Zone, sei spacciato. “Sai”, aggiunge Houghton, "i giorni in cui tutto qui intorno era aperto sono praticamente terminati. La festa è finita".
Il Freedom Chinese Food in effetti è post-decadente. Se vuoi ordinare una birra, devi chiedere un "pee-you", che in cinese significa birra. Ricevi la tua birra in una tazza da caffè. In Iraq - al contrario del Kuwait, per esempio - l’ alcol può essere servito legalmente, ma persino nella Green Zone rimane una faccenda delicata.
"Allora, cosa c’è rimasto da fare qui in giro nella Zona?", chiedo.
"Non lontano da qui, un tedesco ha aperto un negozio di doughnut”, mi dice Houghton. "Hanno già provato circa 30 ricette diverse, ma penso che ora abbiano praticamente capito come farle”.
"E le ragazze cinesi che lavorano qui, sono prostitute?”
"Ho i miei sospetti", dice. "A giudicare dal loro cinese, non sono di Pechino".
"Allora, come hanno fatto a finire a Baghdad?"
"Be’, ragazzo", dice Houghton. E, dopo una breve pausa: "Come hai fatto tu a finire qui? Come ho fatto a finirci io qui?"
Di fronte al Freedom Chinese Food c’è il Café Dojo, il ristorante di doughnut: nulla più che una piccola baracca lungo una strada sabbiosa. Se non sapessi come stanno le cose, non crederesti mai che qui fanno dei doughnut.
Tre uomini sono seduti nella veranda. Una guardia prova a fermarmi. “Che cosa vuoi?”, chiede.
"Voglio mangiare un doughnut", dico.
Un giovane asiatico mi porta un doughnut in un piatto di plastica. Il doughnut è accompagnato da un'orda di mosche, e non appena si alza il vento ogni cosa viene coperta da uno strato di sabbia. Gli uomini bianchi seduti accanto a me hanno pance enormi. Nella Green Zone, nessuno si deve vergognare. Ogni epoca ha il suo buco nero. Baghdad è il buco nero dei nostri tempi.
"Nei mercati all'aperto, i fondamentalisti non permettono ai commercianti di esporre i cetrioli a fianco dei pomodori", dice, mentre prendiamo l’insalata di cetrioli dal buffet. “Questo è uno dei segnali che i fondamentalisti sono in declino". E’ mezzogiorno di un venerdì, e siamo i soli clienti del ristorante.
"Noi paghiamo un alto prezzo per la libertà e la democrazia”, dice. “Paghiamo con il sangue”. Prendiamo entrambi un bicchiere di succo di frutta. “Ma”, aggiunge, “il prossimo anno tutto migliorerà – allora poi i cinque anni saranno finiti”.
"I cinque anni?"
"Il periodo di cinque anni nel quale alla gente è stato permesso di ricoprire alti incarichi nel governo iracheno mantenendo la doppia cittadinanza. Quando i cinque anni saranno finiti, questo non sarà più possibile. Allora si dovrà scegliere. Non si potrà più dire: 'Che me ne importa, ho sempre la Siria come alternativa'".
"Veramente questo farà una grande differenza?", chiedo. Annuisce con convinzione."Comunque le cose sembrano già calmarsi”, dico.
"Sì, ma questo è a causa dei soldi. Prima è arrivata al-Qaida e ha detto: 'Qui ci sono 200 dollari se piazzi una bomba.' Poi sono venuti gli americani e hanno detto: 'Qui ce ne sono 300; tutto quello che devi fare è di non piazzare quella bomba'. Questo è efficace.
"La famiglia di un attentatore suicida riceveva fino a 100.000 dollari. Sai da dove saltano fuori quei soldi? Arabia Saudita. In realtà, quella che era in atto qui era una guerra tra Iran e Arabia Saudita. E non sono convinto che questo non fosse il piano fin dall’inizio”.
Lo presso per capire cosa intende.
"Un americano una volta mi disse: 'La scelta finale è la miglior scelta'. Se tutto fosse andato secondo i piani, non ci sarebbe motivo per loro di stare ancora qua con 150.000 soldati".
"E riguardo all’Iran?", chiedo. "Ci sarà una guerra contro l’Iran?"
"Lo spero", dice. "L’Iran è la fonte di tutti i problemi. I persiani hanno sempre odiato gli arabi. Ma quella guerra ancora non arriverà. Forse tra 15, 20 anni a partire da adesso".
Per dessert, prendiamo frutta. "Gli imam", dice, "hanno detto alla gente: Dio vuole che combattiate contro gli americani. Ma Dio non vuole che tu combatta contro gli americani. Perché se tu combatti contro gli americani, vai verso la sconfitta, e Dio non vuole che tu perda. Gli americani hanno basi militari in Germania, nei Balcani, in Kuwait, in Qatar: dunque, perché non qui? Con il loro aiuto, l’ Iraq può diventare il centro del Medio Oriente. Noi siamo più ricchi e più altamente sviluppati dell’Egitto".
Quando per me è ora di andare, lui esce con me, e aspetta sotto il sole cocente fino a che Adam non arriva per riportarmi alla ”pensione” che in effetti è una specie di prigione.
"La cosa di cui l’Iraq ha bisogno adesso", dice prima che io salga in macchina, "è un Papa ad interim. Un dittatore benevolo, come quello che hanno a Dubai. E’ un dittatore, ma la sua gente lo ama. Le elezioni non sono l’inizio del processo di democratizzazione, sono la fine. Non ho votato, sapevo che i politici non erano buoni".
Un viaggio di una giornata nella Zona Rossa con le guardie del corpo costa 7.000 dollari. Mi hanno detto che i giornalisti del Washington Post e del New York Times nella capitale irachena lavorano anch'essi con elaborate misure di sicurezza. Il mio pass stampa può non valere molto, ma se hai pagato 7.000 dollari per la protezione, passi dritto attraverso tutti i posti di blocco.
La Zona Rossa - o per lo meno questa parte di essa che è la strada che porta all’aeroporto - sembra essere una sequenza di posti di blocco, con unità dell’esercito iracheno piazzate ogni 20 metri. La mia meta è l’Hotel Al Hamra, dove vado a incontrare due contatti iracheni di un amico corrispondente che visita regolarmente Baghdad. L’ Al Hamra, dove stanno molti giornalisti, è un fortino. Una serie di posti di blocco e muri di cemento. Ma una volta che sei all'interno c’è una piscina.
Luay è un iracheno amichevole, piuttosto grassoccio, che lavora per un giornalista di USA Today. Quando il giornalista non è in città, lui è in ferie. Ci sediamo al ristorante deserto dell’Al Hamra. Il personale di servizio consiste in un solo uomo, in piedi di fronte a qualcosa che assomiglia a un leggio.
Luay mi dice: "La mia fiducia nella mia religione diminuisce ogni giorno che passa". Non vuole nulla da bere, ma fuma come una ciminiera.
"Bisogna andare dove è il potere", prosegue. "Bisogna essere pragmatici". Si accende un'altra sigaretta. "Mi hanno detto”, dice piegandosi verso di me quasi stia cospirando, “che quando gli iracheni vanno nella Green Zone per ottenere un contratto, si portano dietro delle ragazze per ottenere il favore degli uomini che devono firmare".
Un’ora dopo, Ammar si unisce a noi. Ammar aveva un hotel, ma la gente ha smesso di andarci. Sia Luay che Ammar sono sciiti. "Al-Sadr ha i giorni contati", dice Ammar, riferendosi al leader dell'Esercito del Madhi. "La gente in Iraq è stufa del fondamentalismo religioso”.
"E cosa mi dici riguardo alla prostituzione qui?”, chiedo, facendo seguito a un’osservazione fatta in precedenza da Luay.
Ammar scrolla le spalle. "Qual è il problema? Come credi che riescano a campare gli iracheni che sono scappati in Siria? Una o due figlie mantengono tutta la famiglia".
Luay aggiunge: "Noi iracheni vogliamo solo una cosa: vivere".
Tradotto dall’olandese da Sam Garrett.
(Traduzione di Piergiorgio Rosetti e Kristin Anderson Rosetti per Osservatorio Iraq)
Articolo originale
Salon.com

